INDIETRO

 

 

4-5-2016

 

Eraclito, di M. Heidegger, pag. 117. Il frammento 93: Il Signore, il cui luogo della profezia che dà indicazioni si trova a Delfi (Apollo), non disvela soltanto né nasconde soltanto bensì da segni. (Qui è Heidegger che parla) il verbo λγειν è qui inequivocabilmente usato come contrario di κρπτειν (il nascondere) ed indica perciò in contrapposizione a nascondere il disvelare, la nostra interpretazione del significato fondamentale del verbo λγειν nel senso di raccogliere e riunire trova qui una chiara conferma, pensato grecamente riunire significa lasciar manifestare l’unità vale a dire l’unificazione in cui ciò che si dispiega insieme risulta riunificato a partire da se stesso, riunificare significa qui essere trattenuto tutto insieme nell’unificazione originaria dell’accordo (dice che nel greco il λγειν, da cui poi λόγος, è un riunire le cose ma riunendole, mostrandole, le mostra come un uno. Quando si dice un significante, questo significante si porta appresso molte cose però nel momento in cui si dice, tutte queste cose di cui è fatto questo significante si compongono in una unità, una unità che è quella che si manifesta nel significante, ciò che si manifesta è l’unità non tutte le cose che ci sono, un po’ come rispetto al significante e al significato, l’essere all’ente, ciò che si manifesta è il significante, certo ha il significato, è ovvio, se no non significherebbe niente però ciò che si mostra, ciò che appare si mostra in quella unità sensibile che è il significante, l’immagine acustica) e poiché la parola che nomina e dice proprio in quanto parola ha il tratto essenziale del rendere manifesto e del lasciar manifestare, (questa è la parola che nomina, manifesta e lascia manifestare) ecco allora che per i greci il dire delle parole può essere chiamato riunire (la parola rende manifesto, lascia che qualcosa si manifesti quindi la parola riunisce ciò che si manifesta, lo riunisce appunto in questa unità di cui dicevamo) per questo motivo in Parmenide altro pensatore (vi ricordate di Parmenide?) troviamo il termine νοεν cioè il “prestare ascolto all’uno” insieme al temine λγειν (νοεν, è l’atto di pensiero) proprio perché l’essere è esperito come accordo e come φύσις, e proprio perché la parola che dice viene compresa come tratto essenziale del prestare ascolto nei confronti dell’essere, anche il dire stesso deve essere compreso come un rapportarsi all’unità dell’accordo che dischiude, però al tempo stesso questa stessa unità, vale a dire deve essere compresa come riunire, come λγειν (l’essere, potete pensarlo come significato dicevamo, è un accordo, un accordo nel senso che tutto ciò che il significato si porta appresso, tutto ciò che il significato dice è un qualche cosa che è in accordo, tutte queste cose si accordano, si legano insieme e ciò che si manifesta, cioè l’uno, uno nel senso di unità sensibile è il significante. In effetti il significato è un insieme di cose, il significante le riunisce in unico elemento sensibile) se noi riflettiamo su questo, se non arriviamo mai a comprendere che il raccogliere e il riunire debbano costituire il tratto fondamentale del dire. Il termine λόγος è un’altra parola fondamentale di Eraclito che lui non significa dottrina o discorso o senso bensì la riunificazione che si disvela nel senso dell’unità armonica e nell’inappariscente accordo (“λόγος” “ρμονία” “φύσις” “κόσμος” per Heidegger queste parole greche dicono la stessa cosa) ma ogni volta esprimono una diversa determinazione originaria dell’essere, impariamo qui a presentire il modo in cui i pensatori iniziali erano capaci di vedere e di dire la ricchezza di ciò che è semplice (cogliere la ricchezza di ciò che è semplice, qui la dice in due parole come fa talvolta Heidegger, che però riassumono tutto quello che ha detto prima. Questo riunire si accorda e forma un uno, come dire tutti gli elementi che compongono il significato si riuniscono in una unità sensibile che è il significante, che è esattamente quello che dice qui “vedere la ricchezza di ciò che è semplice” di questo significante che è semplice perché è un’unità sensibile di ciò che è immanente, che i sensi percepiscono, in questa unità c’è una ricchezza infinita. Quante volte abbiamo detto negli anni passati della ricchezza che c’è in ciò che si sta dicendo e Heidegger lo sta dicendo così) Nel detto di Eraclito appena citato (“Il Signore, il cui luogo della profezia che da indicazioni si trova a Delfi (Apollo), non disvela soltanto né nasconde soltanto bensì da segni.” Che non dice né nega ma accenna) λγειν è il termine opposto di κρπτειν (i termini riunire e nascondere) appartengono all’ambito essenziale del rendere manifesto e del lasciar manifestare, ma il lasciar manifestare ancora più originario rispetto al quale ogni λγειν e ogni κρπτειν passa in secondo piano è costituito dal σημανειν cioè dal dare un segno (qui Heidegger incomincia a fare alcune considerazioni, a dire alcune cose intorno alla questione del segno) Si tratta quindi della φύσις che in se stessa è sia manifestarsi sia nascondersi (la φύσις è appunto ciò che non può cessare di sorgere nella interpretazione di Heidegger quindi come ci ha spiegato