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4 giugno 1998

 

Allora possiamo prendere una questione che pertiene a ciò che andiamo facendo e che muove da interrogazioni di Cesare, Cesare il Grande… Allora, dicevo, la questione è questa: come mai ciò che andiamo facendo non è stato in precedenza svolto da nessuno, come è potuto accadere, diceva Cesare, che nessuno si sia accorto che tutto sommato le cose erano così semplici? Possiamo muovere da questa questione, anche perché i motivi di tutto ciò sono gli stessi per cui ciascuno trova una notevole difficoltà a pensare in questo modo. Voi sapete che in questi ultimi 2500 anni gli umani si sono molto interrogati intono al pensiero e al suo funzionamento, intorno a quali ne fossero le condizioni, a come utilizzarlo al modo migliore, che cosa pensasse di giusto e di errato e a quali condizioni potesse affermarsi che un pensiero era giusto e quell’altro sbagliato, inseguendo in tutto questo un’idea che è quella che presuppone l’esistenza di quella certa cosa, una qualunque cosa, che funzioni da, potremmo dirla così, pietra angolare, un qualche cosa che potesse costituire una sorta di parametro su cui commisurare ogni pensiero, e quindi una ricerca di questo elemento ovunque esso potesse trovarsi. Un elemento che era di straordinaria importanza, era quello che avrebbe dovuto confermare oppure no qualunque forma di pensiero. Questo è quello che generalmente è chiamato verità, grosso modo, il più delle volte ha questo nome, sotto le varie forme sotto i vari aspetti in cui si instaura. Ma un pensiero del genere che cosa lo supporta, cioè che cosa supporta l’idea che debba esserci un qualche cosa che garantisca tutto sommato della correttezza di un pensiero e che la garantisca definitivamente? Ecco che il pensiero va a delle cose abbastanza stabili, ferme, come dio, l’eternità, la natura, tutto ciò che gli umani osservando reperiscono di immutabile, ci sono alcune cose che non cambiano mai e quindi potrebbero essere eterne. Che cosa non cambia in realtà, che cosa è sempre lì presente per cui può costituire una sorta di riferimento? Il linguaggio è sempre lì, in effetti, disponibile per qualunque utilizzo, come dire che l’idea che debba esserci qualcosa fuori dal linguaggio ha come condizione l’esistenza del linguaggio. Ma come si è configurata tutta questa storia? Più o meno in questo modo: il linguaggio è qualche cosa che è sempre presente e quindi c’è qualche cosa che è sempre presente, che è sempre lì, su cui si può fare conto e che non cambia. Questo qualche cosa che non cambia mai, che è sempre lì, fornisce il riferimento ad altre idee, e cioè che possa esserci, che possa trovarsi qualche cosa di immutabile, qualcosa di sicuro, una garanzia, qualcosa che indica in definitiva che le cose che io penso, faccio, ecc., non siano fatte o scritte sull’acqua ma abbiano un fondamento. Qui si innesca un’altra idea, sempre prodotta dal linguaggio ovviamente, che riguarda il senso. Quando si dice “le cose devono pure avere un senso“, che cosa si dice in qualche modo? Questo: che non possono essere per niente, occorre che siano per qualcosa o per qualcuno a seconda dei casi, e cioè che tutto ciò che si dice, si fa, si pensa, abbia un destinatario. Il che non è neanche del tutto errato, tutto sommato, sempre muovendo dalla struttura del linguaggio di cui gli umani fanno grande uso ma della quale struttura in moltissimi casi poco sanno. Ciascuna parola, come abbiamo detto un po’ di tempo fa, è tale perché c’è qualcuno, potremmo dire c’è un discorso per cui è tale. Occorre dunque che ci sia un destinatario o un interlocutore; da qui un primo equivoco, chi è il destinatario della parola? Un’altra parola ovviamente né potremmo dire in altro modo. Ma l’equivoco di cui dicevo è consistito e consiste a tutt’oggi in questo, che il destinatario della parola non è l’altra parola ma qualcuno. Come è stato possibile una cosa del genere, come è stato possibile pensare che il destinatario sia qualcuno e che questo qualcuno sia distinguibile per così dire dal discorso che lo costruisce e che lo costituisce? È una sorta di circolo vizioso, in un certo senso, perché la parola costruisce un’altra parola, quindi fa qualcosa - anche ne La Seconda Sofistica c’è un accenno a questa questione -  produce qualche cosa e ciò che produce è ciò che generalmente si chiama esistenza. Qualcosa esiste dunque, cioè delle parole, ma questa esistenza di cui vi dicevo ad un certo punto è stata sganciata, così avviene, dal discorso, dalla parola che la costituisce, è diventata una sorta di entità. Qualcosa esiste, esiste perché il discorso produce, produce continuamente parole e quindi le parole, potremmo dire esistono ed esistono per qualcuno, per qualcosa. Se io posso parlare e dire, se io faccio, se io penso, io, ecc., questi indicatori, potremmo indicarli anche come operatori deittici, shifters, così come li chiama Jakobson, questi indicatori vengono presi come elementi che non sono più indicatori. Qui sta l’inghippo fondamentale, l’intoppo: scambiare un