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4 aprile 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Prima di proseguire con la lettura, volevo accennarvi a un’idea, a cui stavo pensando in questi giorni. Stavo riflettendo intorno alla metafisica, e stavo leggendo un seminario di Sini sulla metafisica del 1996. Lui affronta la questione della metafisica tenendo presente cose che a noi interessano e, quindi, può essere interessante. Questo testo consiste in una riflessione intorno alla metafisica, e l’idea mi è venuta dalla formuletta di Peirce, a è b, che, abbiamo già detto, è il funzionamento stesso del linguaggio, della metafisica. Da lì ho pensato a questo, e cioè che la metafisica di per sé non è nient’altro che la descrizione del funzionamento del linguaggio. E così, i problemi della metafisica, cioè i problemi della fondazione, sono i problemi stessi del linguaggio, l’impossibilità di trovare un fondamento. Questo comporta una cosa di cui parliamo già da tempo, questo accostamento l’abbiamo infatti già fatto molte volte, però non è mai stato problematizzato, come direbbe Heidegger, a sufficienza. Possiamo leggere a questo punto un testo come I concetti fondamentali della metafisica, di Heidegger, come un testo che parla di linguaggio, di linguistica. Anziché leggere i testi di linguistica, di semiotica, leggiamo un testo di metafisica, e questo ci racconta come funziona esattamente il linguaggio. Ho pensato a questo, anziché andarci a rileggere la Metafisica di Aristotele, perché qui Heidegger affronta la questione della metafisica, certamente citando Aristotele, è ovvio, ma cogliendo con l’acume, con l’apertura che è tipica del suo modo di pensare, questioni fondamentali per intendere come esattamente la metafisica sia sempre stata la descrizione del modo in cui il linguaggio funziona, che Peirce compendiava nella formuletta a è b, cioè sapere che cos’è qualche cosa. Questo sarebbe il compito della metafisica, cioè lo studio dell’ente in quanto ente. Ente in quanto participio presente del verbo essere, che in italiano sarebbe più propriamente “essente”, mentre “ente” sarebbe il participio presente del verbo latino “esse”. Questo potrebbe aprire a un modo differente di approcciare tutte le questioni che ci stanno interrogando da qualche tempo. Non più la metafisica come il modo tradizionale che cerca il fondamento, di stabilire principi, ecc., cose inevitabili peraltro, ma come la struttura stessa del linguaggio, né più né meno. La metafisica, come sapete, è antica, è stata formalizzata da Aristotele, certo, ma esisteva già da prima con Platone. Il termine metafisica è nato quando hanno organizzato i testi di Aristotele, questi testi venivano dopo quelli della Fisica e allora μετά τα φυσικά, non pare comunque neanche sicuro questo, si suppone, si pensa. A questo punto, dicevo, la metafisica assume un rilievo differente per tutto ciò che stiamo facendo, perché potrebbe dirci qualche cosa in più in effetti del modo in cui funziona il linguaggio. Non che ci aggiunga cose che propriamente ancora non sappiamo ma ci offre l’occasione per uno sguardo diverso nei confronti della struttura del linguaggio. Forse può precisare delle cose, il che può sempre tornare utile, e, di conseguenza, mostrarci in modo più dettagliato, insieme con il funzionamento del linguaggio ovviamente, il funzionamento della volontà di potenza. Questo è il motivo per cui avevo in animo di affrontare questo testo, cioè mettere a tema e problematizzare la questione metafisica come questione del linguaggio: linguaggio = metafisica. Il linguaggio, nel suo procedere, non può né deve esimersi dal stabilire che cos’è una certa cosa, come stanno le cose, lo si fa ininterrottamente mentre si parla. L’uso del verbo essere, in una proposizione, allude a questo. “Simona è rossa”: è un’affermazione banale ma in realtà molto complessa, indica il funzionamento del pensiero, è un’affermazione metafisica, perché io devo presupporre che ci sia un qualche cosa e che questo qualche cosa sia Simona, che ci sia una copula che mette insieme Simona con il rosso, ecc., devo presupporre metafisicamente una serie di cose. Ora, il linguaggio non può funzionare se non così, e già Heidegger lo diceva, provate a togliere il verbo essere, cosa fate? Niente. È come se la metafisica ci offrisse uno sguardo completo non su una dottrina filosofica, cosa che non ci importa, ci importa, invece, della descrizione che sta facendo di sé. Il funzionamento della metafisica è il funzionamento del linguaggio, tutto qui. Così come non posso, parlando, affermare continuamente cose che presuppongo. Il linguaggio comune è la metafisica e non può non esserlo, è questo il punto. È necessariamente metafisico, cioè deve presupporre continuamente cose. Peirce parlava della “verità pubblica”, così come Heidegger parlava della chiacchiera: noi nasciamo nella chiacchiera, cioè nasciamo nella metafisica, vale a dire, in affermazioni che non hanno alcun fondamento ma che vorrebbero essere fondate. che cercano il fondamento per potersi affermare con validità.