lui prima ciò che non cessa di sorgere è ciò che a un certo punto cessa di nascondersi, per questo dice che la φύσις è sia manifestarsi che nascondersi) se il dio disvelasse solo ciò che sorge e si manifesta, se nascondesse solo ciò che si nasconde non coglierebbe affatto la φύσις (il dio qui è Apollo) egli non può limitarsi a disvelare o a nascondere, non può fare ora una cosa ora un’altra ma deve fare entrambe le cose portando a compimento una unità originaria è quanto accade dando dei segni (sta cominciando a dire che il segno è ciò che manifesta ma anche nasconde) che cos’è infatti un segno? È qualcosa che mostra e che quindi disvela qualcosa, ciò che viene disvelato è proprio il dispiegarsi stesso rispetto all’ambito di ciò che non si mostra, ciò che non si mostra concede (diceva qualche pagina prima) a ciò che non si mostra di mostrarsi (quindi dare segni significa) disvelare qualcosa che, nella misura in cui si manifesta, rimanda all’ambito del nascosto e in questo modo lascia sorgere ciò che si mette al riparo nascondendosi, l’essenza del segno è il disvelarsi del nascondimento (questo per Heidegger è l’essenza del segno ve lo ripeto “l’essenza del segno è il disvelarsi del nascondimento”. Quindi il segno è qualcosa che mostra ma mostrando mostra anche ciò che è nascosto, che cosa mostra il segno di evidente? E che cosa invece mostra di nascosto? Il segno, dice qualche cosa, mostra qualche cosa, ma per poterlo mostrare, per potere dire di questa cosa deve dire qualche altra cosa che è nascosta. Nel differire del segno ciò che appare è quello che è, ciò che si manifesta, il disvelato, è quello che è grazie a ciò che è velato, a ciò che è nascosto, in questo senso “differire” sia come non essere la stessa cosa sia come spostamento. Quindi vedete che la nozione di segno in Heidegger è abbastanza precisa, dopo tutto, mostrando il segno qualcosa, mentre lo mostra anche lo cela, perché ciò che mostra non è quello che è se non in relazione a un’altra cosa. C’è del nascosto in ciò che si disvela, è come dire altrimenti ancora che dicendosi qualche cosa, una qualunque cosa, nel momento in cui si dice si dissolve in un’altra cosa: una cosa dicendosi diventa un’altra cosa, ma quest’altra cosa per essere quell’altra cosa ha bisogno della prima. È un percorso circolare che già Derrida metteva in mostra, ciò che si presenta, il presente, ciò che appare, è quello che è per via della ri-presentazione, cioè di un presentare di nuovo, ma un presentare di nuovo è qualcosa che di per sé non è mai stato finchè non c’è stata una ri-presentazione. Questo movimento circolare è il movimento del segno propriamente. Pensate a un significante, non può definirsi né cogliersi né intendersi se non attraverso il significato, e il significato non può né dirsi, né cogliersi né intendersi se non attraverso il significante. È una definizione di segno circolare. Questa è una questione enormemente importante oltre che complessa: il segno, cioè ciò che consente agli umani la conoscenza, il sapere, il dire, tutto, ha una definizione circolare, è come se girasse in tondo, senza potersi mai fermare su alcunché; il significante non può fermarsi sul significato e il significato non può fermarsi sul significante perché sono presi in un vortice continuo, che cosa dice una cosa del genere? Che ogni possibilità di conoscenza si basa su un qualche cosa che di fatto non fa che girare su se stesso, senza uscita, senza nessuna possibilità di arrestarsi, che è curioso, giacché ogni possibile idea, tentativo, volontà di stabilità, ogni sapere, ha come base, come fondamento un circolo. Ma l’apparire di una cosa del genere era già presente nei greci, e Heidegger ce lo mostra in questo mostrare che al tempo stesso è nascondere, non c’è nascondere senza mostrare, non c’è mostrare senza nascondere, come dire già dagli antichi si è intravista l’impossibilità di ogni fondamento, di ogni fondazione. Tutto ciò che è la condizione per potere dire, quindi per poter pensare qualunque fondamento è senza fondamento, senza fondamento perché è fatto su una cosa che gira su se stessa. Quindi pensate a tutte le implicazioni che ha una cosa del genere per quanto riguarda il sapere, l’epistemologia, la teoria della conoscenza, tutto, ciascuna di queste cose, il sapere umano in toto è fondato su un circolo vizioso, su un qualcosa la cui definizione non può che essere circolare, una cosa per definirsi ha bisogno di quell’altra e quell’altra per definirsi ha bisogno della prima. Nella logica formale esistono il teorema di deduzione, cioè la deduzione è un teorema, cioè dimostrabile, e un teorema di induzione. Ciò che la logica ha posto in queste dimostrazioni è che per potere dimostrare il teorema di deduzione è necessario ricorrere all’induzione, e per dimostrare il teorema di induzione è necessario un passaggio deduttivo, cioè la deduzione, che per dimostrarsi necessita dell’induzione e l’induzione per dimostrarsi necessita della deduzione. Vedete come ritorna sempre questa cosa che non può non ritornare perché è il linguaggio che funziona in questa maniera, è la sua stessa struttura in quanto rinvio: quando diciamo che è un rinvio già diciamo tutte queste cose.

