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4 luglio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Concetti fondamentali della metafisica è un libro con il quale Heidegger non si prefigge di dire che cos’è la metafisica; questo lo aveva fatto nella celeberrima prolusione del ’29, appunto, Che cos’è metafisica. Qui, invece, si tratta di intendere quali sono le condizioni di pensabilità della metafisica, non che cos’è ma come si giunge a penare la metafisica. La questione interessante è che questo discorso, che fa Heidegger, giunge a considerare in parte anche la potenza della metafisica ma, soprattutto, il fatto che la metafisica si impone come il pensare concettualizzante e totalizzante. Ora, lui si propone di porre le condizioni per pensare correttamente la metafisica; pensarla correttamente significa pensare la metafisica come l‘oblio dell’essere. Qui essere è da intendersi nell’accezione in cui ne parla Heidegger, non l’essere platonico ma come l’esser-ci, come l’essere storicamente situato. Se io dimentico questo è chiaro che l’ente mi si presenta astorico, avulso da tutto ciò che riguarda il mio progetto, il mio esser-ci, da tutto ciò che, in definitiva, lo fa esistere nel modo in cui per me esiste in quel momento, e allora sono costretto a pensare l’ente come qualcosa che è quello che è per virtù propria, penso l’ente così com’è, come qualcosa che è lì e, quindi, fuori del linguaggio. Questa, peraltro, è anche la condizione per potere esercitare su quell’ente, su quella cosa, la volontà di potenza. Heidegger seguendo Nietzsche, anche perché è stato Nietzsche a porre la questione in termini precisi, fa risalire l’inizio della metafisica a Platone. Ricordate il famoso detto attribuito a Aristotele, anche se questo non è sicuro: Plato amicus sed magis amica veritas, Platone è un amico ma lo è di più la verità, per cui se Platone erra, lo buttiamo via, quello che conta è la verità. Infatti, per Platone è così, con Platone inizia il pensiero metafisico. L’idea di Platone, in effetti poi è Socrate, era quella di raggiungere la conoscenza vera, la verità; è stata la prima manifestazione della volontà di verità, Socrate è stata la prima figura della volontà di verità, cioè, della volontà di potenza, cioè ancora, della metafisica, perché la volontà di potenza può esercitarsi a condizione che l’ente sia conoscibile, quindi, dominabile, manipolabile, ecc. Quindi, ponendo Platone come la prima figura della volontà di potenza, fa risalire tutta la questione della metafisica a Platone e da lì, ovviamente, è partito tutto quanto e da allora non si è più tornati indietro. Questione interessante perché Platone ha fornito un’arma straordinaria, la tecnica, un’arma per dominare l’ente. Una volta che ha posto l’ente come l’oggetto contrapposto a me, e che devo conoscere, da lì è incominciata l’idea del soggetto-oggetto, poi, sì, formalizzata con Cartesio ma già lì si è posta la questione del soggetto e dell’oggetto, oggetto che è lì e quindi conoscibile, dominabile. Nella prolusione famosa del ’29, che Heidegger tenne a Friburgo, la questione viene posta in modo molto preciso rispetto all’oblio dell’essere. Come si può intendere bene la questione dell’oblio dell’essere se non ponendo questo oblio come la cancellazione di me, in quanto esserci, e quindi della mia storicità, di tutto ciò che interviene a fare in modo che questa cosa si manifesti per me nel modo in cui si manifesta. È l’ente che esiste di per sé, che è poi il criterio fondamentale della scienza, anziché l’esser-ci, cioè io in quanto storicamente determinato, situato in una determinata Stimmung, stato d’animo. Approcciare “correttamente” la questione della metafisica è tenere conto che la metafisica si fonda sull’oblio dell’essere. Tutto ciò che Heidegger ci ha detto fino a qui è una preparazione a intendere proprio questo, e cioè, come dice lui, bisogna destare questo stato d’animo, la noia profonda, dove c’è l’opportunità di accorgersi dell’inganno della metafisica. La