Intervento: Il rivenire all’Esserci di Heidegger sarebbe allora l’accorgersi di questo, dal quale poi non c’è uscita.

Sì, e questo sarebbe l’altro aspetto fondamentale, per cui non c’è uscita. Non c’è nessuna possibilità di uscire dalla metafisica, è possibile invece accorgersi di ciò che sta accadendo, e cioè che io parlando non faccio altro che continuare a presupporre cose di cui, di fatto, non so niente. Certo, posso di sapere, posso dire la chiacchiera, ma non posso dire che cos’è una certa cosa. Ecco, il problema della metafisica, che non può dire che cos’è realmente qualche cosa, che si scontra con il problema del linguaggio, non è altro che il problema stesso del linguaggio, come se un qualche cosa squarciasse la metafisica, che è la stessa cosa che squarcia il linguaggio, cioè, la necessità che per dire una cosa ne devo dire un’altra e, pertanto, non potrò mai dire che cos’è, perché per dire questo devo dire altre parole, altre cose. Il problema del linguaggio è il problema della metafisica, è esattamente lo stesso: la necessità di determinare qualche cosa, cioè di trovare un principio primo, come voleva Aristotele, e al tempo stesso trovarsi di fronte all’impossibilità di fare questo perché, stabilendo il principio primo, io faccio altre cose, mi sposto su altre cose, passo da un segno a un altro segno, e giungere a considerare, insieme a Peirce, che qualunque cosa è un segno. Se però è un segno allora vuol dire che è un rinvio, che è quella che è perché è un rinvio. Ecco il problema del linguaggio: ciascuna cosa è quella che è perché è un rinvio, ciascuna cosa è quella che è perché non è quella che è. Ecco perché a questo punto interessa la metafisica e riuscire con voi a intendere bene questa questione che ritengo importante. Come dicevo prima, può aprire un nuovo sguardo su tutta la questione e renderla più semplice. Questa era l’idea che mi è venuta alla mente l’altro giorno pensando alla formuletta a è b. Bene, proseguiamo allora lettura. La parte dedicata a Nietzsche è interessante, parla, sì, del linguaggio ma, soprattutto, riguarda la volontà di potenza. A pag. 142. È una citazione di Nietzsche. Perché in generale conoscere? Ognuno ce lo chiederà. E noi, messi in tal modo alle strette, noi che già ci siamo rivolti ceto volte questa domanda, non abbiamo trovato né troviamo alcuna risposta migliore… E prosegue Sini: È a questo punto che la volontà di verità viene essa stessa travolta dall’onda di un grande e paralizzante sospetto. Che cosa vuole veramente la volontà di verità? Come dire: perché si cerca la verità? Che ce ne facciamo della verità? Niente, risponderebbe Nietzsche. Di nuovo Nietzsche Io non credo che un “istinto di conoscenza” sia il padre della filosofia... Ricordate Aristotele, nella prima pagina del primo libro della Metafisica, dice che gli umani sono naturalmente portati al conoscere, alla conoscenza, c’è questa voglia di sapere. Aristotele usa la parola thauma (θαμα), poi Severino dirà altre cose, ma comunemente si suppone che questo sia stato l’assunto fondamentale di tutta la metafisica di Aristotele: la volontà di sapere. Invece, Nietzsche dice che Io non credo che un “istinto di conoscenza” sia il padre della filosofia, ma che piuttosto un altro istinto, in questo caso come in altri casi, si sia servito della conoscenza (e della errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento (af. 6) Dice Sini Tutta la “volontà di sapere” della storia della filosofia e della scienza è germogliata “sul fondamento di una volontà moto più possente, la volontà cioè di non sapere, d’incertezza, di non verità” (af. 24) Poiché ha compreso questa esigenza, il nuovo filosofo deve guardarsi dal “martirio”, deve guardarsi… di nuovo Nietzsche. …dal soffrire “per amore della verità” (…) Il martirio del filosofo, il suo “olocausto per la verità”, porta alla luce quel che di demagogico e d’istrionesco si annida in lui; e posto che sino a oggi lo si sia riguardato soltanto con una curiosità artistica, può essere certo comprensibile, in rapporto a molti filosofi, il pericoloso desiderio di vederli una buona volta anche nella loro degenerazione (degenerati nella