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4 gennaio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Iniziamo questa nuova avventura con Heidegger. È un testo che si annuncia quasi più bello del precedente. Heidegger ne parla come di un testo di filologia. In un certo sì, fa tantissima filologia, è vero, ma lo fa a modo suo, non da filologo. I filologi sono il più delle volte dei tecnici e Heidegger non è un tecnico, è un pensatore, quindi, approccia la questione della filologia – sta qui la sua capacità, la sua abilità, la sua straordinarietà – sempre tenendo conto del tutto. Il filologo no, essendo un tecnico si attiene al particolare, ma facendo così, come fanno in definitiva tutti i linguisti, perde di vista il tutto. Heidegger incomincia con una selezione di capisaldi, così li chiama, di concetti importanti, che trae dalla Metafisica di Aristotele. A pag. 37. Lo scopo del corso è di pervenire alla comprensione di alcuni concetti fondamentali della filosofia aristotelica, prestando massima attenzione al testo delle opere di Aristotele. Elenca questi concetti, che sono trenta, che poi naturalmente svolge. Per dare un’idea provvisoria di quali concetti fondamentali si tratta ne fornisco un elenco: il capitolo 1 tratta dell’άρχή (origine), 2. αἳτιον (causa), 3. στοιχεῖον, “elemento”, 4. φύσις (natura), 5. άναγκαῖον, la “necessità” in quanto determinazione dell’essere, 6. ἒν (uno), 7. ὅν (ente), 8. ουσία, che lui traduce in modo interessante con “esserci”. Ci sarà tutta una disquisizione nelle pagine successive sul “ci è”. Noi diciamo comunemente “c’è”, Heidegger invece scrive “ci è” per sottolineare questo “ci”, perché per lui ha legittimamente un’importanza notevole. 9. ταύτά, l’“identità”, 10. άντικείμενα, “essere altro”, 11. πρότερα e ὕστερα, in senso non solo temporale, ma anche materiale: in senso materiale, πρότερον come ritornare all’ “origine” (γένος), ὕστερον come “ciò che sopraggiunge più tardi)… C’è anche una figura retorica, nota come hysteron proteron, che significa il porre prima ciò che in realtà dovrebbe venire dopo. συμβεβηκός (accidente, nella logica modale è la possibilità), per esempio, 12. δύναμις (forza, energia), 13. ποσόν, “quanto”, categoria della quantità, 14. ποιόν, “qualità”, 15. πρός τί, “in relazione a”, 16. τέλειον, ciò che si determina nel suo “essere finito”, “finitezza”, ente in quanto “ciò che è finito”, 17. πέρας (limite), 18. τό καθό, “ciò che è in se stesso”, 19 διάθεσις, “disposizione”, “situazione”, “situazionalità”, 20. ἓξις, l’“avere in sé”, l’“essere posti così e così” nei confronti di qualcosa,… Da cui anche εχων, possedere. Ricordate la famosa definizione di Aristotele, ζοον λογον εχων, vivente provvisto di linguaggio. …21. παθος, “stato”, “sentirsi situato”, 22. στέρησις (privazione), la determinazione dell’ente che si compie in ciò che esso non ha; la στέρησις, il “non avere”, determina un ente in modo del tutto positivo; il fatto che esso non sia questo e quello dischiude il suo essere (in questo senso è positivo), 23. ἒχειν (avere), 24. έκ τινος εἶναι, “ciò da cui qualcosa nasce o di cui consiste”, 25. μέρος, “parte” nel senso dell’elemento, 26. ὂλον, l’“intero”, 27. Κολοβόν, “ciò che è mutilato”, 28. γένος, “origine”, “provenienza”, 29. ψεδός (falso), συμβεβηκός, ciò che “si aggiunge a qualcosa”, ciò “che è lì con esso”. Ma casualmente, perché συμβεβηκός nella modalità riguarda il possibile, la possibilità. Bisogna esaminare il terreno da cui nascono e si sviluppano questi concetti fondamentali, e il modo in cui ciò avviene, dobbiamo cioè considerarli nella loro specifica concettualità… Questo libro in buona parte tratta del concetto e della definizione. …chiedendoci come sono viste le cose stesse che essi intendono, a qual fine ci si rivolge a esse, in che maniera sono determinate. Se applichiamo questi punti di vista alla questione giungeremo al contesto di ciò che intendiamo con “concetto” e “concettualità”. Buona parte di questo libro, come vi dicevo, è incentrata sul concetto e sulla definizione, cioè sul dominio dell’ente. Il concetto e la