Intervento: anche Nietzsche aveva posto l’“eterno ritorno” che non è altro che questo …

Potrebbe leggersi anche così, certo, come qualche cosa che comunque deve sempre ritornare l’identico, ma l’identico che cos’è? È il fatto che non può non tornare, è questo che si ripete sempre all’infinito.

Intervento: l’idea è quella di fermare questa deriva da qualche parte e cioè il fatto di fermare il significato che “dicendolo” rimanga significato e non significante …

Sì, sarebbe quella percezione trascendentale, immediata, ma per avere la percezione immediata come voleva Husserl dobbiamo togliere il segno, e cioè dobbiamo togliere il linguaggio, solo a questa condizione c’è questo rapporto diretto: è l’idea che possa mostrarsi la cosa in quanto tale, invece si mostrano segni …

Intervento: Lacan aveva messo in mostra che il significato è un significante …

Il significato non è un significante, ma il significato non può dirsi che attraverso significanti. Il significato è ciò che è trascendente cioè ciò che trascende. Che il segno operi in questo modo circolare è la cosa alla quale da sempre gli umani hanno cercato un rimedio perché altrimenti nulla è fondabile, nulla è “dicibile”, nel senso di fermarlo, di stabilirlo. Molte sviste sono avvenute per quello, perché occorre che qualche cosa permanga, che sia lo stesso, il problema è che per potere affermare che è lo stesso occorre un’altra cosa, ciò non di meno è lo stesso ma grazie a un’altra cosa e di nuovo siamo presi nella circolarità del segno. L’inganno è stato che qualcosa comunque permane, qualcosa è quello che è da qui l’idea di potere fermare “la cosa” in modo definitivo, invece non la si può fermare in modo definitivo, la si può fermare soltanto dicendo che è un’altra, cioè la fermo ma attraverso un’altra …