metafisica è ciò che lascia vuoti, nel senso che la metafisica, cercando di conoscere l’ente in quanto tale e, quindi, dimenticando tutto ciò che fa dell’ente quello che è, cioè la mia storicità, illude di potere controllare l’ente. Illude, o meglio, pone le condizioni perché ci sia la volontà di potenza. Di fatto, metafisica e volontà di potenza sono la stessa cosa. Quindi, pensare correttamente la metafisica significa fare in un certo modo un passo indietro rispetto alla chiacchiera e tornare, rivenire all’esser-ci, cioè, a quella cosa che progettandosi è sempre gettata innanzi, è sempre gettata verso un qualche utilizzabile, verso un qualche cosa che deve manipolare. Tornare all’esser-ci comporta, invece, il tornare al fondamento dell’esser-ci, cioè al nulla. Potremmo dire che l’esser-ci è quella cosa che, per esserci, non c’è; per essere quella cosa, cioè progetto, deve essere già altrove; è in questo senso che per esserci non deve esserci. L’importanza di tutto ciò è straordinaria, ne va in tutto questo del pensiero stesso; non soltanto, del futuro dell’umanità, della possibilità stessa di continuare a pensare, perché per pensare è necessario che mi faccia carico di quel problema che il linguaggio è, cioè, il linguaggio si pone come problema, come qualcosa da pensare sempre, continuamente, in quanto è qualcosa che si dà e allo stesso tempo si sottrae. Esattamente come l’essere per Heidegger: nel momento in cui si dà si sottrae, perché si dà sotto forma di ente. L’aspetto pratico di una cosa del genere è abbastanza facilmente coglibile, nel senso che quando ci si trova a pensare a qualunque cosa, a qualunque evento, ci si trova di fronte a una sorta di bivio: o prendere la cosa così come appare, come un qualcosa che è per virtù propria, oppure è da pensare. Questo pensare è qualcosa, lo dice pure Heidegger, di molto faticoso, non viene naturale, è una “forzatura”, però, lui ha aperto questa possibilità, cosa che dovrebbe fare la filosofia da quando esiste: aprire nuove possibilità, nuove vie, nuove possibilità di pensiero: Quindi, l’altra via è quella di trovarsi di fronte a un qualche cosa tenendo conto che questo qualche cosa ci appare così come ci appare per via di come io sono in questo momento, sia per la storicità che mi determina sia per lo stato d’animo con cui affronto quella cosa. Pensare che ciò che ho di fronte è quello che è per virtù propria è, come abbiamo detto, la condizione della metafisica e, quindi, della scienza. La scienza è profondamente metafisica, anzi, è l’apoteosi della metafisica; per questo Heidegger diceva che la scienza non pensa, perché la scienza indaga, indaga l’ente per vedere com’è veramente ma dimenticando l’esser-ci. Quindi, la scienza si trova a considerare l’ente, a indagarlo, presupponendo che l’ente sia quello che è e immaginando che sia esattamente quello che la scienza pensa che sia e non altro. La scienza, cioè, pensa che sia quello e in base a questo costruisce tutte le sue storie. Dunque, pensare, cosa che la scienza non fa, perché pensare significherebbe rimettere in questione quei presupposti che la scienza dà per scontati. Pensare è pensare ciò che è più ovvio, ciò che è più scontato, ciò che non sarebbe più da pensare, mentre è sempre lì ancora da pensare. Questo ciascuno lo può ritrovare nel suo fare, nel suo pensare, nel suo quotidiano, questa possibilità, questa decisione, questo attimo, cioè la possibilità di cogliere l’attimo in cui io decido. Se prendo l’ente come un qualche cosa che sta per conto suo oppure accolgo questa cosa che mi riguarda, nel senso che mi afferra mentre io la considero. Io afferro la cosa ma, come diceva Heidegger, ne sono anche afferrato, cioè, mi modifica: rivolgendomi alla cosa modifico la cosa, la quale cosa modifica me. Questa è una possibilità, che Heidegger ha mostrato, che riguarda la vita quotidiana di ciascuno in ogni momento, ma Heidegger è consapevole che è faticoso.

Intervento: Trovo che in questi discorsi di Heidegger ci sia molta psicoanalisi.