definizione sono il dominio dell’ente. La definizione de-finisce, de-limita, de-termina, la definizione strappa via all’πειρον qualcosa per de-limitarlo, cioè porlo nella ristrettezza del concetto, che naturalmente è delimitato, non è più l’πειρον ma, come direbbe Severino, è l’astratto. Si tratterebbe nella definizione, quindi, per usare ancora i termini di Severino, di strappare via qualcosa dal concreto, per poterlo delimitare, determinare, quindi, porlo come astratto e, quindi, poterlo pensare, perché fino a che è πειρον non lo posso pensare. Non offriamo qui una filosofia, e tantomeno una storia della filosofia. Se filologia significa passione per la conoscenza di ciò che è espresso in parole, allora ciò che facciamo qui è filologia. Sì, però, la definizione che dà lui è non è quella dei filologi. A pag. 39. Il corso non ha nessuna finalità filosofica, si tratta solo di comprendere alcuni concetti fondamentali nella loro concettualità. La finalità è filologica, e intende dare un po’ più di spazio all’esercizio del leggere i filosofi. Non dice né di comprenderli, né di capirli, né di interpretarli, ma di leggerli. Ovviamente, un simile intento è soggetto a una quantità di presupposti tali da far sorgere il dubbio: è mai possibile, in un corso universitario, imbarcarsi in una operazione del genere? Quali sono i presupposti nel leggere i filosofi? Presupposti: 1. che proprio Aristotele abbia in genere qualcosa da dire, che cioè proprio Aristotele venga scelto, e non Platone, Kant o Hegel, che dunque a lui spetti una posizione di preminenza all’interno non solo della filosofia greca, ma dell’intera filosofia occidentale;… Questo è uno dei presupposti: noi consideriamo Aristotele in un certo senso il centro della filosofia occidentale. 2. che noi tutti non siamo ancora talmente progrediti da non lasciarci più nulla che, da un qualche punto di vista, non ci torna;… Dice: non siamo così avanzati nel pensiero da abbandonare Aristotele, siamo ancora lì. 3. che la concettualità costituisca la sostanza di ogni indagine scientifica, che essa non sia una mera questione di perspicacia, vale a dire che colui che ha scelto la scienza si sia assunto la responsabilità del concetto (una cosa oggi caduta in disuso);… Nessuno si occupa più del concetto. E, invece, la concettualità costituisce la sostanza di ogni indagine, non c’è nessuna indagine se non si approccia un concetto. 4. che la scienza non sia una professione, una forma di guadagno, un piacere, bensì la possibilità dell’esistenza dell’uomo, non sia qualcosa in cui ci si è imbattuti casualmente, ma rechi in sé determinati presupposti di cui però bisogna disporre nella misura in cui ci si muove seriamente nell’ambito di ciò che prende il nome di indagine scientifica;… Muoversi in questo ambito della indagine scientifica comporta ovviamente dei presupposti; uno di questi è che si disponga di una serie di cose da cui si muove, da cui si parte. Noi sappiamo già che ciò da cui si muove, da cui si parte, è la chiacchiera. 5. che la vita umana abbia in sé la possibilità di stabilirsi unicamente su se stessa, di cavarsela senza fede, senza religioni e simili. 6. un presupposto metodico: la fede nella storia nel senso che presupponiamo che la storia e il passato storico, purché sia loro aperta la strada, abbiano la possibilità di imprimere un urto al presente o, meglio, a un futuro. E cioè che la storia passata abbia a che fare ancora oggi con ciò che siamo. Questi sei presupposti rappresentano una pretesa ambiziosa, ma alla fine non facciamo che produrre filologia. La filosofia se la passa meglio, oggi, nella misura in cui trae alimento dal presupposto fondamentale che tutto sia perfettamente in ordine. Per delimitare il modo in cui qui trattiamo di filosofia chiamo a testimone Aristotele stesso, giacché noi ci occupiamo, è vero, di filosofia, ma lo facciamo con lo scopo di instillare l’istinto per ciò che è scontato e l’istinto per ciò che è antico. L’istinto per ciò che è scontato: come sappiamo, Heidegger lo ha detto varie volte: le cose più difficili da approcciare sono quelle