Intervento: mi viene in mente la “spirale” di Verdiglione …

Il disegno della spirale in qualche modo rende conto di una cosa del genere, nel senso che torna sempre in uno spostamento, però per esempio se la poniamo come la voleva porre Nietzsche allora è diverso, perché non è più una spirale ma è un circolo effettivamente, nel senso che ciò che ritorna non è la cosa ma ciò che ritorna è la necessità di ripetere questo movimento. Sulla questione dell’oggetto ci sarebbe molto da dire, ne parleremo quando leggeremo la questione della “cosa”, sempre di Heidegger, dove la riprende da Kant però a modo suo, come fa sempre Heidegger, mostrando che “la cosa” in effetti o la si pone in termini metafisici, come oggetto metafisico così come la pone Verdiglione, lei lo citava prima, così come pone l’oggetto è un oggetto metafisico perché è irrelato, cioè è qualcosa che viene posto senza porlo come effetto di relazioni, per questo era molto più interessante Hjelmslev che parlava di “oggetto” come l’intersezione di un fascio di relazioni, invece porlo così come “oggetto irrelato” è l’oggetto metafisico né più né meno cioè l’oggetto che c’è, perché? perché sì. Esiste. Dice ancora Heidegger) L’essenza del segno non è il risultato della composizione e dell’accostamento dei due diversi momenti, il mostrare proprio del segno consiste piuttosto nel modo originario in cui ciò che lo caratterizza cioè il disvelarsi e il nascondersi considerati di per sé domina ancora indiviso (sta dicendo che il segno è uno, nonostante sia fatto di significante e significato è uno) mostrare nel senso del segno significa rendere manifesto in modo conforme alla essenza della φύσις adeguandosi al favore che in essa domina, la φύσις stessa è ciò che si mostra, ciò che essenzialmente si mostra nel segno (quindi che cosa si mostra nel segno? Seguendo Heidegger ovviamente? Che le cose non cessano di dirsi. Questa per Heidegger è l’essenza del segno, perché dice che il segno mostra la φύσις, sì, è fatto di queste due cose però ciò che mostra di fatto è la sua inarrestabilità, è il non cessare di sorgere, perché la φύσις è questo, l’aveva definito in modo molto preciso. La φύσις è ciò che non cessa di sorgere, quindi ciò che non cessa di dirsi, e l’essenza del segno è che le cose non cessano di dirsi. Il linguaggio non si ferma) Il vero è il non detto che rimane tale in ciò che è detto rigorosamente e in modo adeguato (il vero è il non detto, pensate un attimo a Freud. Il motivo per cui una persona dice sono le fantasie, il non detto sta in questo, il vero di ciò che si dice, il vero qui in senso autentico, perché dice subito prima “il vero non è la piattezza del mero calcolo né il senso nascosto della così detta visione, quel senso che ribolle nel profondo”, ciò che ribolle nel profondo per Heidegger è l’essere, è il δαίμων, che è un modo di pensare l’essere, vi ricordate nel Parmenide? È ciò che irrompe nell’essere squarciandolo, ciò che fa del segno qualche cosa che non è gestibile, non è padroneggiabile, nel senso che non si può fermare la sua circolarità. Il δαίμων potrebbe anche essere inteso in questo modo come la inevitabile, inesorabile circolarità del segno. Poi a pag. 124, qui siamo nella sezione in cui parla proprio della logica) Veri pensieri vengono destinati all’uomo per essere pensati e ciò accade solo quando l’uomo si dispone a pensare nel giusto raccoglimento, vale a dire quando egli è in quella particolare disposizione che cerca di pensare ciò che gli viene incontro come ciò che è da pensare (Ciò che gli viene incontro non è né la cosa né la realtà, ciò che viene incontro è ciò che è da pensare) Il termine “logica” ci si presenta quindi subito segnato da una singolare ambivalenza, in primo luogo esso significa logica del pensiero mentre in secondo luogo indica la logica delle cose (c’è una logica del pensiero questo, nella tradizione, la logica del pensiero è la logica formale aristotelica, e una logica delle cose perché le cose sono quelle che sono e non sono ciò che non sono, da qui la logica del pensiero dovrebbe trarre la lezione per attenersi al fatto che, come diceva Parmenide, ciò che è, è e ciò che è non può non essere) La logica del pensiero da una parte significa ciò che regola il comportamento del pensiero dall’altra indica la struttura delle cose, innanzi tutto non sappiamo da dove scaturisca tale ambivalenza della logica (dice che non è una cosa naturale, non sappiamo da dove venga questa idea) non sappiamo in che senso la logica sia divenuta necessaria e perché si sia consolidata diventando qualcosa di acquisito in cui ci muoviamo spensierati attratti dagli aspetti che la contraddistinguono (perché il mio pensiero è corretto? Perché si adegua alla cosa e la cosa è quella è, se il mio pensiero si adegua alla cosa, la cosa è quella che è e il mio pensiero dice come stanno le cose, ecco dice Heidegger non sappiamo perché ci comportiamo così, non è una cosa naturale) noi però intendiamo il termine logica esclusivamente nel significato di dottrina delle forme e delle regole del pensiero, è dunque una cosa del tutto singolare avere a che fare con la logica e con lo studio della logica, se la si concepisce come la dottrina del pensiero si ritiene che tutto dipende non solo dall’apprendere