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4 maggio 2022

 

Platone Menone

 

C’è un’annotazione di Reale che dice: Il dialogo rappresenta come il vertice teoretico delle discussioni fatte nel Protagora e nel Gorgia, e con questi due dialoghi rappresenta una trilogia veramente splendida. Ha ragione Reale, sono dialoghi veramente belli, ne abbiamo letti solo brevi tratti, ciò che a noi interessava, ma, in effetti, tutti i dialoghi di Platone sono splendidi. Siamo all’inizio, 71B, dove dice SOCRATE – E io stesso, Menone, mi trovo in queste condizioni: anch’io, come i miei concittadini, mi sento privo di questo, e mi rimprovero di non saper nulla circa la virtù: e, di ciò di cui non conosco l’essenza, come potrei conoscere la qualità? O ti pare che ci possa essere uno che, non conoscendo affatto chi è Menone, possa tuttavia sapere se è bello, ricco e nobile, o se abbia le qualità opposte a queste? Ti pare che sia possibile? Naturalmente no. 72C. SOCRATE – E così è anche per la virtù: anche se sono molteplici e di diversi tipi, tutte hanno una unica e identica forma, a causa della esse sono virtù, … Si sta chiedendo che cos’è la virtù; quindi un elemento che sia universale. Questa ricerca è la ricerca dell’universale. …e verso la quale è bene che guardi colui che deve rispondere a chi domanda di spiegare che cosa mai sia la virtù. Il problema dell’universale riguarda, appunto, il trovare un qualche cosa che sia comune a tutti gli elementi particolari. Se ci sono tante virtù è perché c’è la virtù, con la quale confrontiamo tutto quanto. 73C. SOCRATE – Poiché, dunque, la virtù è la stessa in tutti, cerca di dire e di ricordare che cosa Gorgia sostiene che essa sia, e tu con lui. MENONE – Che altro, se non essere capaci di comandare agli uomini, se tu ricerchi qualcosa di unico in tutti i casi? Questa è la risposta che propone Menone, però Socrate dice Lo ricerco, appunto. Ma, allora, o Menone, sarà la stessa virtù del fanciullo e dello schiavo: essere capace di comandare al padrone; e ti sembra che sia ancora schiavo colui che comanda? MENONE – Non mi sembra per nulla, o Socrate. SOCRATE – Infatti, non sarebbe cosa conveniente, o carissimo; ma considera ancora questo. Tu dici: essere capaci di comandare. Non vi dovremmo aggiungere anche il “giustamente” e il “non ingiustamente”. MENONE – Penso di sì; infatti, la giustizia, o Socrate, è virtù. SOCRATE – È forse la virtù, o Menone, oppure una virtù? Stanno cercando di determinare “la” virtù, non una virtù. Fa, poi, l’esempio della figura: ci sono tante figure, ma la figura, il concetto di figura, è uno. Vedete come insiste qui la questione, che è sempre la stessa, dell’uno e dei molti. È la questione di Parmenide, dalla quale non si è mai usciti. 74E. Che cos’è, dunque, ciò che ha questo nome di figura? Cerca di dirlo. Se, dunque, a chi in questo modo ti interrogasse o intorno alla figura o intorno al colore, tu dicessi così: “Ma non coprendo che cosa tu voglia, o uomo, né so che cosa dici”, si stupirebbe, forse, e direbbe: “Non comprendi che io cerco ciò che è identico in tutte queste cose?”. E sapresti rispondere, o Menone, se uno ti domandasse: “Che cosa c’è, nel rotondo e nel diritto e nella altre che chiami figure, di identico in tutte?”. Cerca di dirlo affinché ti possa servire come esercizio per la risposta intorno alla virtù. Cerca, cioè, ciò che c’è di universale in tutti questi particolari. 