forma del “martire”, dell’urlatore da ribalta e da tribuna). Soltanto che, avendo un tal desiderio, si deve essere chiari su quel che ci sarà da vedere: - null’altro che una rappresentazione satiresca, una farsa da fine-spettacolo, la perpetua dimostrazione che la lunga vera tragedia è finita: ammesso che ogni filosofia, nel suo nascere, sia stata una lunga tragedia (af. 25). La fine della tragedia del conoscere, dunque, Io stesso ho imparato da un pezzo a pensarla diversamente sugli inganni creati o subiti, a valutarli diversamente, e tengo pronte almeno un paio di botte nelle costole, per il cieco furore con cui i filosofi ricalcitrano al fatto di venir ingannati. Perché no? Che la verità abbia maggior valore dell’apparenza, non è nulla più che un pregiudizio morale; è perfino l’ammissione peggio dimostrata che ci sia al mondo. Si voglia dunque confessare a se stessi quanto segue: che non ci sarebbe assolutamente vita, se non sulla base di valutazioni e di illusioni prospettiche; e se si volesse con il virtuoso entusiasmo e la balordaggine di alcuni filosofi togliere completamente di mezzo il “mondo apparente”, ebbene, posto che voi possiate far questo, - anche della vostra “verità”, almeno in questo caso, non resterebbe più nulla! Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esiste una sostanziale antitesi di “vero” e “falso”? Non basta forse riconoscere diversi gradi di illusorietà?... (af. 34) Poco più avanti, è Sini che parla. Sicché ne consegue che l’esaltazione della conoscenza “per amore della conoscenza” è solo “l’ultimo tranello che ci tende la morale”, nella sua decadente negazione della vita. … La volontà di verità ha due facce: per un aspetto essa, in quanto “crudeltà” contro se stessi e contro le innumerevoli maschere della vita, non è altro che un ulteriore aspetto del grande inganno metafisico e morale, nato con Platone, potenziatosi nel cristianesimo e poi culminato della décadence e nel nichilismo contemporanei. Sappiamo perché, per Nietzsche è nato con Platone. Platone diceva che le cose vere sono quelle che stanno nell’iperuranio, sono le idee; ciò che vediamo qui sono cose illusorie, false. Dobbiamo sempre tenere in conto che queste cose le diceva Platone, che le cose vere non stanno qui nel mondo, stanno nel mondo delle idee. Da qui l’idea che l’arte fosse doppiamente falsa perché, non soltanto fala risetto a ciò che rappresenta, ma questa stessa cosa che rappresenta è falsa rispetto all’idea, quindi, doppiamente falsa. Platone non aveva una grande considerazione dell’arte. Ma per un altro aspetto, in quanto la volontà di verità mette capo a un sapere che riposa di fatto sul non sapere, sul non voler sapere, essa è una creazione di nuove maschere e cioè di nuovi “valori”. Nietzsche qui, attraverso le parole di Sini, ci sta ponendo una questione interessante: la volontà di sapere per Nietzsche non c’è, mentre c’è una volontà di non sapere. Che cosa gli umani non vogliono assolutamente sapere? La risposta è semplice e ci rimanda a ciò che dicevamo prima rispetto ai problemi della metafisica, ai problemi del linguaggio. Ciò che gli umani non vogliono sapere è che tutto ciò che danno per sicuro, per certo, per acquisito, appoggia su niente, appoggia sulla chiacchiera, sulla verità pubblica, appoggia sulla volontà di potenza. Non c’è altro sotto, è questo che lui intendeva dire dicendo che non c’è la verità dietro l’apparenza, dietro ciò che appare, ciò che appare è ciò con cui abbiamo a che fare. Qui potremmo fare anche un richiamo a Heidegger: ciò che appare, la semplice presenza. Cosa c’è dietro la semplice presenza? Per Nietzsche niente, per Heidegger è l’essere, ma l’essere è niente, è nulla. Lo abbiamo visto varie volte, l’essere, ciò che costituisce l’essenza dell’ente, che dà all’ente la sua enticità, che lo fa essere quello che è, quando vado a cercarlo mi trovo di fronte a che cosa? Un non ente, cioè, letteralmente, niente. L’ente non è l’essere, sta qui la differenza ontologica. In effetti, non ha torto Nietzsche dicendo che gli umani non cercano la verità. Potremmo dirlo con le parole di Heidegger: non cercano l’autentico ma cercano la chiacchiera, cercano