le regole del corretto pensare fissate dalla logica ma anche dall’applicarle correttamente (questa è la definizione di logica tradizionale, cioè la logica mostra quali sono le regole del corretto pensiero, non le impone, le mostra immaginando che ci sia un qualche cosa che c’è già ed è la realtà ovviamente, le cose che sono quelle che sono, l’essere che è quello che è e le regole della logica, cioè del pensiero, devono soltanto mostrare come a partire dalla realtà si pensa correttamente, con il principio primo ovviamente, il principio di non contraddizione, infatti ne parlerà più avanti) applicarle correttamente, ma applicarle a che cosa? (si chiede Heidegger) evidentemente all’esperienza, all’osservazione e alla trattazione degli oggetti, delle cose e degli uomini ma come possiamo applicare il pensiero alle cose se non conosciamo bene già da prima gli oggetti, le cose e la loro logica? (sta dicendo “come facciamo a sapere che una cosa è quella che è? Perché solo a condizione che sia quella che è poi il pensiero può muoversi e istituire l’adæquatio rei et intellectus). E posto che si abbia di volta in volta dimestichezza con la logica delle cose stesse e con la logica degli ambiti oggettuali di volta in volta dati, a che scopo abbiamo allora ancora bisogno di applicare alle cose le regole della logica intesa come dottrina del pensiero? (se le cose sono quelle che sono, che ce ne facciamo della logica? se è così non abbiamo da farcene niente) ma quando pensiamo attenendoci a ciò che è proprio della cosa e in che modo ciò avviene? Su quale via e seguendo quali indicazioni impariamo a pensare in questo modo? In che senso dobbiamo pensare a partire dagli oggetti e dalle cose? Che genere di necessità incontriamo qui? Questa necessità nasce solo da un’esigenza di pensare oggettivamente formulata chissà quando da uomini di una certa epoca? Ma “oggettivamente” vale a dire in modo corrispondente agli oggetti pensano solo i soggetti (occorre che ci sia qualcuno che pensi le cose) l’oggettività come ideale si dà solo nell’ambito della soggettività (sono solo io che dico che quella cosa lì è un oggetto, l’oggetto non lo fa, quindi occorre un soggetto per potere stabilire l’oggettività, obiettività, la scienza e tutte queste altre belle cose che vengono appresso) si dà solo là dove l’uomo si conosce come soggetto, ma fino a che punto questa esigenza di oggettività risponde a quel che qui chiamiamo ciò che è proprio della cosa? ciò che noi chiamiamo “oggettività” è veramente ciò che è proprio della cosa? come potrebbe esserlo se tutto ciò che è oggettivo è soltanto il modo particolare in cui la soggettività dell’uomo obiettiva davanti a sé le cose, cioè le pone davanti a sé, le pone di fronte e le riduce ad oggetti? (tutta una serie di domande che si fa, domande legittime tra l’altro) come potrebbe esserlo se l’“oggettivo” non si mostrasse affatto nell’ambito delle cose stesse? (come potrebbe essere sicuro se questa oggettività non si mostrasse già nelle stesse cose? Questa è l’idea: che l’oggettività si mostri dalle cose stesse) Ci chiediamo nuovamente perché dobbiamo pensare a partire dagli oggetti e dalle cose e come ciò avvenga (quindi sta mettendo in discussione tutto l’impianto della logica, la logica muove dal detto di Parmenide “l’essere è e non può non essere”, poi c’è qualche modifica, muove cioè dal principio primo “una cosa non può essere se stessa e altro da sé simultaneamente” quindi la logica parte dalle cose “questa cosa qui non può essere quello che è e anche il suo contrario” cioè non può essere e anche non essere, questo è il principio primo) che ne è qui dell’uomo? dato che egli è chiamato in causa dalla necessità di pensare attenendosi a ciò che è proprio della cosa, vale a dire è chiamato in causa dalla necessità di pensare in generale, cosa implica il fatto che l’uomo può sottrarsi a questo appello, eluderlo, non tenerne conto e fraintenderlo andando subito a finire su un terreno privo di difese e protezione? Da dove proviene e in che modo si rivolge all’uomo l’appello che in lui si fa presente e lo invita a pensare e a pensare proprio in modo conforme a ciò che è proprio delle cose? (si sta chiedendo come facciamo a sapere tutte queste cose?) Ha l’uomo, abbiamo noi la capacità di prestare ascolto a questa parola che a noi si rivolge? Fino a che punto siamo in grado di ascoltare ciò che stiamo dicendo? Fino a che punto comprendiamo il linguaggio di quel che ci viene detto? Stiamo in rapporto con la parola che si esprime in quel che ci viene detto? Cos’è in generale la parola? che cosa significa rispondere a un appello che determina il nostro essere? Queste domande or ora formulate non sono forse le vere domande della logica? “Logica” si dice è la dottrina del corretto pensare ma perché sia effettivamente dottrina del corretto pensare occorre prima sapere che “cos’è pensare?”, pensare correttamente, pensare a partire dalla cosa, pensare in generale è necessario ma prima di tutto la cosa più necessaria è imparare a pensare. /…/ pag. 126 (qui è passato alla questione del pensare e quindi del pensare in termini di πιστήμη, cioè un pensare che cerca la verità delle cose, la logica indica il modo del pensare corretto, cioè la logica serve a trovare la verità, infatti