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4 marzo 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

C’è una questione importante che riguarda ciò di cui ci sta parlando qui Hegel rispetto al finito e all’infinito. Intanto, finito ed infinito non sono enti di natura, come invece spesso vengono considerati, cioè delle cose che sono, ma sono concetti, costruzioni. Quindi, vanno presi in considerazione come concetti, costruzioni linguistiche. Ciò che sta dicendo Hegel rispetto al finito e all’infinito è in un certo senso molto semplice perché, di fatto, la questione può riassumersi in questo modo: se io mi invento questo concetto di finito, per poterlo fare devo pensare questo finito come un qualche cosa che a un certo punto termina, ed è proprio questo terminare che definisce il finito in quanto finito; quindi, deve esserci qualche cosa che non è il finito, perché il finito sia finito. Ora, questo essere progettato – usiamo i termini i Heidegger – del finito verso ciò che non è finito, l’infinito, questo non è atro che il suo negativo, che deve esserci perché se il finito non termina non è finito, ma se termina vuole dire che c’è qualcosa al di là. Questa è la costruzione che si fa di un concetto del genere e, quindi, è ovvio che, se parlo di finito, necessariamente parlo di infinito, di qualcosa cioè che non è finito, di qualcosa che c’è oltre questo termine e che delimita il termine, che lo fa esistere. Lo stesso dicasi dell’infinito. Anche lui ha un suo negativo, che è il finito, che gli fa da termine: l’infinito termina lì dove incomincia il finito. Ma, allora, se è finito non è infinito. Una questione che interessa a noi è che, a mio parere, la logica hegeliana, quella che è venuta dopo di lui, cioè tutte quelle logiche modali che utilizzano più valori di verità (logiche paraconsistenti, ecc.), stanno ponendo un problema di fondo, e cioè che questo vero/falso, che scrivono così per indicare che una cosa è vera ma anche falsa, mantengono il vero e il falso come figure, direbbe Hegel. Dire che una cosa è vera e anche falsa è differente dal dire che una certa cosa è vera a condizione di essere falsa. Cambia tutto. E questa è la posizione di Hegel, che è molto più forte della logica paraconsistente, ecc., perché, in effetti, come dicevo prima, il finito è tale a condizione di essere infinito, cioè di avere un qualche cosa che lo termina e, quindi, un qualche cosa che è al di là del termine e che lo delimita; se lo tolgo diventa infinito, evidentemente. Quindi, il finito è tale a condizione di essere infinito, e cioè di avere questo limite che lo determina e che appartiene all’infinito. Allo stesso modo anche l’infinito è tale a condizione di essere finito, cioè di avere un qualche cosa che lo indichi come infinito, che quindi lo determini come infinito; ma se lo determina lo finisce. Ecco che allora la logica hegeliana appare più forte di tutto ciò che gli ha fatto seguito, perché è differente dire che c’è il vero e a fianco il falso; mentre Hegel dice che non è che sta a fianco, c’è un’integrazione, cioè, il finito è tale a condizione che sia infinito, e viceversa. Se noi riportiamo tutto ciò alla questione del linguaggio, questo ci mostra in modo molto semplice e chiaro il funzionamento del linguaggio. Ciò che dico, il dire, il sensibile, è tale a condizione che ci sia qualcosa che lo trascende, che ci sia il trascendente, magari non necessariamente Dio, però, il sensibile, il finito, ha la condizione nel trascendente, nell’infinito, o, se preferite, che l’in sé ha la sua condizione nel per sé. Hegel ci sta ponendo questa riflessione: che ciò che dico, il sensibile, il significante, è nulla in sé, in quanto non produce niente, non c’è movimento. Hegel ci mostra anche come il linguaggio si produca da sé, cioè, non ha bisogno di altro per prodursi, mettendo in atto quel fenomeno che Gentile chiamava autoctisi, cioè autoposizione, autoporsi – auctos, da sé, e