75B. SOCRATE – Ebbene, cerchiamo di dire che cos’è la figura. Fa dunque attenzione se accetti che sia questo: figura, per noi, sia ciò solo che nelle cose si trova sempre unito al colore. Questa è la definizione che dà Socrate di figura: ciò che è sempre unito al colore. Ti è sufficiente, o cerchi qualcos’altro? Dal canto mio, sarei soddisfatto se tu mi rispondessi così sulla virtù. /…/ MENONE – Secondo il tuo discorso, figura è ciò che accompagna sempre il colore. E sia: ma se uno affermasse di non sapere che cos’è il colore, e si trovasse in difficoltà così come per la figura, che cosa crederesti di aver risposto? SOCRATE – La verità, ritengo: e se colui che interroga fosse uno dei Sofisti e degli eristi e dei contenziosi, io gli risponderei: “Per conto mio, ho detto; e se non dico bene, è compito tuo riprendere il discorso e confutarlo”. E se, invece, come io e tu ora, fossero amici quelli che volessero fra loro discutere, allora occorrerebbe con maggior calma e maggior rigore dialettico. E il maggior rigore dialettico consiste non solo nel rispondere il vero, ma anche nel rispondere mediante quei termini che l’interrogato convenga esplicitamente di conoscere. Qui ci dà anche delle informazioni circa il suo metodo dialettico. Dice che non soltanto si tratta di ricercare in questo caso l’universale, ma di farlo in un certo modo, cioè, tenendo conto di tutto ciò che l’interlocutore può sapere. Anch’io, dunque, cercherò di risponderti in questo modo. Dimmi, dunque, c’è qualcosa che chiami “termine”? Dico termine un limite e una estremità, e con tutte queste parole indico la stessa cosa. Prodico, forse, dissentirebbe da noi, ma tu pure dici che qualcosa ha un limite e che ha un termine. Questo intendo dire, nulla di complicato. /…/ E allora? Denomini qualcosa piano e qualcos’altro solido, come si fa in geometria? /…/ Già da questo, dunque, puoi capire ciò che chiamo figura. Di ogni figura, dico, infatti, questo: che essa è ciò che in cui termina il solido; in breve, potrei dire che la figura è il limite del solido. È una definizione abbastanza corretta, tutto sommato. Andando ancora oltre, potremmo dire che la figura non è altro che ciò che ha limiti, che è limitata, che è de-limitata; quindi, essendo de-limitata, è de-finita. 77B. MENONE – Mi sembra, dunque, o Socrate, che la virtù sia, come dice il poeta, godere delle cose belle, e averne potere. Anch’io dico che questa è la virtù: desiderare le cose belle ed essere capaci di procurarsele. SOCRATE – Affermi forse che chi ha desiderio di cose belle ha anche desiderio di cose buone? MENONE – Certo. SOCRATE – Forse reputando che ci siano alcuni che desiderano cose cattive, e che ci siano invece altri che hanno desiderio di quelle buone? O non ti sembra che tutti, o carissimo, abbiano desiderio di cose buone? Questa è una questione che Platone fa comparire spesso: gli umani non possono desiderare cose cattive, e se uno desidera una cosa cattiva può farlo solo per ignoranza del bene, quindi, per ignoranza del vero, per ignoranza del vero ente, ὅν ἀληθής, diceva Platone. 77C. SOCRATE – E ti pare, Menone, che se uno conoscesse che le cose cattive sono tali, ne avrebbe nondimeno desiderio? MENONE – Certamente. SOCRATE – Che cosa intendi per desiderare? Forse che la cosa gli capiti? MENONE – Che gli capiti, e che altro? SOCRATE – Forse ritenendo che le cose cattive giovino a colui al quale toccano, oppure conoscendo che le cose cattive nuocciono a colui che le ha? /…/ 77D. SOCRATE – E non è dunque chiaro che non desiderano le cose cattive quelli che non le riconoscono come tali, ma che desiderano quelli che essi ritengono essere buone, e che, viceversa, sono cattive? Qui allude al fatto che si sbagliano quelli che cercano cose cattive, e sbagliano per ignoranza. Cosicché, quelli che non le conoscono come cattive e reputano che siano buone, appare evidente che desiderano le cose buone. Per Platone non è possibile desiderare le cose cattive, non è possibile desiderare un discorso falso, non è possibile desiderare il non-ente. Perché arriva a dire questo? Naturalmente, c’è tutta la sua teoria della verità, la verità come l’ente che si mostra da sé: se io vedo l’ente non posso negarlo, perché l’ente è quello, non c’è un altro