dice) “Logica” intesa come espressione abbreviata di πιστήμη λογικ è il sapere di ciò che riguarda il λόγος, cosa vuol dire λόγος? (e da qui si domanda cosa significa πιστήμη? L’πιστήμη come sapete è la verità certa, sicura “πι-στήμη” “ciò che sta sopra”) il verbo corrispondente è πστασθαι vale a dire porsi qualcosa di fronte, trattenersi presso di esso e stargli davanti affinché si possa mostrare. La locuzione πίστασις significa fra l’altro il soffermarsi davanti a qualcosa, prestare attenzione a qualche cosa, questo stare davanti a qualcosa questo soffermarsi e prestare attenzione racchiude in sé il fatto che noi veniamo a sapere qualcosa e conosciamo ciò di fronte a cui stiamo, con questa conoscenza noi possiamo stare di fronte alla cosa in questione, davanti alla quale e rivolti alla quale ci soffermiamo e prestiamo attenzione, poter stare di fronte a una cosa significa avere di essa un sapere, traduciamo quindi πιστήμη come avere un sapere di qualcosa. Molto spesso si traduce la parola episteme con scienza, con ciò si intende inavvertitamente ma anche impropriamente e con precipitosa approssimazione la scienza moderna, questa scienza, la scienza moderna, nel suo nucleo profondo che viene alla luce visibilmente nel corso della storia moderna ha un essenza tecnica, la nostra affermazione secondo la quale la scienza moderna è una delle forme necessarie del compimento della tecnica moderna può risultare sorprendente, tale aspetto sorprendente resterebbe ancora se potessimo dire subito chiaramente in che cosa consiste l’essenza della tecnica moderna ma questo non si può dire immediatamente, sia perché questa essenza da un certo punto di vista rimane ancora nascosto, non si può anticipare in poche frasi ciò che deve essere ancora chiarito /…/ l’uomo moderno si impadronisce attraverso un processo di chiarificazione della natura, della storia, del mondo, della terra (che è ciò che fa la tecnica) così facendo egli pianifica questi ambiti chiariti e li utilizza secondo i suoi bisogni al fine di consolidare la sua volontà di essere signore del mondo intero secondo le modalità dell’ordinare (mettere in ordine le cose in modo da controllare, gestire eccetera) questa volontà che in ogni programmare ed apprendere ogni cosa voluta e conseguita vuole solo se stessa (qui c’è Nietzsche) e nient’altro che se stessa e vuole che la sua capacità di volere sia dotata della possibilità di accrescersi sempre di più, è il fondamento e l’ambito essenziale della tecnica moderna (come avevamo già visto, il super potenziamento) la tecnica è al tempo stesso l’organizzazione e l’organo che vuole il volere per il volere, le stirpi umane, i popoli, le nazioni, i gruppi e i singoli sono da per tutto soltanto voluti da questa volontà e non certo di loro iniziativa, vale a dire non traggono da se stessi l’origine e il centro di questo volere bensì sono solo i suoi esecutori spesso perfino riluttanti (qui il passo che sarebbe da fare, e lo faremo, è tra la volontà di potenza e la circolarità del segno. È vero quello che dice Heidegger, non è che uno lo decide di volere il volere, si trova a volerlo, si trova in questo super potenziamento continuamente, si trova a volere la tecnica, si trova a volere la tecnica perché la tecnica gli dà questa illusione, questa idea di potere continuare a volere sempre di più, quindi potenziarsi sempre di più, quindi dominare sempre di più. Ma tutto questo alla base ha la circolarità del segno, o che altro? È chiaro che come abbiamo già visto tempo fa è il linguaggio che costringe alla volontà di potenza, costringe alla volontà di potenza perché ciascuna proposizione, ciascuna articolazione deve giungere alla conclusione, perché questa conclusione non soddisfa. Perché fermarsi a una conclusione, come diceva Nietzsche, è un depotenziamento, perché deve continuare a potenziare? Perché la conclusione non è sufficiente, non basta. Perché non è sostenibile. Perché non è dimostrabile e non è dimostrabile perché è presa in questa circolarità da cui non c’è uscita e che impedisce che una certa cosa possa affermarsi fuori dal linguaggio e non potendosi affermare che all’interno del linguaggio è soggetta al funzionamento del linguaggio, cioè è soggetta a dovere essere quella che è in virtù di un’altra che non è. Il discorso grosso modo verte su questo, e cioè su una differente posizione rispetto al λόγος per cui per Heidegger la logica così come la intende lui non è un sistema di regole che dicono come è corretto pensare, ma è ciò che riunisce e riunendo offre al parlante qualche cosa, e di nuovo torniamo qui alla questione che si era posta precedentemente rispetto all’λήθεια. La logica pensata dal greco antico e come la propone Heidegger non è una logica che serve al dominio, non è una logica al servizio del potere. È la logica che è sorta dopo insieme con la scienza, quindi con la tecnica, che precede la scienza, che ha dato alla logica moderna questa sua forma che non c’era, cioè c’era già con Aristotele ovviamente, l’ha formalizzata lui, ma quando Heidegger parla di greco antico parla sempre del greco pre socratico, pre metafisico. Con Aristotele siamo già in piena metafisica, in piena logica formale quindi ci sono parecchie cose da precisare e lo faremo seguendo Heidegger …