ctisi, tesi, posizione, quindi, il porsi da sé. Vale a dire, la condizione perché il linguaggio funzioni è che ci sia il movimento, quella cosa che Hegel chiama dialettica: questo andare di ciò che dico verso il detto e il tornare del detto sul dire, perché solo con questo ritorno, solo se il per sé ritorna sull’in sé allora l’in sé diventa sé, diventa quello che è. Come dire che parlando ci troviamo ininterrottamente a dire cose che sono quelle che sono “in quanto” non sono quelle che sono, o, per tornare a ciò che dicevo prima, a condizione che non siano quelle che sono, perché solo a questa condizione c’è movimento, solo se l’in sé non è il per sé, cioè sono distinti ma non separati. È in questo essere distinti ma non separati che si situa il tempo. In effetti, se pensiamo al passato lo pensiamo adesso, nell’atto; e così il futuro: non possiamo pensarlo nel futuro, lo pensiamo adesso, nel presente. Il presente non è che il medio tra i due, questo medio che non è altro che la relazione tra i due, la schisi, il taglio, la faglia, la divisione. E questo è il tempo, il tempo come divisione, come simultaneità; che è l’unico modo per pensare il tempo senza porlo in modo autocontraddittorio. Dire che due termini sono distinti ma inseparabili, quindi nella relazione, è come dire che c’è una simultaneità. Se io pongo una relazione, A=B, c’è una simultaneità tra i due elementi, non c’è prima uno e poi l’altro, c’è la relazione, questi due sono simultanei, distinti ma simultanei. Detto questo proseguiamo la lettura. A pag. 137, γ: Passaggio del finito nell’infinito. Il dover essere, per sé, contiene il termine, e il termine il dover essere. La relazione tra il dover essere e il termine è l’infinito; il dover essere comporta che qualche cosa ancora non sia e, quindi, è indeterminato e illimitato. Deve essere, certo, deve andare verso il movimento, ma questa idea del movimento ancora non c’è. È come se fosse fermo; come se… Questi momenti della determinazione del finito sono opposti l’uno all’altro qualitativamente; il termine è determinato come il negativo del dover essere, e il dover essere, a sua volta, come il negativo del termine. Il termine è limitato e il dover essere lo spinge fuori. Il finito è così la contraddizione di sé in sé; si toglie via, perisce. Ma questo suo resultato, il negativo in generale, è α) la sua destinazione stessa; poiché è il negativo del negativo. Porre la destinazione come il negativo del negativo significa che questa sua opposizione deve essere tolta perché possa ritornare in sé, perché possa compiere questo movimento; perché questo movimento, finché non è ritornato al punto di partenza, è incompiuto; è come il significante che va al significato ma non torni al significante, il linguaggio si fermerebbe. Quindi, occorre, sì, che ci sia il negativo, ciò che si oppone, ma occorre anche che questo opponente sia tolto per potere ritornare al punto di partenza, e qui la seconda negazione, la negazione della negazione. Così il finito nel perire non è perito… Nel togliersi non è tolto. …è divenuto dapprima soltanto un altro finito, il quale però è a sua volta il perire come passare in un altro finito, e così via, in certo modo all’infinito. Se io faccio perire il finito, questo diventa infinito; quindi, questo suo perire è l’infinito: il finito muore, si spegne, nell’infinito. Ma β) quando si consideri questo resultato più davvicino, il finito nel suo perire, in questa negazione di se stesso, ha raggiunto il suo essere in sé, andato con se stesso. Quando è ritornato è andato con se stesso. Sarebbe esattamente il percorso, che ci ha mostrato: in sé – per sé – in sé. Ciascuno dei suoi momenti contiene appunto questo resultato. Il dover essere sorpassa il termine… Se deve essere vuole dire che deve andare oltre il limite. …vale a dire sorpassa se stesso; ma al di là del dover essere, o come suo altro, non v’è se non appunto il termine. Il termine poi accenna immediatamente al di