che appaiono come le più ovvie, le più scontate. A pag. 40. Nel libro IV, capitolo 2, della Metafisica Aristotele opera una distinzione tra διαλεκτική, σοφιστική e φιλοσοφία e commenta: “Σοφιστική e διαλεκτική si muovono nell’ambito dei medesimi fatti della φιλοσοφία”, però la φιλοσοφία si distingue da entrambe nel modo di trattare, cioè nella maniera in cui affronta il medesimo oggetto, dalla διαλεκτική “nel modo della possibilità”, che essa pretende per sé. “La διαλεκτική fa solo il tentativo” di portare a conoscenza che cosa potrebbe essere inteso dai λόγοι, ovvero un “rapido attraversamento” di ciò che potrebbe forse esservi inteso. È questo il senso della dialettica greca. Se confrontata con quella della filosofia, la δύναμις della διαλεκτική è limitata. Se la confrontiamo con la potenza della filosofia, potenza nel senso di qualche cosa che è sempre in atto. Mentre però la διαλεκτική ha pur sempre a che fare con la cosa, cioè con la messa in luce di ciò che è inteso, la σοφιστική parla della medesima cosa, e tuttavia essa “assomiglia soltanto” alla filosofia, “ma non lo è”. Qui sta citando naturalmente Aristotele. È vero che διαλεκτική procede seriamente, si tratta però solo della serietà del verificare per tentativi ciò che alla fine potrebbe essere inteso. È in questo senso che trattiamo qui di filosofia, cioè verificando ciò che alla fine potrebbe essere inteso. Il fatto decisivo è che ci mettiamo provvisoriamente d’accordo su ciò che si intende per filosofia. A pag. 45, primo capitolo, Analisi della definizione in quanto luogo di espressività del concetto e ritorno al terreno della definizione. Come vi dicevo prima, la cosa a noi interessa molto perché, in effetti, la definizione, il concetto, ecc., sono i modi della volontà di potenza, sono modi di determinare l’ente, quindi, di possederlo, di controllarlo, di gestirlo, in una parola, di conoscerlo: la conoscenza è volontà di potenza. Che cosa si intende per concetto ce lo insegna “la logica”. Non esiste tuttavia “la logica”, se con ciò vogliamo dire “la” logica. “La logica” è un prodotto della filosofia scolastica ellenistica, che rielaborò in modo pedante le indagini filosofiche del passato. Né Platone né Aristotele conoscevano “la logica”. La logica, così come essa è dominata nel Medioevo, può essere definita un insieme di concetti e regole assemblati in modo formalmente scolastico. I “problemi logici” traggono origine dall’orizzonte della comunicazione scolastica di questioni, senza alcun interesse per un confronto con le cose: ci si limita a trasmettere determinate possibilità tecniche. Sta dicendo che tutta la logica medioevale – tutto il Medioevo è impregnato di logica – non è altro che una sorta di tecnica che, di nuovo, perde di vista il tutto, il concreto, perde di vista il linguaggio. In tale logica si chiama definizione quel mezzo in cui il concetto assume la sua determinazione. Questo è importante, da tenere bene presente: nella logica corrente, con definizione si intende il mezzo attraverso il quale il concetto assume chi lo determina, cioè, la definizione determina il concetto. Considerando la definizione potremo quindi appurare che cosa propriamente si intende con concetto e concettualità. Scegliamo di attenerci alla Logica di Kant per vedere che cosa si dice della definizione nel contesto di una vera indagine, l’unica dopo Aristotele. Secondo Heidegger l’unico che ha parlato di logica in modo autentico è Kant. Kant è il solo a far vivere la logica. Quest’ultima, infatti, continua ad agire in tutta la sua consistenza tradizionale nella dialettica hegeliana, che è totalmente sterile, non essendo nient’altro che una rielaborazione del materiale logico tradizionale da determinati punti di vista. Qui ci sarebbe da discutere, ma andiamo avanti. Se quindi andiamo a vedere ciò che Kant chiama “definizione” colpisce il fatto sorprendente che egli tratti della definizione nel capitolo sulla Dottrina universale del metodo. La definizione appare come un’occasione metodica per acquisire la chiarezza della conoscenza. Kant ne parla collocandola