Intervento: la tecnica pare volersi sostituire al linguaggio come se potesse farne ameno …

La definizione più comune di tecnica è “una produzione di mezzi per ottenere dei fini”, è chiaro che si pone come la realizzazione di tutto ciò che il pensiero, cioè la parola, propone, tutto ciò che si desidera è possibile ottenerlo quindi in parte sì, uno dei progetti della tecnica è rendere la parola secondaria. D’altra parte quando c’è la possibilità di soddisfare qualunque cosa immediatamente prima ancora che sia pensabile, la parola potrebbe anche essere considerata superflua, è chiaro che la questione è più complicata, però politicamente la tecnica potrebbe essere usata anche per questo motivo e cioè per illudere le persone che non hanno più bisogno di parlare e non avendo più bisogno di parlare non hanno più bisogno di pensare: la tecnica toglie il pensiero, lo rende inutile, perché il pensiero è sempre un pensiero per fare qualche cosa, un progetto diceva Heidegger. Questo progetto è come se la tecnica l’avesse già stabilito, l’avesse già mostrato addirittura: “ecco quello che vuoi, il tuo progetto è questo” togliendo quindi l’autenticità a ciascuno del proprio progetto. Uno dei motivi per cui Heidegger detestava la tecnica, è che la tecnica toglie l’autenticità al progetto di ciascuno, toglie la possibilità a ciascuno di trovarsi di fronte alle cose interrogandole, perché se sono già definite in ambito tecnico, già mostrate perché interrogarle? Non serve a niente, l’unica cosa che serve è la tecnica. Qui si inserisce un’altra questione, e cioè offre a piene mani la possibilità di un super potenziamento infinito …

Intervento: per la tecnica non esiste più la contraddizione cioè non esiste più un qualche cosa che si scontra in un conflitto con qualche cos’altro perché la tecnica è la risposta, è il superamento della contraddizione…

Perché ci sia contraddizione occorre che una certa cosa sia affermata, sia quella che è, la tecnica dice invece il contrario, che una cosa non è mai quella che è ma è sempre in vista di un’altra, nel senso della metafisica ovviamente, ma in vista di un’altra al fine unico del super potenziamento continuo, inesorabile e infinito.