il si dice, il si pensa. Nessuno ha voglia di confrontarsi con la responsabilità che comporta l’accogliere il fatto che ciascuna cosa che io affermo affonda le sue radici sulla chiacchiera, sulla verità pubblica, su quella cosa che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, le cose che ciascuno ha acquisito senza sapere né come né perché, e che ha fatto proprie. Sono quelle cose che gli consentono di muoversi nel mondo, di interpretare il mondo, cioè, di dare un senso al mondo. A pag. 145. La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che “niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano”. Questa incondizionata volontà di verità, che cos’è dunque? È la volontà di non lasciarsi ingannare? È la volontà di non ingannare? Potrebbe, infatti, la volontà di verità essere interpretata in quest’ultimo modo: supposto che, sotto la generalizzazione “io non voglio ingannare”, si ricomprende anche il caso singolo “io non voglio ingannare me”. Ma perché no ingannare? Ma perché non lasciarsi ingannare? (…) Che sapete voi a priori sul carattere dell’esistenza per poter decidere se il vantaggio più grande sta dalla parte dell’assoluta diffidenza o dell’assoluta fiducia? (…) “io non voglio ingannare neppure me stesso”: e con ciò siamo sul terreno della morale. Ci si rivolga, infatti, soltanto questa domanda di fondo: “Perché non vuoi ingannare?”. Specialmente quando dovrebbe esservi l’apparenza -  e c’è questa apparenza! – che la vita fosse contesta di apparenza, voglio dire d’errore, d’inganno, di ipocrisia, d’accecamento, di autoaccecamento, e quando d’altro canto, effettivamente, la forma grande della vita si è sempre mostrata dalla parte dei più spregiudicati polutropoi (πολύτροποι, coloro che hanno molte idee, che hanno un ingegno multiforme). Volontà di verità come volontà di morte, dice qui. Perché? Ciascuno, potremmo dire, potrebbe approcciare la questione, ma seguiamo le parole di Sini. A pag. 146. Volontà di verità sarebbe dunque un’occulta volontà di morte. Soltanto questo e nient’altro? Sì, altro ancora. Nietzsche, e lo abbiamo visto, oscilla insoddisfatto fra numerose e ambigue possibilità. Qual è l’origine del nostro concetto di conoscenza? Si chiede ancora. Non è il desiderio di ridurre l’ignoto al noto, ciò che è inquietante, inusitato, problematico a ciò che è abituale e familiare la causa profonda del nostro bisogno di conoscere? È questa la causa profonda dell’inusitato? Freud userebbe una parola per descrivere questo: Unheimlich, lo straniante, letteralmente. Ma che senso può avere questo istinto se “l’errore è il presupposto del conoscere”? L’errore è il presupposto del conoscere, la nostra conoscenza, come dicevo prima, affonda le radici nell’“errore”, tra virgolette perché a questo punto non è neanche più errore, è semplicemente infondatezza, impossibilità di determinazione. È il problema della metafisica: come stabilire il principio primo? In base a che cosa? come posso fermare qualche cosa se per fermarlo devo fare un’altra cosa? Ecco l’errore, il presupposto del conoscere, tutta la conoscenza, la più sofisticata, anche quella apparentemente più precisa, come la conoscenza della fisica, della matematica, affondano comunque le loro radici nella chiacchiera, in qualche cosa che non è possibile in nessun modo né provare né garantire, anche perché qualunque prova sarà sempre costruita a partire da queste cose, dalla chiacchiera, da ciò che ciascuno ha appreso, fin dai primi balbettii, e di cui non conosce nulla perché sono cose che non hanno nessun fondamento né potrebbero averlo. Qui c’è una frase che è rimasta celebre, l’aforisma 374. Dice Nietzsche No, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È necessario infine mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi. In quanto la parola “conoscenza” abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Si chiede Nietzsche se È necessario infine mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Per esempio, per Peirce no. Infatti, per Peirce l’interprete non è qualcuno che fa questa cosa che chiamiamo interpretare. L’interprete è quell’altro segno cui questo segno rinvia.