modo; quindi, sono costretto. Diceva nel dialogo precedente che la verità è inconfutabile, perché lui fa coincidere la verità con l’apparire dell’ente, e se l’ente appare non posso negare il fatto che sta apparendo. Menone aggiunge che è il procurarsi cose buone, ecc. Però, dice Socrate, 78D. Procurarsi oro e argento, come dice Menone, ospite paterno del Gran re, è virtù. Forse a questo “procurarsi”, o Menone, aggiungerei il “giustamente” e il “santamente”, oppure, per te, non fa differenza, ma, anche se uno si procura quelle cose ingiustamente, tu chiami questo egualmente virtù? MENONE – No, certo, o Socrate. SOCRATE – Ma malvagità? MENONE – Certamente. SOCRATE – Bisogna, dunque, come sembra, che in tale acquisto sia presente giustizia, o temperanza, o santità, o qualche altra parte di virtù; se, essa non sarà virtù, anche se procuri cose buone. /…/ E il non acquistare oro e argento, quando non sia giusto, né per sé né per altri: non è forse virtù questo stesso non procurarseli? MENONE – Sembra. SOCRATE – Dunque, non sarà virtù a maggior titolo l’acquistare che non l’astenersi dall’acquistare siffatti beni; ma, come pare, sarà virtù l’acquisto che sia fatto con giustizia, quello, invece, che sia fatto senza di questa è malvagità. /…/ Non dicevamo, poco fa, che ciascuna di queste, ossia la giustizia, la temperanza e le altre di questo genere, è una parte della virtù? MENONE – Sì. SOCRATE – Ma allora, Menone, tu ti prendi gioco di me. MENONE – E perché, o Socrate? SOCRATE – Perché, mentre poco fa ti pregavo di non dividere né spezzare la virtù, e mentre ti fornivo gli esempi secondo i quali avresti dovuto rispondere, tu non te ne sei dato cura, e mi dici che la virtù consiste nell’essere capaci di procacciarsi le cose buone con giustizia; e questa, poi, affermi essere una parte della virtù? MENONE – Io sì. SOCRATE – E non consegue, forse, dalle cose che tu ammetti, che la virtù consiste in questo: nel fare ciò che si fa, con una parte di virtù? Infatti, tu affermi che la giustizia è una parte di virtù, e così ciascuna delle altre. Che, mentre ti pregavo di definire la virtù nella sua interezza, tu sei ben lontano dal dirmi che cosa sia, e affermi essere virtù ogni azione che sia compiuta con una parte di virtù, come se tu avessi già detto che cos’è la virtù tutt’intera, e io dovessi ormai conoscerla, anche se tu la dividi in parti. È questo che sta dicendo Socrate: io ti ho chiesto la virtù come universale, non i particolari. E, invece, Menone la scompone in particolari e perde di vista l’universale. Tu dici delle parti della virtù, ma la virtù come tutto, come intero, questo non me lo dici. E qui c’è una questione interessante. In effetti, il tutto non si può dire, si possono soltanto dire, come direbbe Severino, gli astratti; il concreto non posso dirlo se non attraverso astratti. Tutto ciò che dico è sempre un astratto, è sempre una rappresentazione, un’idea di qualche cosa, ma non è mai la cosa. Socrate gli sta chiedendo di dire la cosa in sé. È chiaro che mette Menone in difficoltà, perché lui giustamente risponde attraverso degli astratti, dei particolari. E, quindi, Menone non ha torto a spezzettare la virtù, come lo accusa di fare Socrate, perché può dirne soltanto degli astratti, non può dire il concreto. Ma riprenderemo tra breve la questione. 