là di se stesso al suo altro, che è il dover essere,… Se parlo di dover essere parlo di qualcosa che ha a che fare con il termine; se deve essere vuol dire che è finito, che è terminato; è terminato ma deve essere qualche altra cosa, ma finché non è rimane lì. …ma questo è lo stesso sdoppiamento dell’essere in sé e dell’esserci come il termine,… A pag. 138. C) L’infinità. L’infinito, nel suo semplice concetto, può essere anzitutto riguardato quale una nuova definizione dell’assoluto; posto come l’indeterminata relazione a sé, è posto come essere e divenire. Questo è ciò che Hegel intende con infinito: essere ma in quanto divenire, non l’essere statico e immoto. L’infinito è a) nella sua semplice determinazione, l’affermativo come negazione del finito. b) Così esso sta però in un rapporto di reciproca determinazione col finito, ed è l’infinito astratto, unilaterale. Tra poco lo chiamerà il cattivo infinito, quello intellettuale, che mantiene l’infinito come figura separata dal finito. Quindi è c) il togliersi così di cotesto infinito, come del finito, quale unico processo, il vero infinito. È la sintesi. A pag. 139. L’infinito è la negazione della negazione, l’affermativo, l’essere che si è di nuovo ristabilito dalla limitatezza. Si è ristabilito tornando in sé. L’infinito è, ed in un senso più intensivo che il primo essere immediato; è il vero essere, il sollevamento del termine. Al nome dell’infinito spunta per l’animo e per lo spirito la sua luce, perocché nell’infinito non è solo astrattamente presso di sé, ma si alza a se stesso, alla luce del suo pensare, della sua universalità, della sua libertà. Per il concetto dell’infinito, si mostrò, anzitutto, che l’esserci si determina nel suo essere in sé, come finito, e che sorpassa il termine. Dice: siamo partiti da qui. È la natura stessa del finito, di sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito. Come dicevo prima, il finito è delimitato da ciò che finito non è; ciò che finito non è, è, per l’appunto, infinito. L’infinito non sta quindi come un che di già per sé dato sopra il finito, cosicché il finito continui a restar fuori o al di sotto di quello. E nemmeno andiamo soltanto noi, come una ragione soggettiva, al di là del finito nell’infinito. Così, quando si dice che l’infinito è il concetto razionale, e che per mezzo della ragione noi ci solleviamo sopra il temporale, viene inteso che questo accada senza alcun pregiudizio del finito, che non sarebbe toccato da cotesto sollevamento a lui estrinseco. C’è il finito e c’è l’infinito, e li teniamo ben separati, come vorrebbero i matematici. Ma in quanto è il finito stesso che vien sollevato nell’infinito, non è nemmeno una potenza estranea, che opera questo in lui, ma è appunto la natura sua, di riferirsi a sé come termine … e di sorpassarlo, o anzi di averlo negato, come relazione a sé, e di essere al di là di esso. Non è già che nel togliere della finità in generale sorga, in generale, l’infinità, ma il finito è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. L’infinità è una destinazione affermativa, quell’esso è veramente in sé. Per questo prima parlavo di condizione, mentre la logica paraconsistente tiene ancora ben separati il vero dal falso. Certo, li mette assieme con la barretta (V/F), però questo V/F non sono due cose, è una; è questo che forse sfugge. Così il finito è scomparso nell’infinito, e quello che è, è soltanto l’infinito. A pag. 140. L’infinito è. In questa immediatezza esso è insieme la negazione di un altro, cioè del finito. Così, mentre è, e nello stesso tempo è come non essere di un altro,… L’infinito è ma è anche non essere del finito. …l’infinito è tornato a cadere nella categoria del qualcosa come di quello che è, in generale, determinato. Come vi dicevo prima: l’infinito ha come suo limite il finito. più precisamente, essendo l’esserci in sé riflesso, risultante in generale dal togliere della determinatezza, ed essendo così posto come