In un certo senso, sì. È chiaro che la lettura che stiamo facendo di Heidegger tiene conto di una formazione psicoanalitica e, quindi, del fatto che qualunque cosa ci si trovi di fronte è l’occasione per pensare, ma pensare nel modo in cui lo intende Heidegger, perché tutte le disquisizioni che si sono fatte, e che si fanno ancora, intorno alla questione se la psicoanalisi sia o non sia una scienza sono delle stupidaggini di proporzioni colossali. La psicoanalisi non solo non è una scienza ma non deve essere una scienza, se lo fosse perderebbe di vista il suo compito, che è il pensiero, è una riflessione intorno al pensiero, al perché penso le cose che penso, da dove viene questo pensare, cosa lo supporta; semplicemente si atterrebbe, secondo alcuni, alla logica, cioè a un sistema di calcolo, senza tenere conto minimamente che la logica, i suoi calcoli vari, proposizionali, ecc., non si chiede nulla intorno a sé nel proprio operare, semplicemente opera, calcola. Che qualcosa risulti logicamente vero non garantisce nulla, di fatto, della verità, della correttezza, della validità di una certa affermazione; la logica non può garantire niente, può solo fare un calcolo e se lo esegue correttamente giunge a un teorema. Ecco, questo è un po’ l’approccio di questo libro di Heidegger alla metafisica: non si propone di dire che cos’è la metafisica ma quali sono le condizioni per cui si è giunti a pensare la metafisica e, soprattutto, come pensarla in modo adeguato. Per pensarla in modo adeguato è chiaro che devo interrogare i presupposti che la fanno esistere e che per Heidegger sono fondamentalmente tre: mondo, finitezza e solitudine. Il mondo, certamente, è delle condizioni fondamentali della metafisica, cioè, la totalità degli enti. La metafisica si prefigge di cogliere l’universalità dell’ente, cioè la totalità dell’ente, dimenticando l’essere. Fatta questa brevissima premessa, andiamo avanti. Siamo a pag. 217. Il più profondo ed essenziale stato di necessità nell’esser-ci non consiste nel fatto che uno stato di necessità reale e determinato ci opprima, bensì nel fatto che un’oppressione essenziale si neghi… Qui distingue tra due tipi di oppressione: un’oppressione che viene da una contingenza e un’oppressione che invece procede dal verificare in atto l’impossibilità di farsi padroni dell’ente. …nel fatto che difficilmente percepiamo e possiamo percepire questo negarsi dell’oppressione nella sua totalità. E questo perché ciò che in questo diniego si annuncia, non può venir udito. Poiché non viene udito, possiamo soltanto e anzitutto informarci. Ma così come sull’esser-lasciati-vuoti del nostro esser-ci, dobbiamo altresì informarci sull’essere-tenuti-in-sospeso che gli è unito, per ottenere così l’intero interrogarsi intorno a una noia profonda come stato d’animo fondamentale del nostro esser-ci. L’oppressione sarebbe una sorta di stato d’animo che segue all’essere tenuti in sospeso e all’essere lasciati vuoti. Questa è l’oppressione, cioè, il non avere via di scampo. Lo leggevamo la volta scorsa quando parlava del tempo come ciò che incanta e incatena: non dà via di scampo, cioè, mi incatena al qui e adesso – è questa la temporalità. Al tempo stesso incanta perché dà questa possibilità infinita di decidere. Ogni diniego ha la sua forza e incisività unicamente nel fatto che ciò che in esso viene negato in quanto tale, viene anche co-originariamente annunciato con durezza, vale a dire annunciato e preservato nella sua necessità. Sta dicendo che se nego qualcosa è chiaro che lo sto anche affermando, cioè, nego qualcosa che c’è, non posso negare qualcosa che non c’è. Ma se noi oggi non comprendiamo questo stato di necessità essenziale del nostro esser-ci, l’assenza di oppressione… L’assenza di oppressione interviene nel momento in cui avvertendo questo esser lasciato vuoto mi precipito, per usare le sue parole, verso qualche scacciatempo, mi