79E. SOCRATE – Rispondimi, dunque, ancora una volta da capo: che cosa dite che è la virtù, tu e il tuo amico? MENONE – O Socrate, avevo udito, prima ancora di incontrarmi con te, che tu non fai altro che dubitare e che fai dubitare anche gli altri: ora, come mi sembra, mi affascini, mi incanti, mi ammalii completamente, così che son diventato pieno di dubbi. E mi sembra veramente, se è lecito celiare, che tu assomigli moltissimo, quanto alla figura e quanto al resto, alla piatta torpedine marina. Anch’essa, infatti, fa intorpidire chi le si avvicina e la tocca: e mi pare che, ora, anche tu abbia prodotto su di me un effetto simile. Infatti, veramente, io ho l’anima e la bocca intorpidite e non so più che cosa risponderti. Eppure, più e più volte intorno alla virtù ho tenuto assai numerosi discorsi e di fronte a molte persone e molto bene, come almeno mi sembrava; ora, invece, non so neppure dire che cos’è. E mi sembra che tu abbia bene deliberato di non varcare il mare da qui e di non viaggiare: se tu, infatti, facessi cose simili, quale straniero, in altra Città, verresti scacciato immediatamente come ciurmatore. SOCRATE – Sei un furbone, o Menone, e per poco non mi traevi in inganno. MENONE – E perché mai, o Socrate? SOCRATE – So per quale ragione hai fatto quel paragone di me. MENONE – Per quale ragione credi? /…/ SOCRATE – E, quanto a me, se la torpedine, essendo essa stessa intorpidita, nello stesso modo fa intorpidire anche gli altri, io le assomiglio; se non è così, non le assomiglio. Infatti, non è che io, non avendo dubbi, faccia dubitare anche gli altri. Ed ora, che cosa sia la virtù, io non so; mentre tu, forse, lo sapevi, prima che ti accostassi a me, ed ora, invece, assomigli a chi non sa. Tuttavia, desidero ricercare e indagare con te che cosa essa sia. Questo che leggeremo è importante. 80D. MENONE – E in quale maniera ricercherai, o Socrate, questa che tu non sai affatto che cosa sia? E quale delle cose che non conosci ti proporrai di indagare? O, se anche tu ti dovresti imbattere proprio in essa, come farai a sapere che è quella, dal momento che non la conoscevi? SOCRATE – Capisco che cosa intendi dire, o Menone. Guarda che argomento eristico adduci: che non è possibile per l’uomo ricercare né ciò che sa né ciò che non sa. Infatti, né potrebbe cercare ciò che sa, perché lo sa già, e intorno a ciò non occorre ricercare, né ciò che non sa, perché, in tal caso, non sa che cosa ricercare. È perfetto. In effetti, anche in questo caso non c’è una soluzione. La soluzione che propone Socrate è mitica. MENONE – E non ti pare che questo ragionamento sia buono, o Socrate? SOCRATE – A me no. MENONE – E mi sapresti dire in quale modo? SOCRATE - Io sì. Ho udito infatti da uomini e donne esperti nelle cose divine… MENONE – Che cosa dicevano? SOCRATE – Una cosa vera, a mio parere, e bella. MENONE – E quale è questa, e chi sono coloro che la dicono? SOCRATE – Coloro che la dicono sono sacerdoti e sacerdotesse, di quelli che si curano di essere in grado di dar ragione delle cose alle quali attendono. Lo dice anche Pindaro… /…/ Affermano che l’anima dell’uomo è immortale … Qui espone la sua teoria della reminiscenza, dell’immortalità dell’anima. …e che talora termina la vita terrena – ciò che si chiama morte -, e talora di nuovo rinasce, ma che non perisce mai; per queste ragioni, bisogna vivere la vita nel modo più santo possibile. Infatti coloro dai quali “Persefone debito di antico peccato / abbia riscosso, verso il sole che sta sopra al non anno / rimanda le anime di nuovo, / e da esse re gloriosi / e per potenza illustri e per sapienza assai frandi / uomini nascono; e per il restante tempo eroi puri / presso gli uomini sono chiamati”. E poiché, dunque, l’anima è immortale ed è più volte rinata, e poiché ha veduto tutte le cose, e quelle di questo mondo e quelle dell’Ade, non vi è nulla che non abbia imparato; sicché non è cosa sorprendente che essa sia capace di ricordarsi e intorno alla virtù e intorno alle altre cose che anche in precedenza sapeva. E poiché la natura tutta è congenere, e poiché l’anima ha imparato tutto quanto, nulla impedisce che si ricordi di una cosa – quello che gli uomini chiamano apprendimento -, costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare; effettivamente, il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare. Intanto, non confuta