l’esserci che è diverso dalla sua determinatezza, l’infinito è ricaduto nella categoria del qualcosa con un limite. In questo scambio l’esserci perde la sua determinatezza, e deve perderla perché se rimane quello che è non è più possibile il movimento. Questo è fondamentale in Hegel: ciascuna cosa deve mutarsi nel suo contrario, deve essere il suo opposto, perché solo a questa condizione c’è movimento; solo a questa condizione c’è linguaggio. Secondo questa determinatezza, il finito sta di contro all’infinito come un esserci reale. Così essi stanno in una qualitativa relazione come tali che rimangono l’uno fuori dell’altro. È quello che dicevo delle logiche polivalenti. L’essere immediato dell’infinito ridesta l’essere della sua negazione, ossia del finito, che sembrava dapprima scomparso nell’infinito. Se io li mantengo separati, ecco che mi torna il finito, non c’è verso. Mantenere separati il finito dall’infinito – sto parlando di questi ma potrebbe essere qualunque cosa – è la struttura religiosa, né più né meno: finito-infinito, nulla-essere, bene-male, sono tutti modi per indicare la stessa cosa, cioè una separazione di due elementi che, invece, per esistere devono essere lo stesso. Così come nella relazione di cui parla Peirce: in A=B questi due termini non è che preesistono la relazione. È esattamente ciò su cui Hegel insiste: A e B non preesistono l’intero, la loro relazione, loro sono in quanto sono nella relazione; senza la relazione A e B non ci sono, sono un’altra cosa. Esattamente, come la lampada… Severino ha preso da Hegel, indubbiamente. A pag. 141. Posto così l’infinito contro il finito per modo ch’essi abbiano l’uno verso l’altro la qualitativa relazione di altri, l’infinito è da chiamarsi il cattivo infinito,… Il cattivo infinito è quello che resta separato dal finito, è quello che usano i matematici. …l’infinito dell’intelletto… Non della ragione ma dell’intelletto. …cui cotesto infinito vale come suprema, assoluta verità. A far sì che l’intelletto si accorga che, mentre crede di aver raggiunto il suo appagamento nella conciliazione della verità, si trova invece nella inconciliata, ancora aperta, assoluta contraddizione, dovrebbero servire le contraddizioni in cui l’intelletto stesso da ogni parte s’impiglia, non appena passa all’applicazione e alla esplicazione di queste sue categorie. Ci sta dicendo che tutte le contraddizioni che sorgono con l’infinito, sorgono per il fatto che finito e infinito sono mantenuti separati, e che si vogliono conciliare mantenendoli però separati; come dire: farli funzionare insieme ma in quanto separati, non in quanto presi nell’intero. È come se volessi dimostrare che questa lampada è esattamente “questa lampada che è sul tavolo”. A pag. 142. Il finito e l’infinito, in quanto son così ciascuno in lui stesso e in base alla sua propria determinazione il porre il proprio altro, sono inseparabili. Ma questa unità loro è celata nel lor qualitativo esser altro, è quell’unità interna che sta soltanto alla base. È questa unità che sta alla base. Il che è esattamente ciò che vi dicevo rispetto a Peirce: è questa unità, questa relazione che sta alla base, che dei due termini, il finito e l’infinito, li fa essere il finito e l’infinito: l’essere dei due nella relazione. Questo se si vogliono evitare tutte le contraddizioni che altrimenti accadono. Il processo del loro passare ha, per disteso, la forma seguente. Si oltrepassa il finito, verso l’infinito. Questo oltrepassare appare quale un’operazione estrinseca. Come se non appartenesse all’intero, all’unità dei due. A Hegel il termine “unità” non piace, perché sembra mantenere i due elementi in quanto separati, cioè si uniscono ma rimangono separati. Che cosa sorge in questo vuoto che è al di là del finito? Che cos’è costì il positivo? Che cosa c’è al di là del finito? Che cosa c’è di positivo, cioè che posso porre? A cagione dell’inseparabilità del finito e dell’infinito … sorge il limite. Il