indicatore per l’indicato, potremmo dirla così, per cui io, questo soggetto, questa fatale categoria grammaticale, come dice il nostro amico Heidegger, non è più un indicatore che indica semplicemente un andamento del discorso, che pone l’accento su un aspetto del discorso, ma diventa un qualche cosa, un quid, una entità fuori dal discorso. Perché questo? C’è un elemento che può trarsi da tutto ciò ed è sempre un elemento grammaticale. Prendete il soggetto di una proposizione, grammaticalmente è ciò o colui che compie l’azione e se compie un’azione allora ha un’intenzione, c’è comunque un’intenzione che muove qualche cosa altrimenti non farebbe niente, anche questa è un’idea. Dunque, se c’è un’intenzione c’è un qualche cosa che dà a questa intenzione … è come se fossero due cose parallele, da una parte la struttura grammaticale che costruisce tutte queste cose e dall’altra il fatto che grammaticalmente è possibile costruire proposizioni che affermano che se qualcosa compie un’azione è perché qualche cosa gliela fa compiere, c’è un’intenzione, c’è un motivo, quello che vi pare. Dunque, dicevamo, il linguaggio costruisce delle cose, costruendo delle cose fornisce anche gli elementi per parlare di esistenza, a questo significante esistenza viene fornita una certa connotazione e cioè in definitiva tutto ciò che si produce e quindi ciò che il linguaggio produce e quindi tutto ciò che ci circonda. Costruito questo, cosa avviene? Avviene che tutto ciò che ha consentito di costruire questo non è più inteso come la condizione per costruire ma come il mezzo per descrivere o per percepire ciò che esiste, dimenticandosi che ciò che esiste esiste per quella condizione. Adesso facciamo una genesi del genere umano, la genesi numero due, la vendetta. Ecco che a questo punto, per questa sorta così di confusione … confusione generata da che cosa? Era possibile, allora nella notte dei tempi, considerare la struttura del linguaggio? C’erano strumenti sufficientemente raffinati per poterlo fare? Difficile a dirsi. Da ciò che ne è seguito la risposta che dovrebbe seguire inesorabile è no, perché se la risposta fosse sì allora ci toccherebbe ammettere l’esistenza di un demone bizzarro il quale ha vietato agli umani di potere considerare ciò che andavano facendo. È possibile dire che tutto ciò è stata una acquisizione piuttosto recente da parte degli umani e cioè potere considerare che la loro esistenza è vincolata all’esistenza del linguaggio che li fa esistere. Anche qui è difficile rispondere a questa domanda, tuttavia se, visto che ci stiamo ponendo questa questione che potrebbe anche apparire bizzarra, tuttavia poi non lo è per un risvolto che riguarda il discorso, la struttura del discorso del cosiddetto singolo, dal momento che sembra, ed è per questo che ho fatto questo strampalato discorso questa sera, sembra che ciascuno, che per esempio inizia un itinerario come questo che andiamo facendo, si trovi immediatamente in quelle condizioni, come se non avesse mai considerato nulla di tutto ciò che gli consente non tanto di esistere ma di dirlo e quindi di esistere. Ma, considerata rispetto al singolo, tutta la questione forse è leggermente più semplice che andare a cercare che cosa avvenne nella notte dei tempi, anche perché non ci sono più testimoni in condizioni di fornire una testimonianza… a parte me. Ecco, il singolo, cosa fa il singolo? Fa un sacco di cose, parla, si muove, si agita, e come pensa generalmente? Pensa, immagina che le cose esistano e che il linguaggio sia per lo più uno strumento per descriverle, mai gli verrebbe in mente di essere costituito dal linguaggio senza il quale cesserebbe di esistere immediatamente. Com’è che non giunge a pensare a una cosa del genere, cosa glielo impedisce, cosa impedisce di constatare una fatto così semplice, talmente semplice che nessuno prima ci aveva mai pensato? Avete presente l’uovo di colombo? Perché, vedete, se noi riuscissimo mai ad intendere con esattezza che cosa impedisce a ciascuno di considerare questo probabilmente potremmo anche sapere come fare in modo che ciascuno non possa più non considerare le cose in questi termini, e cioè riuscirebbe quella operazione di costruire proposizioni tali per cui in nessun modo sia possibile che non vadano a modificare il modo di pensare. Progetto ambizioso, non c’è mai riuscito nessuno, però... Allora, Cesare, perché una persona qualunque, non importa chi, non si accorge immediatamente, non giunge a considerare che la condizione in cui e per cui esiste è il linguaggio e non può considerare altrimenti? Perché non lo fa? (Interventi vari) Forse dovremmo riflettere ancora sulla struttura del linguaggio e sui luoghi comuni, fonte inesauribile, perché sono importanti, indicano in modo assolutamente preciso qual è il modo di pensare (.....) Sì, certo, tenendo conto di questa distinzione che facemmo la volta scorsa, proprio in seguito a una tua domanda intorno a questo, tu chiedesti allora se la logica potesse costruire luoghi comuni, temendo di no. Sì, invece, può farlo, ciò che non può fare è