di fatto il ragionamento sofistico che la conoscenza è impossibile, perché se già conosco non devo ricercare niente, mentre, se ricerco qualcosa che non conosco, come faccio a sapere se l’ho trovata se non la conosco? E, allora, ricorre a un mito, quello dell’immortalità dell’anima, della reminiscenza, che è il primo mito in cui si definisce il linguaggio come il concreto. È chiaro che non c’è nessuna reminiscenza, ma non ha torto Platone a dire che gli umani conoscono già e che, quindi, non si apprende propriamente. Ciascuno nasce nel linguaggio, diceva Heidegger, e ciascuno parlando, usando le parole, usa le parole che hanno una storia, una storia millenaria; le parole si portano appresso questa storia. Queste parole sono quelle che ciascuno utilizza, senza sapere il più delle volte, ma che lo situano in un sapere che lo precede. Ora, non è che si ricordi, naturalmente, ma le ha già lì a disposizione perché queste parole, che usa, hanno migliaia e migliaia di anni. Quindi, la questione potrebbe essere posta in questi termini: ciascuno, nel momento in cui è nel linguaggio, potremmo dire così, se conosce una parola allora le conosce tutte. Non nel senso di conoscere tutte le parole del dizionario, no, non conosce i dettagli, gli astratti, conosce il concreto. Ma lo conosce in che senso? Prima dicevamo che non si conosce il concreto, non posso dirlo; lo conosce nel senso che sa che, nel momento in cui pronuncia una parola, è nel linguaggio, quindi, è lì dove sorgono tutte le parole, è lì dove ci sono tutte le parole. È come con i numeri: se io conosco il numero 2, il numero 3, conosco anche tutti gli altri numeri, perché nel concetto di numero ci sono già tutti gli altri numeri; e così nell’idea di parola ci sono già tutte le parole. La parola non è altro che un rinvio e in questo trovarmi nel rinvio, cioè nel linguaggio, che è la stessa cosa, io conosco il concreto, conosco il tutto. Quindi, questo mito, cui si rifà Platone, potremmo intenderlo come il primo approccio al linguaggio come il concreto, come il tutto, in cui ciascuno si trova. Nel momento in cui qualche cosa è una parola, conosce tutte le parole, sono tutte presenti, torno a dire, non astrattamente, nel dettaglio, ma sono tutte presenti in quanto, avendo il concetto di parola, sa che cos’è una parola, quindi, per sapere che cos’è una parola deve sapere tutto quanto. Per dimostrare questo mito fa l’esempio dello schiavo di Menone, e cioè prende uno schiavo e gli fa dimostrare una serie di cose, mostrando come se non c’è pensiero ci si inganna: abbiamo un quadrato, prendo un lato del quadrato e lo raddoppio; se è doppio allora il quadrato sarà doppio. No, non è il doppio il quadrato, è quattro volte. Per fare questo lui interroga lo schiavo di Menone, ma come lo interroga? Lui deve dimostrare che lo schiavo di Menone giunge a conoscere la geometria senza avere mai avuto nessuna informazione intorno alla geometria e alle sue proprietà. Semplicemente, lui lo fa ragionare, cioè utilizza un metodo deduttivo per costruire delle regole geometriche. Ma perché lo schiavo di Menone può giungere a quelle conclusioni? Perché è nel linguaggio, perché tutte le inferenze che gli fa compiere Platone sono già implicite nel funzionamento del linguaggio; non potrei insegnare la geometria a un bruco, non c’è verso. Se Socrate ha potuto insegnare allo schiavo di Menone la geometria è perché è nel linguaggio, perché è in un sistema inferenziale, deduttivo, induttivo, e conosce la possibilità che da un elemento se ne tragga un altro. Ed è questo che consente allo schiavo di Menone di cogliere tutte le proprietà geometriche, perché sa, anche se non se ne rende conto, che ciascun elemento è in relazione con un altro e che non può non essere in relazione; quindi, se c’è questo elemento ne deriva necessariamente un altro. Ora, si tratta di vedere i termini della derivazione, ma se c’è un elemento di sicuro ce n’è un altro. È questo che deve sapere, e lo sa nel momento in cui parla. 