tra i mezzi atti a incrementare la “chiarezza dei concetti in considerazione del loro contenuto”. Tramite la definizione dev’essere aumentata la chiarezza dei concetti. La definizione, quindi, serve a chiarire i concetti. È come se la definizione illuminasse il concetto, dicesse esattamente di che cosa si tratta nel concetto. Teniamo sempre presente che la definizione è de-finizione, de-finire, de-limitare, de-terminare. Però anche la definizione è, al tempo stesso, un concetto: “La definizione non è nient’altro che un concetto logicamente compiuto”. Qui ha citato Kant. Dunque, in fin dei conti, in base alla definizione non conosciamo che cos’è un concetto, quindi ci limitiamo ad attenerci a ciò che Kant stesso dice del concetto. Ogni intuizione, dice, è una repræsentatio singularis (rappresentazione singolare). Tuttavia il concetto è, sì, anch’esso una repraesentatio, un “render-si presente”,… Rappresentazione, alla lettera: rende presente ciò che è assente. Se io mi rappresento una scena, vuol dire che quella scena non c’è, ma la vivifico nella mia idea, nel mio pensiero. …ma a ben vedere è una repræsentatio per notas communes. Una rappresentazione per cose comuni, note. Il concetto si distingue dall’intuizione per il fatto che esso è sì un rendere presente, però rende presente qualcosa che ha il carattere dell’universalità. Si tratta di una “rappresentazione universale”. Ecco il concetto: una rappresentazione universale, cioè, disponibile a chiunque. Se io mi rappresento una scena, una cosa, questa è disponibile solo per me; se io la concettualizzo, allora posso esporla ad altri e altri possono sapere questa cosa, perché è diventata universale. Come ciò sia da intendersi in termini più precisi, è detto da Kant con estrema chiarezza nell’Introduzione alla Logica: in ogni conoscenza bisogna distinguere materia e forma, “il modo in cui conosciamo l’oggetto”. Un selvaggio, che non conosce l’a che di una cosa, la vede in modo totalmente diverso da noi, ne ha cioè un “concetto” differente da quello che ne abbiamo noi, che la conosciamo bene. Egli vede lo stesso ente, ma gli manca la conoscenza dell’uso, quindi non sa che cosa farsene. Non si forma alcun concetto di casa. Noi invece, che ne conosciamo l’a che, in forza i ciò ci rappresentiamo qualcosa di universale. Conosciamo l’uso che se ne potrebbe fare, abbiamo cioè il concetto di casa. Il concetto mira a rispondere alla domanda su che cosa è l’oggetto. Qui incomincia ad accennare ad alcune questioni, anche se soltanto tratteggiate. L’uso, l’utilizzabile: è l’utilizzabilità che fa di qualcosa ciò che è. Ciò che Heidegger cercava nel libro precedente che abbiamo letto, e cioè l’essere dell’ente… L’essere dell’ente può anche intendersi come la sua utilizzabilità. Ma la sua utilizzabilità significa soltanto che una certa cosa posso utilizzarla per il superpotenziamento, posso utilizzarla per gestire, per conoscere, per dominare, per controllare, per fare tutte queste operazioni. Quindi, solo se ne conosco l’uso conosco veramente la cosa, cioè se so utilizzarla, se so utilizzarla per dominare.  A pag. 47. Com’è che una definitio, che è, in senso proprio, una conoscenza materiale, diventa una questione di compiutezza logica? In questa posizione di Kant nei confronti della definitio sta il destino dell’indagine aristotelica. Domandiamo quindi a nostra volta: la definitio è όρισμός (definizione), όρισμός è un λόγος, un “esprimersi” in merito all’esserci in quanto essere. La definizione, dice, è un “esprimersi” in merito all’esserci in quanto essere: la definizione dice che cos’è qualcosa, dice dell’essere dell’ente. Όρισμός non è una determinazione del cogliere con precisione, al contrario, giacché in definitiva il carattere specifico dello όρισμός nasce e si sviluppa dal fatto che l’ente stesso è determinato nel suo essere in quanto delimitato dal πέρας. Essere significa essere-finito. Qui dice una cosa fondamentale. L’essere, ciò che è, è tale in quanto è finito. Solo se è finito posso dire che è essere, sennò non posso dire niente. Qui possiamo richiamarci ad Anassimandro: soltanto se è finito, se è in discordia, diceva, se è delimitato, se ha dei limiti determinati dalla sua forma, dal colore, ecc., soltanto in questo modo lo colgo, posso cioè utilizzarlo, sennò è πειρον, e l’πειρον è inutilizzabile perché non posso distinguere niente. Quindi, essere significa essere finito. Questa affermazione, che fa Heidegger, è importante, è carica di significato. Soltanto se l’essere è finito è essere, perché se non è finito, se è πειρον, io non posso saperne, dirne, farne niente, in quanto non è delimitato e, pertanto, non è coglibile in nessun modo. A pag. 48. Parla della differenza tra concetto e intuizione. La differenza consiste nel fatto che, mentre l’intuizione si limita a vedere una singola cosa nel suo esserci, il concetto vede il medesimo oggetto, però in certo modo lo comprende. L’intuizione lo vede, il concetto lo comprende. Sul fatto che lo comprenda o no, è chiaro che si tratta di intendere che cosa si vuol dire con comprendere, perché se dovessimo attenerci a Zenone noi vediamo una cosa ma non sappiamo che cos’è, perché non la possiamo delimitare, definire. È come se in Zenone l’essere non fosse mai finito e, non essendo finito, non è comprensibile, non è coglibile. Nella repræsentatio del concetto io so che cosa in essa si dà a comprendere, ma lo sa anche un altro, cioè il concetto rende il rappresentato comprensibile la cosa rappresentata anche per altri, sicché ne deriva una rappresentazione universale. Il concetto di una res repræsentata rende comprensibile la cosa rappresentata anche per altri – esso la rappresenta in un modo in un certo senso vincolante. Nella definizione il concetto deve pervenire a se stesso. La definitio deve offrire una cosa in modo tale che essa sia rappresentata e compresa nel fondamento della sua possibilità, affinché io sappia da dove proviene, che cos’è, perché è ciò che è. Questo è ciò che dovrebbe fare la definizione. La definizione in senso proprio è quella della cosa, la “definizione reale”. Nel Medioevo questa è l’autentica definizione: definizione reale definizione essenziale. È definizione autentica e si attua nella misura in cui viene soddisfatta la regola fondamentale della definizione stessa, ossia che, nel caso di un oggetto, se ne indichino il genere immediatamente superiore e la differenza di specie. Ad esempio: il cerchio è una linea curva, chiusa (genere), ogni punto della linea è equidistante dl centro (differenza di specie). Oppure, homo animal (genere) rationale (differenza di specie). Heidegger sta cercando di chiarire in tutti i modi la questione del concetto, perché si è reso perfettamente conto che senza concetto non si fa niente; quindi, il concetto è la base di ogni pensare teorico, quindi, anche teoretico. Teniamo sempre conto che la teoria e la teoresi sono due momenti dello stesso, non c’è l’una senza l’altra. Anche se spesso la teoria vorrebbe fare a meno della teoresi, tuttavia, senza teoresi, cioè senza ciò che rende possibile le affermazioni che la teoria fa, la teoria stessa svanirebbe. Definendo qualcosa si fa teoria, cioè si dice che cos’è qualcosa, si fa propriamente della ontologia, ogni teoria è ontologia, che dice che cosa sono le cose, come stanno e perché sono così, ma la teoria non si interroga sul perché afferma quello che afferma, su quali sono le condizioni per potere affermare ciò che afferma. Questo è l’approccio teoretico, ma anche un approccio teoretico si svolge teoricamente. Se io voglio descrivere una teoresi, lo faccio attraverso una teoria, cioè dico che cos’è la teoresi.

Intervento: È sempre la δόξα.