precipito immediatamente a togliere questa oppressione, mi precipito nella chiacchiera, quindi, mi precipito verso l’ente metafisico, mi precipito verso qualche cosa che immagino sia quello che è e che, quindi, non mi chiami in causa. Chi non pretende nulla da se stesso, non potrà mai sapere nulla di un diniego e di un esser-negato, bensì si culla nel piacere di avere ciò che desidera e di desiderare solamente ciò che può avere. Tuttavia, così come non abbiamo potuto constatare come sussistente il profondo essere-lasciati-vuoti del nostro esser-ci cui abbiamo fatto riferimento e sul quale abbiamo potuto solamente, interrogandoci, richiamare l’attenzione, così anche adesso possiamo solo chiederci: cosa viene con-annunciato in questo restare assente dell’oppressione, in questo negarsi dell’ente nella sua totalità? Negare l’oppressione è un negare l’ente nella sua totalità, ma l’ente nella sua totalità non è niente altro che il mondo; quindi, nego il mondo, nego a questo aggeggio (il posacenere) di essere nel mondo. Se non è nel mondo allora posso considerarlo, manipolarlo, ecc.; se è nel mondo mi co-appartiene, considerando questo considero anche me, non posso non farlo. È questo che la scienza tiene a distanza. Quale essere-tenuti-in-sospeso determinato può appartenere a questo determinato esser-lasciati-vuoti. Lo specifico essere-tenuti-in-sospeso della noia profonda l’abbiamo conosciuto come essere-costretti nel culmine di ciò che rende possibile l’esser-ci in quanto tale, nell’attimo. La specificità dell’essere tenuti in sospeso, in questa noia profonda, è il suo culmine, che è quell’attimo in cui c’è una pura possibilità: io sono tenuto in sospeso perché sono nell’attesa, per così dire, della decisione. Questo attimo è nulla, è vuoto, però, questa vuotezza è la condizione perché ci sia possibilità. Ci domandiamo dunque: quale attimo può e deve essere co-annunciato come ciò che autenticamente rende-possibile in quel negarsi dell’oppressione? A che cosa deve decidersi l’esser-ci in quanto tale, per spezzare l’incantesimo incatenante di quello stato di necessità – lo stato di necessità del restare assente dell’oppressione nella sua totalità -, cioè per essere finalmente e soltanto allora all’altezza di quel profondo stato di necessità ed essere aperto ad esso, per sperimentarlo davvero opprimente? Questa oppressione, quella che lui considera come interessante, quindi, un lasciarsi aperti a questa oppressione, a questo essere vuoti, a questo essere in sospeso, e non cercare immediatamente uno scacciatempo. Che cos’è ciò? Questo: che nell’uomo entra in tensione l’esser-ci in quanto tale, che gli viene assegnato il compito – di esser-ci. In questa oppressione è come se si mantenesse una sorta di tensione, tensione perché è un essere sospesi, e la sospensione è un essere in tensione verso qualche cosa. È in questa tensione che l’esser-ci trova il suo compito, cioè quello di esser-ci, un essere qui storicamente determinato. Che l’oppressione nella sua totalità… Lui distingue tra l’oppressione nella sua totalità, verso cui occorre essere aperti, e l’oppressione determinata da un qualche cosa. Che l’oppressione nella sua totalità oggi resti assente, si mostra forse nel modo più evidente e marcato nel fatto che oggi presumibilmente più nessuno si fa carico dell’esser-ci, e che riusciamo invece tutt’al più a lamentarci delle miserie della vita. L’uomo deve in primo luogo nuovamente decidersi ad affrontare tale tensione. Una cosa che altrove ha chiamato “angoscia”, che non va intesa in senso negativo come fa la psicologia ma come una condizione alla quale aprirsi, alla quale incominciare a pensare. La necessità di questa decisione è il contenuto dell’attimo del nostro esser-ci, che cooriginariamente si nega e si annuncia. La peculiarità dell’esser-ci è di annunciarsi e di negarsi: si annuncia in quanto si progetta; si nega in quanto progettandosi