84A. SOCRATE – Comprendi ora, o Menone, a che punto si trova attualmente nel processo del ricordare? Prima, cioè, non sapeva quale fosse il lato del quadrato di otto piedi, come del resto neppure ora lo sa; tuttavia, allora credeva di saperlo, e rispondeva con sicurezza come se sapesse, e non riteneva di avere dubbi; ora è convinto di avere dubbi e, come non sa, così neppure crede di sapere. Qui ci sta dicendo, a parte la distinzione tra sapere e credere di sapere, che ciò che prima non sapeva non lo sapeva perché prima non ci aveva pensato. Se, invece, lo si fa pensare, ecco che, sempre che sia disposto a pensare, incomincia a mettere in atto, a fare funzionare un sistema inferenziale, deduttivo in questo caso; ma può farlo perché la deduzione, in quanto relazione, è già presente nel linguaggio, che, torno a ripetere, non è altro che relazione; quindi, se c’è un elemento necessariamente ce n’è un altro. Se non c’è questo non posso fare nulla. E in questo modo Socrate, avrebbe risolto il problema della conoscenza, ché non è possibile, né che si sappia qualcosa né se non lo si sappia. La risolve con la reminiscenza: né lo so né non lo so, lo ricordo. È un mito, certo, ma per Socrate era vero. Non ricordo nulla ma posso costruire con il pensiero. Posso dedurre e deducendo costruisco delle cose. Se so che è una parola sono nel linguaggio, quindi, è già tutto in funzione, già tutto agisce. A questo punto devo far agire il linguaggio per metterlo in atto, farlo funzionare, attraverso tutte quelle relazioni di cui il linguaggio è fatto. Platone poi aggiunge che la virtù è insegnabile se è scienza, e introduce a questione dell’ipotesi. 86C. SOCRATE – Vuoi, dunque, dal momento che siamo d’accordo sul fatto che bisogna che uno ricerchi intorno a ciò che non sa, che ci mettiamo insieme a ricercare che cosa sia virtù? Il ricercare la virtù qui, per Socrate, sarebbe un ricordarsi di ciò che l’anima ha già visto. 86E. SOCRATE – Dico da un’ipotesi, nel senso in cui i geometri spesso conducono le loro ricerche, quando qualcuno li interrogasse, poniamo, su una superficie; se, per esempio, in questo cerchio di possa iscrivere questa superficie qui, trasformandola in un triangolo. A tale domanda un geometra risponderebbe come segue: “Io non so se questo sia possibile, ma credo utile assumere un’ipotesi per risolvere questa questione: se questa superficie è tale che, distendendola lungo una linea data di essa, venga a mancare di una superficie pari a quella ottenuta, allora mi pare che si avrà una data conseguenza, e se è invece impossibile che ciò si dia, se ne avrà un’altra. Procedendo per ipotesi, dunque, posso dire se sia possibile o no la iscrizione di questa superficie nel cerchio”. Così, anche noi, a proposito della virtù, poiché non sappiamo che cosa sia né come sia, procedendo per ipotesi, esaminiamo se sia insegnabile o non insegnabile. Noi sappiamo che cos’è il procedere per ipotesi. L’ipotesi, è una induzione. Procedere per induzione significa procedere per analogie, e cioè procedere per qualcosa che sembra essere così. Ma non c’è nessuna prova, nessuna dimostrazione: appare così, sembra così. È la chiacchiera, né più né meno. Diciamo allora così: se la virtù è della qualità delle cose che appartengono all’anima, sarà insegnabile o non insegnabile? E, in primo luogo, se è qualcosa di differente rispetto alla scienza, si potrà insegnare o no, ossia, come dicevamo poco fa, si potrà ricordare? 