limite tra i due. l’infinito è sparito, ed è subentrato il suo altro, il finito. ma questo subentrare del finito appare come un avvenimento estrinseco all’infinito, e il nuovo limite come tale, che non nasca dall’infinito stesso, ma sia, esso pure, trovato. C’è questo limite, ma è come se fosse un limite di natura, che a un certo punto si trova. Si ha con ciò un ricadere nella determinazione precedente, inutilmente tolta via. Ma questo nuovo limite non è esso stesso se non un che da togliere o da sorpassare. Per il motivo che dicevo prima: se c’è un limite, questo limite è da togliere, da sorpassare, perché è il limite del finito, del termine; ma questo termine, avendo questo limite, ha in questo limite la sua essenza, cioè un qualche cosa che lo separa da qualcos’altro, ma è proprio l’essere separato da quel qualcos’altro che lo determina come finito, come termine. Con ciò è sorto daccapo il vuoto, il nulla, in cui si riscontra parimenti quella determinatezza, cioè un nuovo limite, - e così via all’infinito. Io pongo il termine, metto il limite, questo limite mi porta verso l’infinito, però questo infinito trova di nuovo un limite nel suo contrapposto. È come un rimpallo continuo tra i due, se io li mantengo in quanto separati: il finito mi rimanda all’infinito e l’infinito mi rimanda al finito; senza accorgermi, come diceva bene nelle pagine precedenti, che la natura del finito è di essere infinito, e quindi non c’è questo rinvio continuo. Questa determinazione reciproca negativa di sé e della propria negazione è ciò che si affaccia come progresso all’infinito, progresso che in così gran numero di forme e applicazioni vale come un che di ultimo, al di là del quale non si procede più, mentre com’è arrivato a quell’E così via all’infinito, il pensiero suole aver raggiunta la sua fine. Pensa di aver raggiunto così il massimo che si possa pensare. Questo progresso si affaccia dappertutto dove delle determinazioni relative vengono spinte fino alla loro opposizione, così che stanno in un’unità inseparabile, e nondimeno a ciascuna vien attribuito contro l’altra un esserci indipendente. In questo rimpallo è ovvio che nessuno dei due rimane quello che è, si alternano: ora c’è uno, ora c’è l’altro. Il progresso all’infinito è quindi la contraddizione che non è sciolta, ma si continua sempre ad enunciare solo come presente. Questo rinviare la cosa la locuzione “E così via all’infinito” non fa che mantenere presente la contraddizione, cioè, pone questo infinito ma senza, come direbbe Heidegger, pensarlo: lo pone ma non lo pensa.

Intervento: Sembra una critica al metodo induttivo…

Sì. In effetti, l’induzione gioca proprio su questo “E così via all’infinito”. È per questo che nella logica non ha un grandissimo valore. È utile, certo. È utile per organizzare le cose domani: pensare che il sole, siccome è sempre sorto, sorgerà anche domani, ma non è una certezza logica. A pag. 145. c) L’infinità affermativa. Nell’accennata alternativa determinazione dell’infinito per mezzo del finito e del finito per mezzo dell’infinito è già presente, in sé, la verità così dell’uno come dell’altro di essi, e non v’è che da accoglier nel pensiero quello appunto che si ha dinanzi. Non è differente dalla situazione della quale parlava rispetto alla religione disvelata. Anche lì questo infinito, questo trascendente, era posto, affermato, ma era mantenuto come separato; ciò di cui non ci si accorge nella religione, dice Hegel, è che ciò che io attribuisco al trascendente è qualcosa che mi appartiene; ciò che io attribuisco all’infinito non è che il finito, che di per sé è infinito, è la sua natura: la natura del finito è di essere infinito. Quindi, è come se dicesse che si pensa generalmente che attribuire l’infinito al finito sia un’operazione non consentita in quanto al finito non appartiene né pertiene l’infinito, e quindi si mantengono separati. Il problema è che se si mantengono separati ci si trova, come