Sì, certo. La δόξα è l’unica cosa attraverso cui posso parlare, pensare. Lo abbiamo già visto con Parmenide: l’essere e il non-essere non posso pensarli, per cui non mi resta che la δόξα. A pag. 49. Dobbiamo chiederci che cosa si intende con “concetto”, in quanto “che cosa” ciò che nel concetto è inteso viene concretamente esperito: che cosa stava davanti agli occhi di Aristotele come movimento, quali fenomeni di movimento ha visto? Quale senso dell’essere ha inteso quando parla di ente-mosso? Non ci poniamo queste domande per conoscere un contenuto concettuale: chiediamo piuttosto come viene esperita la cosa intesa, come cioè primariamente ci si rivolge a ciò che è originariamente visto. Cosa accade quando vediamo qualcosa? Nell’altro volume ci diceva che ciò che vedo è ciò che opino, è vero, ma adesso, dice, vorrei saperne qualcosa di più. Vuole saperne di più, e cioè che cosa succede quando io vedo qualcosa? Intanto, il fatto che io lo vedo, che posso dire di vederlo. Il fatto che io veda qualcosa presuppone già che io sappia che c’è qualcosa da vedere, cioè che c’è un qualcosa e che io lo vedo, cosa che il nostro famoso bruco non può fare. Come prende Aristotele il fenomeno del movimento? Lo spiega basandosi su concetti o teorie già esistenti, ad esempio in termini platonici, sostenendo che esso sarebbe il passaggio da un non essente a un essente? Oppure fa proprie alcune determinatezze implicite nel fenomeno stesso? In che modo ci si rivolge a un fenomeno specifico come il movimento in base all’appello primario rivolto alla cosa vista? Fa domande interessanti: in che modo noi ci rivolgiamo al fenomeno, a ciò che ci appare. Vedete che qui c’è già, quasi in nuce, tutta la questione dell’emotività. Eh, sì, perché ciò che io vedo determina un certo numero di cose, che hanno degli effetti, ma questi effetti determinano ciò che io sto vedendo, in una sorta di aprés coup, cioè a posteriori? Qui è ancora tutto da esplorare, ma andiamo per gradi. Inoltre, com’è più precisamente svolto il fenomeno così visto, in seno a quale concettualità viene, per così dire, verbalmente espresso? Quale appello di comprensibilità viene rivolto a ciò che è visto così? Sorge la domanda circa l’originarietà dell’esplicazione: essa viene attribuita al fenomeno dall’esterno oppure gli è adeguata? Sono questi tre elementi che, qui, ci indicano la concettualità – ce la indicano, ma non la esauriscono: 1. l’esperienza fondamentale che mi rende accessibile il carattere materiale – un’esperienza che primariamente non è teoretica, ma è implicita nel commercio della vita con il suo mondo;… La chiacchiera, l’opinione, ciò che credo che sia: questo è il primo modo di approcciare le cose. Distinguevamo con Parmenide tra ciò che è, ciò che non è e ciò che credo che sia. Io posso vedere solo il ciò che credo che sia. …2. l’appello primario; 3. il carattere specifico della comprensibilità, la specifica tendenza alla comprensibilità. Perché voglio comprendere? Perché tendo alla comprensione? A che scopo? La risposta è: per dominare il mondo e tutti quelli che stanno intorno, nessuno escluso. Questo è il problema che si pone Heidegger, che incomincia a vedere di che cosa è fatto, quando si chiede, sì, certo, che cos’è il concetto, la definizione, ma perché noi concettualizziamo, perché definiamo? A che scopo? Qual è il fine? E ne parlerà tra poco del τέλος, il fine, il compimento di qualcosa. Ma, di nuovo, perché voglio che si compia? La domanda rimane, naturalmente. A pag. 51. I predicabili. I predicabili non sono nient’altro che il ciò che si dice di qualcosa. Genere e specie sono dunque elementi caratteristici che contraddistinguono ogni definizione. Ogni definizione è fatta di genere e specie. L’uomo è un vivente (genere), razionale (la sua specie, la sua specificità). Anche il bruco è un vivente, ma non è razionale, non possiede il λόγος. Ma non sono gli unici. Vi appartengono anche gli elementi ulteriori del proprium e della differentia specifica in quanto tali. Questi elementi, che guidano la formazione del concetto, vengono detti predicabili, ovvero κατηγορήματα. I κατηγορήματα sono stati trattati sistematicamente per la prima volta da Porfirio nella sua Introduzione alle κατηγορίαι di Aristotele. La sua είσαγωγή fu successivamente tradotta in latino da Boezio, diventando così il testo canonico del Medioevo sulle questioni logiche. È in riferimento alla είσαγωγή porfiriana che nel Medioevo si è sviluppata la cosiddetta disputa sugli universali. Si danno cinque predicabili: 1. Genus est unum, quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est praedicatur. (Il genere è uno, poiché in esso da molte specie differenti è ciò che si predica). Da molte specie differenti se ne predica una. “Linea curva, chiusa” – il genus del cerchio… Cioè: di molte cose - linea, curva, chiusa - una, il cerchio. Ex pluribus unum. Dei molti si predica uno. 2. Species est unum, quod de pluribus solo numero differentibus in eo quod quid est praedicatur (La specie è uno, poiché da molti si predica una differenza solo di numero). I singoli cerchi solo numero differunt (si differiscono solo per il numero). 