Intervento: Interprete o interpretante, in questo caso?

Interprete. L’interpretante è il segno, che Peirce scompone in tre parti, sarebbe il simbolo. Quindi, non è qualcuno ma è un altro segno, un rinvio: è questo che interpreta. Quindi, alla domanda che fa Nietzsche È necessario infine mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? la risposta è no, non c’è bisogno di nessuno, i segni vengono interpretati da altri segni, continuamente, senza bisogno di qualcuno che lo faccia. Dice Sini La volontà di verità ha così messo capo alla sua ultima “verità”: che ogni verità, si potrebbe dire, è una prospettiva, un’interpretazione, un segno; in ultima analisi, una maschera. La filosofia (e anche l’arte, la religione, ecc.) è il linguaggio di questa necessaria menzogna; anzi, l’uomo stesso è questo linguaggio. “…Non si scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé? ”.. Dunque, dice Nietzsche, il linguaggio come una necessaria menzogna. Sì, dalla sua posizione, certo. Il linguaggio che cosa copre? Copre se stesso, copre la sua impossibilità di dire la verità, se ci atteniamo a quello che sta dicendo, di poter stabilire un principio primo. È questo che copre, lo copre con una maschera. Ora, il coprire con una maschera questo impossibile, questo squarcio che apre qualunque parola, è esattamente ciò che fa la metafisica, ciò che fa il linguaggio. Il linguaggio fa continuamente questo, è come se fosse alla continua rincorsa di ciò che gli sfugge, ha la necessità di validare le proprie affermazioni, di renderle vere, di farle credere. Tutte queste operazioni, direbbe Nietzsche, mascherano una impossibilità che è data dallo squarciarsi della parola e della impossibilità della parola di potere dire la cosa, di potere dire se stessa senza dire altre parole. Una parola è sempre fatta di altre parole, sennò non esisterebbe, una qualunque parola è quella che è, la riconosciamo come parola perché è connessa con infinite altre parole, sennò sarebbe un suono senza senso. A pag. 149 la famosa Sentenza 146 di Nietzsche. Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te. A parte l’efficacia retorica e la suggestività delle parole di Nietzsche, che sono sempre molto potenti, sta però dicendo una cosa straordinaria, perché questo abisso che squarcia la parola, di cui poi la parola è in un certo senso fatta… A questo in parte ci arriverà Derrida, parlando della différence, cioè di questa differenza, di questo niente che, però, fa esistere la parola. Questo abisso, dicevo, fa esistere la parola perché se la parola non è se stessa allora è altre parole, ma è questa la condizione del linguaggio, il linguaggio è questo. Occorre, allora, scrutare questo abisso che è nella parola e lasciare che questo abisso scruti dentro di noi, e cioè che questa impossibilità della parola possiamo accoglierla e praticare continuamente, tenendone conto in ciascun atto, in ciascun momento. Nietzsche dice Qui c’è una barriera: il nostro stesso pensare implica quella fede (con la sua distinzione di sostanza e accidente, fare e autore, ecc.); farla cadere significa non potere più pensare. C’è una barriera invalicabile. Qual è la barriera che non posso valicare? Che per dire una cosa devo dirne un’altra, questa è la barriera che non posso valicare in nessun modo, ma se io faccio cadere questa barriera io non parlo più, si ferma tutto, non posso più dire a è b. La barriera starebbe nel fatto che per dire a devo necessariamente dire b, perché non posso solo dire a, di per sé non significa niente. Anche nel caso della tautologia, dicendo che a è a, comunque c’è uno spostamento. Questa barriera è il funzionamento stesso del linguaggio, è il rinvio di una cosa a un’altra, far cadere questa barriera comporta il far cadere il linguaggio, il linguaggio non c’è più. A pag. 150 c’è una citazione di Nietzsche che è importante più che altro per intendere la sua figura …io ho un compito, che non mi permette di pensare molto a me (un compito, un destino o come lo si voglia chiamare). Questo compito mi ha reso malato, esso mi restituirà anche la salute. Il compito era quello di giungere a quella cosa che nella sua elaborazione era l’apice del suo pensiero, cioè la dottrina dell’eterno ritorno. Ora, è vero che l’ha reso malato, aveva avuto nella sua vita dei problemi fisici, così