è già da un’altra parte. È la stessa cosa che accade, dicevamo tempo fa rispetto alla semiotica, al segno: un segno si annuncia ma, nel momento in cui si annuncia, anche si nega, perché per poterlo dire, per poterlo annunciare, devo negarlo. Ricordate la formula a è b: per potere dire a devo dire un’altra cosa, devo negare la a, farla scomparire a vantaggio della b, ma soltanto questa b consentirà alla a di esistere. A che cosa deve dunque decidersi l’esser-ci? A procurare nuovamente a se stesso il vero sapere su che cosa sia ciò che rende autenticamente possibile questo stesso. Cioè, che cosa rende possibile questo sapere. Qui è posta chiaramente la questione della metafisica, cosa sia ciò che rende autenticamente possibile questo sapere, cosa rende possibile il sapere della metafisica, quel sapere che originariamente Platone aveva cercato come la cosa più importante, inaugurando tutto il pensiero metafisico e tecnico, come Nietzsche aveva sottolineato. Dunque, che cosa rende possibile questo? E che cos’è ciò? Il fatto che all’esser-ci in quanto tale debba sempre incombere l’attimo in cui si porta dinanzi a se stesso come a ciò che autenticamente lo vincola. In queste ultime righe c’è il pensiero di Heidegger. Rileggo il passo. Il fatto che all’esser-ci in quanto tale debba sempre incombere l’attimo… L’attimo è questa pura possibilità. …in cui si porta dinanzi a se stesso come a ciò che autenticamente lo vincola. L’esser-ci si getta in avanti, è progettato, verso ciò che autenticamente lo vincola e lo vincola in quanto il gettarsi innanzi è ciò che l’esser-ci autenticamente è, è sempre un essere gettato avanti. Quindi, ciò che rende possibile il pensiero, ci sta dicendo Heidegger, non è la metafisica, cioè la conoscenza dell’ente in quanto ente… Ricordate la differenza tra metafisica generalis e metafisica specialis? La metafisica generalis è quella che studia l’ente in quanto ente; la metafisica specialis si occupa invece dell’ente in quanto determinato; per esempio, il numero, non si occupa del numero come fa la matematica ma si occupa del numero in quanto numero, vuole sapere che cos’è il numero. La metafisica generalis, quella di cui ci occupiamo, vuole invece sapere che cos’è l’ente in quanto ente, cioè, che cosa garantisce all’ente la sua enticità. Quindi, l’esser-ci si porta innanzi a se stesso e in questo modo si trova di fronte a ciò che lo vincola in quanto esser-ci, cioè si trova continuamente a essere progettato. Dinanzi a se stesso – non come ideale immutabile e immagine archetipa, fissata rigidamente, bensì dinanzi a se stesso come ciò in cui si deve nuovamente e a forza appropriarsi della propria possibilità e, in un tale possibilità, assumere se stesso su di sé. Questo trovarsi dinanzi a se stesso, che fa parte dell’esser-ci, non è il trovarsi davanti a qualcosa che deve raggiungere come ideale, posto da qualche parte, ma semplicemente deve raggiungerlo per autenticamente essere quell’esser-ci che di fatto è, cioè, una pura possibilità: l’esser-ci è pura possibilità. Quindi, l’esser-ci, gettandosi in avanti, trova se stesso, perché è progetto, quindi, non può essere sempre progettato in avanti. Pertanto, che cosa trova? Trova la cosa, l’aggeggio? No, trova se stesso, in quanto progetto, perché è solo questo. A pag. 221. Parte seconda. L’effettivo domandare delle questioni metafisiche che devono venir sviluppate a partire dallo stato d’animo fondamentale della noia profonda. La questione è: che cos’è mondo? Capitolo Primo. Le questioni metafisiche che devono venir sviluppate a partire dallo stato d’animo fondamentale della noia profonda. § 39. Le questioni di mondo, isolamento e finitezza come ciò che lo stato d’animo fondamentale della noia profonda del nostro esser-ci odierno pone come interrogativi. L’essenza del tempo come radice delle tre questioni. Questo è solo il titolo. Ciò che ci opprime è l’assenza