diceva prima, in quella contraddizione che è sempre presente nell’E così via all’infinito e mai risolta. Qui c’è una nota del Moni. La verità del finito e dell’infinito è la loro unità concreta, cioè comprendente in sé anche la differenza. Ora cotesta unità era bensì presente, nel progresso all’infinito, sotto la forma del passare, alternativamente, dal finito all’infinito, poi dall’infinito al finito, e quindi daccapo dal finito all’infinito, ecc. Se non che quello cui il pensiero rifletteva, nel progresso all’infinito, erano soltanto le due determinazioni, di finito e d’infinito, dall’una all’altra delle quali esso passa, non il passare stesso. Questa locuzione “E così via all’infinito” considera il passare da una cosa finita che si ripete all’infinito, ma non il passare stesso, dice il Moni. Questo passare, anzi, non era costì altro che il pensiero … epperò come unità delle due determinazioni rimaneva ancora una unità immediata, irriflessa. Cioè: l’una non è passata nell’altra, non è stata integrata, non c’è stata l’Aufhebung. Ogniqualvolta infatti il pensiero è come una certa determinazione … quella determinazione è irriflessa… Finché una certa determinazione rimane come tale vuol dire che è irriflessa, cioè, non ha compiuto il movimento. …e propriamente irriflessa tanto rispetto al pensiero (che, immedesimato con quella, non vi si porta ancora sopra, ossia non vi riflette), quanto in se stessa (poiché cominciando soltanto ad apparire, in una tale identità sua col pensiero, quella determinazione non è ancora tornata in sé dalla sua negazione). Cioè: il non essere riflesso vuol dire che non ha ancora preso atto che quella determinazione è quella che è per via che non è ciò che non è; non ha pensato che questa cosa è determinata in quanto è quella che è, certo, ma è quella che è in quanto non è ciò che non è. Una volta che ha integrato questo passaggio, solo allora questa cosa è determinata, è tornata nell’in sé, è diventata ciò che effettivamente è, cioè se stessa in quanto altro. È questo poi che ciascuna cosa è in se stessa: è sé in quanto altra. O, per dirla con Heidegger, è un utilizzabile, molto semplicemente. Il cacciavite è per se stesso, ma diventa un cacciavite, cioè assume la sua funzione, quando è operativo, quando viene utilizzato, sennò rimane un utilizzabile ma non utilizzato. Un po’ come diceva Hegel del diamante rispetto al vetro: il diamante serve per tagliare il vetro; se non taglia il vetro perde il suo utilizzo. Ciò posto è chiaro che quel che il pensiero ha da fare per procedere oltre al progresso all’infinito, e così comprenderlo e liberarsi anche, in pari tempo, da tutto ciò che cotesto progresso ha per lui d’imponente, è semplicemente di riflettere, ossia di accogliere in sé e far suo ciò che fino ad allora aveva soltanto avuto dinanzi. Cosa faccio mio? Ciò che ho avuto sempre dinanzi, e cioè che ciò che dico è altro da ciò che ho detto, che il mio dire dicendosi si sposta, è sempre altro, che non si può fermare e che, anzi, è quello che è proprio perché c’è questo movimento. A pag. 148. Nell’unità loro l’infinito e il finito perdono dunque la loro natura qualitativa… Non sono più quello che sono. Che è esattamente ciò che diceva Peirce rispetto alla relazione A=B: in questa relazione A e B non sono più A e B, sono una relazione. In questa relazione sono necessari A e B, ma non sono la A e la B di cui potevo parlare non considerandoli presi nell’intero. Una volta che sono in relazione non sono più A e B ma sono una relazione. …- riflessione importante, questa, contro la rappresentazione che non si vuol staccare, nell’unità dell’infinito e del finito, dall’abitudine di tenerli fermi in quella qualità che debbono avere in quanto presi separatamente, e che però in quell’unità vede soltanto la contraddizione, e non già anche la sua soluzione per mezzo della negazione della determinatezza qualitativa dei due. Così vien falsata la in sulle prime semplice, universale