come anche Heidegger, prima della svolta, quando si confrontò con Nietzsche per la prima volta in modo serio, ebbe una profonda crisi depressiva, ma, dice Nietzsche, questo mi restituirà la salute, perché a questo punto potrò guardare dentro l’abisso. È non guardare dentro l’abisso che mi rende malato, in tanti sensi: malato perché magari pieno di acciacchi e di nevrosi, malato anche perché non riesco a pensare autenticamente, mentre guardare dentro l’abisso sarebbe pensare autenticamente, per usare le parole di Heidegger. A pag. 152. Quale certezza? Quale verità? Fu il pensiero di un mondo che “racchiude in sé interpretazioni infinite”, fu questo pensiero impossibile la verità non più tollerabile che Nietzsche aveva alla fine scoperto sterrando le radici della volontà di verità e del linguaggio? Era questa, dunque. Cioè, lui la dice così, interpretazioni infinite, ma possiamo tranquillamente chiamarla “semiosi infinita”, e cioè la constatazione che ciascun segno è un segno per un altro segno, inesorabilmente, sennò non è un segno. Nietzsche aveva scoperto che non poteva più riconoscere la verità, la verità del linguaggio metafisico. Ma c’è un linguaggio non metafisico, cioè, indipendente dalla grammatica? Lui pone la questione della metafisicità del linguaggio in quanto riferita a principi della grammatica inamovibili, ecc. La questione che ponevo io va oltre, però… Fu il pensiero della “barriera”, del “non poter più pensare”? O fu il pensiero dell’“eterno ritorno”, come pure si potrebbe arguire da vari accenni? Ma dell’eterno ritorno di che? Del gioco dionisiaco del linguaggio, dei segni, delle interpretazioni? È questo che ritorna continuamente, il fatto che ciascuna cosa è un segno, e il segno ritorna continuamente, incessantemente, cioè, non me ne posso liberare. A pag. 159. La genealogia della storia universale chiede: in base a quali principi l’interpretazione ha avuto inizio e svolgimento? Dappertutto, in tutte le possibili maniere d’essere dell’uomo, questo si presenta ora come il problema capitale. Bisogna cogliere, per così dire, l’ermeneutica in azione, bisogna snidare i principi in base ai quali la vita si autointerpreta, bisogna comporre l’inventario di tutte le maschere e smascherarle appunto nella loro natura d’esser maschera, nel loro modo di mascherare. Che cosa nasconde ogni maschera? In che modo una maschera diventa un “valore”? che cosa c’è dietro ogni valore? Che cosa si rivela e insieme si nasconde alle radici dell’arte, della religione, della scienza? La risposta che possiamo dare, semplicissima, è: la volontà di potenza. Ecco che cosa c’è dietro a tutto questo: la volontà di potenza, che altro non è che la metafisica, che altro non è che il funzionamento del linguaggio. A pag. 160. In conclusione, “l’uomo morale non è più vicino al mondo intelligibile dell’uomo fisico; perché il mondo intelligibile non esiste”. Non c’è questo mondo intelligibile, un qualche cosa da conoscere. Lui ha messo in discussione la conoscenza, non soltanto rispetto al motivo che spinge al conoscere, che non è volontà di verità, a meno che non si riconduca la volontà di verità là da dove arriva, cioè alla volontà di potenza, ma anche la volontà di conoscere è una volontà che porta… dove? Porta all’abisso, perché porta alla consapevolezza, se ci si lascia guardare dall’abisso, porta all’inesorabile, all’inevitabile, considerazione che l’abisso è ciò di cui la parola è fatta, cioè di questo rinvio. L’abisso non è altro che il rinvio. Quindi, non c’è altra scelta, è questo che Nietzsche dice nel suo poema più celebre Così parlò Zarathustra, l’ultra-uomo. L’ultra-uomo, è questo che abbiamo descritto, è quello che non ha paura di guardare nell’abisso e che si lascia guardare dall’abisso. Zarathustra non è altro che il tramite fra il nano, che sarebbe l’uomo comune, l’uomo della chiacchiera, della verità pubblica, che non sa niente, che non capisce niente… Dice le stesse cose, afferma Nietzsche, dice le stesse cose che dico io ma senza capire, senza sapere niente, non è che parli un’altra lingua. Anche l’ultra-uomo non è che dica chissà quali cose, dice le stesse cose, ma ha guardato dentro l’abisso, è questa la differenza. Per dirla come abbiamo detto in varie occasioni, non può più non tenere conto che il linguaggio è metafisica.