dell’oppressione nella sua totalità… Come abbiamo visto, l’oppressione nella sua totalità è quella che procede dall’essere lasciati vuoti e dall’essere tenuti in sospeso. Potremmo porre questa oppressione semioticamente in questo modo, e cioè come quel momento in cui il segno si volge verso il segno successivo, che lo fa essere segno ma che ancora non ha raggiunto e, quindi, è in sospeso. È in sospeso ma sa che lo raggiungerà, perché non può non raggiungerlo, però in quel momento è in sospeso. Cosa significa questo, “nella sua totalità”? Come può l’esser-ci esser posto in tal modo nell’ente nella sua totalità? Cos’è all’opera, quando questo “nella sua totalità” si stringe intorno a noi? L’ampiezza di questo “nella sua totalità” che si manifesta nella noia profonda, lo chiamiamo mondo. In relazione a ciò, dinanzi cui questo stato d’animo ci pone, dobbiamo domandarci: che cos’è mondo? Il mondo è la totalità degli enti o, come diceva Wittgenstein, la totalità dei fatti, però, ciò che è in questione qui è il concetto di totalità. Nel negarsi dell’ente nella sua totalità… L’ente nella sua totalità si nega, cioè, si nega perché io ho di fronte sempre un ente specifico, un ente particolare, non ho mai di fronte l’ente nella sua totalità. Per usare il famoso esempio di Patone: ho davanti un cavallo, non la cavallinità. In questo senso, l’ente nella sua totalità si nega, il concetto universale si nega perché io ho sempre e soltanto di fronte degli enti particolari, immanenti. Nel negarsi dell’ente nella sua totalità è con-annunciato ciò che rende autenticamente possibile l’esser-ci, cioè l’attimo. L’attimo è lo sguardo della decisione dell’esser-ci all’esser-ci… È l’esser-ci che decide di essere quello è, di essere progetto. Ogni volta che io decido qualche cosa, ogni volta che mi trovo di fronte a una possibilità e decido, l’esser-ci, cioè io, decide per l’esser-ci, per essere progetto. …il quale di volta in volta è, come esistere, nella situazione colta nella sua pienezza, come questo esser-ci di volta in volta irripetibile e unico. In relazione a ciò che questo stato fondamentale ci annuncia come possibilità, ci chiediamo: cos’è l’attimo? Cos’è ciò che accade in esso e con esso? Cos’è l’isolamento dell’esser-ci verso se stesso? Ci interroghiamo su mondo e isolamento non come su due cose qualunque, bensì come su ciò che, proprio nello stato d’animo fondamentale della noia profonda, si manifesta in una unità e struttura originaria, e che, solamente come tale unità, ci può pervadere nel diniego annunziante e nell’annunziare che nega. Sta riprendendo le cose dette prima, e cioè ci interroghiamo su mondo e isolamento non come enti in quanto tali ma, dice, questa interrogazione particolare ci è consentita da quello stato di noia profonda. È in questa noia profonda che possiamo cogliere tale unità, questa struttura originaria che si pone come unità di mondo e di isolamento. La totalità degli enti non la colgo; da qui l’isolamento, per cui mi sento isolato rispetto al resto degli enti. Io ho di fronte un ente ma non la sua totalità: ho un posacenere non l’ente nella sua totalità, la posacenerità. Non ho tutti gli enti di fronte ma solo enti particolari. A pag. 223. …la questione del tempo è l’origine di tutte le questioni della metafisica e del loro possibile sviluppo. È chiaro che se io pongo il tempo come successione di elementi lo pongo come qualcosa di misurabile, calcolabile, che serve propriamente alla tecnica, che mi consente di cogliere l’ente in quanto ente, per conto suo. A pag. 224. Abbiamo tentato di chiarire uno stato d’animo del nostro esser-ci, una noia profonda del nostro esser-ci, seguendo il filo conduttore e alla luce della relativa chiarezza del fenomeno della noia, e in particolare della noia profonda, che abbiamo illustrato. Questa chiarificazione ha proceduto nella forma dell’interrogare. Nel far ciò abbiamo preso le mosse da uno dei