unità dell’infinito col finito. Sta dicendo che questa cosa non ha soluzione, che non comporta una contraddizione se finito e infinito diventano di fatto un’altra cosa: non sono più la stessa cosa una volta posti nell’intero. Potremmo anche aggiungere che non sono mai stati quella cosa che si pensa che siano; si è costruito così, ma, come dicevo all’inizio, finito e infinito non sono enti di natura, sono fantasie, concetti, utili, ma concetti. …il finito viene egualmente tenuto fermo come il non negato, sebbene in sé nullo, per modo che nel collegamento suo coll’infinito venga elevato a ciò ch’esso non è, epperciò, contro la sua non scomparsa, ma anzi persistente determinazione, sia reso infinito. In questa integrazione non solo non scompare ma diventa ciò che è destinato a essere: il finito diventa ciò che è destinato a essere, e cioè l’infinito. Perché è destinato? Perché è un elemento linguistico; in quanto elemento linguistico è destinato a essere altro, a rinviare ad altro, a spostarsi su altro, a essere altro. A pag. 150. In primo luogo la negazione del finito e dell’infinito, che è posta nel progresso infinito… Sarebbe la locuzione “E così via all’infinito”. …può esser presa come semplice, e quindi come una estrinsecità reciproca, come un puro seguirsi l’un l’altro. Come se questa distanza tra finito e infinito fosse qualcosa che viene fuori da loro; da dove non si sa, però… Cominciando dal finito, si sorpassa il limite, si nega il finito. Si ha dunque ora l’al di là del finito, l’infinito; ma in questo sorge nuovamente il limite, e così si ha il sorpassamento dell’infinito. E siamo nel finito. questo doppio togliere, però, da una parte è posto soltanto in generale come un estrinseco succedere e avvicendarsi dei momenti, dall’altra parte non è ancora posto come una unità. Siamo ancora nella religione. Ciascuno di cotesti (andar) fuori è una partenza peculiare, un nuovo atto, di modo ch’essi cadono l’un fuori dall’altro. Ma nel progresso infinito si trova inoltre la lor relazione. Prima è il finito; poi si oltrepassa il finito, e questo negativo o al di là del finito è l’infinito; in terzo luogo si oltrepassa a sua volta questa negazione, e sorge un nuovo limite, sorge di nuovo un finito. Tale è il movimento compiuto, che chiude se stesso, il movimento che è giunto a quello che costituiva l’inizio. Sorge quello stesso, da cui erano state prese le mosse, ossia il finito è restaurato. Esso è dunque andato insieme con se stesso, non ha fatto che ritrovar se stesso nel suo al di là. Il medesimo accade a proposito dell’infinito. A pag. 151. L’intelletto recalcitra tanto contro l’unità del finito e dell’infinito, solo perché presuppone come persistenti tanto il termine e il finito quanto l’essere in sé. Con ciò gli sfugge la negazione di ambedue,… Cioè, che entrambi hanno un negativo, un negativo assoluto: ciò che non sono. …la quale si trova di fatto nel progresso infinito; come anche gli sfugge che il finito e l’infinito sta costì solo come momenti di un tutto, e che vi si presentano ciascuno solo per mezzo del suo opposto, ma insieme, essenzialmente, per mezzo del togliere del suo opposto. È esattamente quello che fa Severino quando dice: il non essere è il negativo dell’essere, ma perché l’essere sia incontrovertibilmente quello che è occorre che il non essere ci sia in quanto tolto. È come se questo non essere tornasse sull’essere, cioè sull’in sé, – usiamo le parole di Hegel – rendendolo quello che di fatto è. Solo a questo punto l’essere è veramente essere, sennò è un essere senza il suo significato, perché il significato dell’essere è quello di non essere il non essere, quindi, di escludere il non essere, di escludere la sua negazione. Solo se la sua negazione viene esclusa – negata, dice Hegel – solo allora, ecco che l’essere è, possiamo affermarlo in modo incontrovertibile, cioè, non è ciò che non è. È questo che rende l’essere quello che è: il non essere ciò che non è.