87D. SOCRATE – E allora? Non affermiamo che la virtù sia un bene? Questo è importante per Platone, perché se è un bene vuole dire che è vero, vuole dire che è riferita all’ente in quanto tale. SOCRATE – Allora, se c’è anche qualche altro bene diverso dalla scienza, la virtù potrebbe non essere scienza; se, invece, non c’è alcun bene che la scienza non comprenda in sé, allora, ammettendo che essa sia una scienza, faremo una esatta supposizione. Riprende qui un discorso che aveva già fatto, quello dell’intelligenza e, quindi, del sapere utilizzare bene qualche cosa. In fondo, l’intelligenza per Platone ha a che fare con il sapere: è intelligente chi sa utilizzare, chi sa trarre il meglio da qualche cosa. Se non è intelligente, se non fa questo, non trae il meglio da qualche cosa, quindi, continua a errare, a smarrirsi. 88C. SOCRATE – Dunque, in generale, le cose che l’anima intraprende e nelle quali persevera, quando il senno è guida, terminano a felice risultato; quando la dissennatezza, terminano al risultato opposto. MENONE – Sembra. SOCRATE – Se, dunque, la virtù è qualcosa che è nell’anima e qualcosa di necessariamente utile, essa deve essere intelligenza, dal momento che tutte le cose relative all’anima, in sé e per sé non sono né giovevoli né dannose, ma, a seconda che s’aggiunga intelligenza… Sta dicendo che le cose di per sé sono niente finché non intervengo io a formulare un giudizio. Adesso entra in scena Anito, che è stato uno degli accusatori al processo di Socrate. Qui stanno discutendo se esistano oppure no maestri di virtù. Menone dice che sì, ci sono, per esempio Gorgia è maestro di virtù; però, Socrate non è d’accordo; Menone ne cita altri, ma Socrate obietta che anche questi non erano poi tanto maestri di virtù. 90E. SOCRATE – Dici bene. Ed ora possiamo, tu ed io, prendere consiglio di comune accordo per questo ospite Menone. Costui, infatti, o Anito, da tempo mi dice che ha desiderio di questa sapienza e virtù con la quale gli uomini governano bene le case e le Città, ed hanno cura dei propri genitori, e sanno ricevere e congedare e cittadini e stranieri, nel modo che si conviene ad un uomo per bene. Per apprendere questa virtù, dunque, esamina presso chi, mandandolo, noi faremmo cosa buona. O non è evidente, in base al discorso di prima, che lo dovremmo mandare presso coloro che si proclamano maestri di virtù e che offrono il loro insegnamento indifferentemente a tutti i Greci che vogliono apprendere, stabilendo ed esigendo una ricompensa per questo? ANITO – E chi dici che sono costoro? SOCRATE – Lo sai anche tu, che costoro sono quelli che la gente chiama Sofisti. ANITO – Per Ercole, taci, o Socrate. Che nessuno dei miei parenti, né amici, né cittadini, né forestieri, sia colto da tale follia di andare da costoro a farsi rovinare; perché costoro sono una palese rovina e una disgrazia di tutti quanti hanno rapporti con loro. SOCRATE – Come dici, o Anito? Questi soli, dunque, di quanti si arrogano la capacità di saper produrre qualche beneficio, differiscono talmente dagli altri, che, non solo non recano giovamento come gli altri, quando qualcuno si affidi loro, ma, al contrario, addirittura lo rovinano? Anito era assolutamente contro i sofisti. Di fronte a tanta acredine di Anito, Socrate chiede ad Anito: 92B. SOCRATE – Forse, o Anito, qualche Sofista ti ha offeso, che sei così aspro con loro? ANITO – Per Zeus, io non ho mai avuto rapporti con nessuno di loro, né permetterei che ne avesse altro dei miei parenti. SOCRATE – Sei dunque assolutamente ignaro di questi uomini? ANITO – E possa anche rimanerlo. SOCRATE – Ma, o caro, come puoi sapere di questa faccenda, se ha in sé qualcosa di buono o di cattivo, dal momento che ne sei assolutamente ignaro? ANITO – Facile: so bene chi sono costoro, anche se non li conosco affatto. SOCRATE – Forse sei un indovino, o Anito, perché da quello che dici, mi meraviglierei che tu in altro modo potessi parlare di loro. Ma noi non stiamo cercando chi sono coloro, andando dai quali Menone diverrebbe corrotto – costoro, se vuoi, siano pure i