momenti della noia profonda, l’esser-lasciati-vuoti nel senso del negarsi dell’ente nella sua totalità. L’ente nella sua totalità si nega ed ecco che si è lasciati vuoti, manca la pienezza, quella pienezza che, per esempio, la scienza va cercando, illusoriamente perché ovviamente non la troverà mai, dovrebbe uscire dal linguaggio, ma se esce dal linguaggio non può più fare assolutamente nulla. A ciò corrisponde nella noia profonda, intorno alla quale ci interroghiamo, l’assenza dell’oppressione, la mancanza di mistero nel nostro esser-ci, che conosce solamente stati di necessità e legittime difese, che si muovono immediatamente nella stessa dimensione dell’esser-ci o forse in una ancora più superficiale.al tratto interno dell’essere-lasciati-vuoti, cioè al restare assente dell’oppressione, corrisponde un particolare essere-tenuti-in-sospeso nel senso dell’attimo che indirettamente viene con-annunciato. La questione che importa a Heidegger è questo essere lasciati vuoti che corrisponde a quell’attimo: sì, sono lasciato vuoto, dice lui, ma intanto non vado a cercare qualche aggeggio come scacciatempo o scaccia-oppressione. Questo essere lasciato in sospeso lui lo attribuisce a quell’attimo, a quella pura possibilità che dà l’occasione della decisione. In conformità al restare assente dell’oppressione nella sua totalità è con-annunciata la necessità, relativa a questa situazione, la necessità della estrema imposizione nei confronti dell’uomo, secondo la quale questi deve esplicitamente e propriamente prendersi su di sé il proprio esser-ci, prenderlo sulle spalle. Vale a dire, deve prendersi carico di questa cosa. l’oppressione è come se fosse un indicatore che dice di che cosa dobbiamo farci carico in quella occasione, farci carico del fatto che l’attimo, che ci consente la decisione, sono io, è la mia storicità: questo attimo viene prodotto dalla mia storicità. Io resto sospeso in questo attimo ma questo attimo è in un certo senso tutto, perché lì si gioca la partita. A questa imposizione l’uomo deve innanzitutto decidersi nuovamente, ossia imparare a decidersi, non perché ciò viene detto in un qualche corso di lezioni, bensì soltanto nella misura in cui ciò accade a partire da una reale oppressione dell’esser-ci nella sua totalità. Per Heidegger occorre un’oppressione, questa Stimmung, questo stato d’animo in cui ci si sente che le cose sfuggono di mano ma, anziché trovare subito il rimedio, aprirsi a questo sfuggire delle cose. Aprirsi è aprirsi alla decisione, alla decisione di intendere che cosa realmente sta accadendo. Per esempio, potrebbe essere l’occasione per avviare una riflessione intorno al funzionamento del linguaggio. Per noi può trattarsi soltanto, in questa forma interrogativa, di sviluppare, nelle migliori delle ipotesi, l’esser-pronti per questa oppressione e per l’attimo che a essa con-appartiene; per quell’attimo che l’uomo di oggi fraintende e confonde con la frettolosità del suo reagire e la repentinità dei suoi programmi. In relazione a questa imposizione, non si tratta di questo o di quell’ideale dell’uomo in una qualunque regione del suo possibile agire, bensì della liberazione dell’esser-ci nell’uomo. Liberare l’esser-ci nell’uomo, che è un altro modo per dire “aprirsi”, aprirsi all’esser-ci in quanto possibilità.

Intervento: Heidegger parla di liberazione dell’esserci nell’uomo mentre, in genere, si parla di liberazione da qualcosa che opprime. Mi sembra che questo liberarsi dall’oppressione originaria, che costringe l’uomo in qualche modo a confrontarsi con l’esser-ci, faccia in realtà sentire l’uomo oppresso da qualcosa di determinato, insoddisfatto.

Esatto. L’oppressione totalizzante, come la chiama lui, è la condizione per incominciare a pensare.

Intervento: Questo sentimento di oppressione interviene proprio là dove si nega il pensiero.

Sì. Oppressione qui intesa nel senso di oppressione determinata.