non tenere conto che lo sono. La questione del luogo comune è fondamentale, cioè che di fatto per parlare non possono non usarsi luoghi comuni… È vero che non si possono non usare luoghi comuni, ma perché non ci si accorge che lo sono? Perché non è possibile non accorgersi.... (....) Potrebbero sì continuare a esistere sapendo come sono, esattamente come quando uno va al cinematografo e sa che la persona che muore sparata non è che in realtà sia veramente morta, perché quell’attore lo trova nel film successivo vivo e vegeto che fa un’altra parte, ché queste cose le sa, chi va al cinema generalmente sa e questo che sa gli consente di distinguere, per usare un altro luogo comune, la finzione dalla realtà. Nessuno di voi conosce i Topici di Aristotele? (.....) Lì ti volevo, perché la questione in definitiva è poi come è avvenuto che non sia stato possibile accorgersi che l’esistenza è il luogo comune. Questa, pochi sono disposti ad ammettere che lo sia, anche se non può non essere. (.....) Sì, certo, se è un luogo comune per definizione occorre che sia comune se no, se è personale non è luogo comune. (…) Ciascun elemento è come se attendesse il successivo e in effetti la struttura del linguaggio funziona così, ciascun elemento non è isolabile dagli altri e quindi è connesso necessariamente ad un altro. Cosa avviene per esempio in questo momento, io che cosa sto facendo esattamente? Sto parlando, aggiungo una parola dietro l’altra, apparentemente con un senso che si verificherà in seguito e quindi mi trovo effettivamente in una sorta di attesa che ciascuno di questi elementi che segue l’un l’altro giunga ad un elemento che ritengo in questo caso soddisfacente. Adesso, nel caso particolare è soddisfacente se soddisfa alcuni requisiti, nel nostro caso di non essere negabile per esempio, ma mi attendo che questa sequenza produca quasi da sé questo ultimo elemento, ultimo rispetto a questa particolare sequenza. Potrei domandarmi come lo so e la risposta verrebbe dal fatto che già nella stessa domanda che mi pongo ho operato esattamente la stessa cosa, ho messo cioè uno di seguito all’altro degli elementi per formulare la domanda, senza questa operazione non avrei potuto formulare nulla... Dunque, mi trovo continuamente in questa catena inarrestabile che produce un’attesa, chiamiamola così provvisoriamente, ciascun elemento attende quello successivo, quello successivo quello dopo, ecc. Cosa produce, cosa fa questa attesa? Mano a mano che procede toglie all’elemento precedente una certa valenza, sempre proteso a quello successivo che è atteso come quell’elemento che chiuderà o che comunque soddisferà questa catena. Perché non può accogliersi l’idea che questa catena è inarrestabile? Voglio dire questo, che ciascuno parlando attende che questa catena giunga all’elemento che soddisfa questo particolare gioco, potremmo dire, tenendo conto però che aver soddisfatto questo gioco non ha nessun altra funzione se non di aver soddisfatto quel gioco, niente altro che questo. Cosa invece induce a pensare che questo ultimo elemento della catena in un certo senso sia fuori dalla catena che l’ha prodotto? Mi accorgo che stiamo girando intorno alla questione però la questione è tutt’altro che semplice e sicuramente (...) Non possiamo cancellarlo perché se il programma ad esempio è il linguaggio allora occorre solo modificarlo, occorrono una serie di modificazioni, delle varianti; se, invece, con programma intendiamo un modo di pensare allora sì, certo, possiamo cancellarlo, però la cancellazione è sempre un’operazione ardua, direi che si tratta piuttosto di modificare… (Modificare si può fare solo a fasi successive…) Sì, noi ci troviamo al punto in cui ci chiediamo da dove partire… (....) Sì, però a questo punto rischi di dover intervenire all’infinito. (...) Continuo a pensare che ci sia qualcosa nel funzionamento stesso del linguaggio che consente effettivamente di non accorgersi del linguaggio stesso. C’è l’eventualità che stia lì l’intoppo, si tratta di vedere come e perché. Perché anche tutte queste cose, la perdita di senso, lo smarrimento, tutto questo avviene in seconda, quarta battuta, prima occorrono tutta una serie di elementi, pensare cioè che una certa cosa debba essere importante per esempio, per cui se può esserlo allora lo è, allora se lo è, e via di seguito… ma qualcosa di più radicale… Qualcuno ha qualche idea? Chi è che si è occupato della struttura del linguaggio? Forse qualche antico, un’altra amenità che è curioso: da quanto tempo esistono gli umani sul pianeta? Tre milioni di anni grosso modo, giorno più o giorno meno, e soltanto negli ultimi tre mila si è accorto di esistere, soltanto negli ultimi due anni si è accorto dell’esistenza? .... Sia come sia, dei presocratici non sappiamo nulla, quindi non ci interessa, anche considerando o muovendo dal singolo, dal come pensa, la questione rimane la stessa perché non si accorge, cioè non si accorge di ciò che lo fa esistere … c’è qualcosa quindi nel linguaggio perché soltanto lì può avvenire questo fenomeno così bizzarro...