Sofisti –; dimmi, invece, chi sono quegli altri, e fa un favore a questo tuo amico paterno, dicendogli da chi deve andare in questa Città, per poter diventare degno di considerazione nella virtù che poco fa ti ho illustrata. E, allora, c’è il tentativo di Anito di mostrare quali sono i personaggi da cui occorrerebbe andare. Ma anche in questo caso Socrate rileva che questi personaggi hanno, sì, degli aspetti positivi ma anche negativi, per cui non siamo così sicuri che siano proprio loro le persone giuste. Nella parte finale c’è la questione dell’opinione giusta, corretta, opposta al sapere. C’è la giusta opinione che non è il sapere. Perché, si chiede Socrate? Perché la giusta opinione è un qualche cosa che gli umani hanno momentaneamente, per dono divino. Certo, può portare a dei risultati che sono gli stessi del sapere: se uno ha una corretta opinione, questa sua corretta opinione vale tanto quanto il sapere di quell’altro, che è invece un sapere certo. Ma questa giusta opinione non si può insegnare, perché appunto è qualcosa di divino, un’ispirazione divina, che accade così, per caso. Lui se la cava sempre con gli dei. Il sapere, invece, è qualcosa che permane, che si è sedimentato, che è stato argomentato, che, quindi, è diventato un sapere, una scienza, e dunque è insegnabile. E questa è una differenza sostanziale, che pone Socrate. Per Socrate il sapere è sempre il fondamento di tutto, un sapere certo, sicuro, è quello che si rifà all’ente in quanto tale. Ovviamente, l’ente in quanto tale è conoscibile. Qui si ripropone tutta la questione. Sì, Socrate vuole risolverla, però, poi, di fatto, si ripropone tutto quanto, perché intanto c’è quell’argomentazione, che lui elimina dicendo che è un’argomentazione eristica, cioè che non posso conoscere le cose perché o le so già o se non le so non mi pongo neanche il problema. Come la risolve? Attraverso la reminiscenza. Di fatto, però, non la risolve. E, quindi, per Platone rimane il problema della conoscenza. Come conosco qualcosa? Perché per lui la conoscenza è il sapere dell’ente vero, cioè, il sapere del concreto. Ma come posso sapere del concreto se non attraverso gli astratti? Se parlo del concreto, naturalmente questo concreto lo trasformo in una idea, in un concetto, quindi, in qualcosa di finito, mentre il concreto è infinito. Quindi, non posso dire nulla del concreto se non attraverso un astratto. È un problema che non ha soluzione. Lo stesso Severino rimane impigliato in questa cosa, perché lui dice: “Quando potremo conoscere il concreto?” – lui sa che non si può conoscere il concreto, che conosciamo solo gli astratti – “Quando tutti gli astratti saranno nel concreto”. E come faccio a sapere che sono tutti presenti? Chi me lo dice? Chi mi certifica questa cosa? Infatti, lui dice in un futuro, quando il concreto avrà stabilito tutti gli astratti. Ciò che non avverte è che questo concreto non è da cercare attraverso la disamina di tutti gli astratti. Il concreto è già qui, non solo è qui ma è la condizione perché si diano gli astratti. È questo che gli sfugge: il concreto è la condizione dell’astratto. È quella cosa che Platone indicava nel mito della reminiscenza. Certo, è un mito, però, sembra quasi indicare che c’è comunque un tutto, un concreto, che è la condizione, che in Platone è il ricordare le cose che l’anima ha già viste. Potremmo dire, più appropriatamente, che la condizione è che ci sia il linguaggio, e cioè quando so che qualcosa è una parola, sono già nel linguaggio, perché sapendo che cos’è una parola, so che questa parola è in relazione, che ha un significato, che si riferisce a una quantità infinita di cose che sono quelle che fanno funzionare il linguaggio. Chiaramente, non so tutte le parole del dizionario ma so come funziona. E questa è la conoscenza dell’intero, del tutto, del concreto.