3. Differentia specifica aut διαφορά est unum, quod de pluribus praedicatur in quale essentiale, (La differenza specifica è uno, poiché da molti viene predicato in quanto essenziale)… Tante differenze sono riassunte in un’unica differenza. Sta continuando a dire che tutte queste cose sono uno. Sta parlando dei predicabili, cioè di ciò che si può dire di qualcosa. 4. Proprium est unum, quod de pluribus praedicatur in quale necessarium (Il proprio è uno, poiché da molti viene predicato in che cosa è necessario). Tutte le cose che sono necessarie rientrano anche questo in uno. Che cosa, per es., è necessario per gli umani? Respirare, mangiare, bere. Tutte queste necessità sono uno, sono ciò che è necessario. 5. Accidens est unum, quod de pluribus praedicatur in quale contingens (L’accidente è uno, poiché da molti si predica in quale possibilità questa cosa accade) Le molte possibilità possono riassumersi in una generica. …nella misura in cui spetta a ciò a cui ci si rivolge. Questi praedicabilia vengono detti anche universalia (universali). Più precisamente, la distinzione consiste nel fatto che universale significa: unum quod “est” in pluribus (l’uno che è nei molti)… Tutti questi molti, come abbiamo visto in tutti questi cinque casi, sono uno. Per es., ci sono tanti generi ma il genere è uno: c sono tanti uomini, ma l’uomo è uno. …mentre praedicabile significa: unum quod de pluribus “praedicatur” (l’uno che viene predicato dai molti). Nel primo caso l’uno “è” nei molti; nel secondo caso, predicabile significa: l’uno che viene detto di molti. Quindi, abbiamo l’uno che è molti e l’uno che viene detto di molti. Ne deriva la questione se l’universale esista realmente nelle cose, oppure se si tratti soltanto di opinioni del pensiero comprendente (realismo-nominalismo). Anche tale questione ha la sua origine in determinati contesti materiali della filosofia greca, per la precisione in fraintendimenti scolastici. Non possiamo saltare molto di quanto scrive, anche perché sta affrontando dei concetti che in seguito saranno fondamentali. A pag. 52. Affrontiamo ora la questione della concettualità e della sua fondatezza… Il concetto è fondabile? …tornando dalla definitio in quanto mezzo tecnico allo όρισμός (“delimitazione”. Όρισμός è un λόγος, un “parlare” di qualcosa, un rivolgersi alla cosa “stessa in ciò che essa è”, καθαύτό (secondo se stesso). Un λέγειν καθαύτό: ciò a cui ci si rivolge e cisi deve rivolgere è la cosa “in se stessa” e solo essa. Questo è ciò che vorrebbe fare la definizione: rivolgersi alla cosa stessa, dire la cosa stessa, καθαύτό, secondo se stessa. Lo όρισμός viene quindi determinato in quanto ούσίας τις γνωρισμός. Γνωρισμός significa “far prendere conoscenza di…”… Quindi, un esserci che fa prendere conoscenza di… Bisogna sempre tenere presente che ούσία, posta così come la pone Heidegger, cioè come l’esserci, è l’uomo stesso, è il parlante. L’esserci è il parlante, né più né meno. …”far prendere confidenza con…”, fare presente una cosa. Γνωρισμός è il far prendere confidenza con un ente nel suo essere. Ma che cosa significa λόγος ούσίας: 1. λόγος, 2. Ούσίας. Λόγος: parlare, non nel senso dell’“aprire bocca”, ma del parlare di qualcosa in modo tale da mostrare “ciò di cui” si parla, un parlare grazie al quale ciò di cui si parla si mostra. Questo è fondamentale – lo era per i greci e lo è ancora oggi: parlare è fare vedere ciò di cui si parla, è farlo apparire. La funzione peculiare del λόγος è l’άποφαίνεσθαι (manifestarsi), Questa è la funzione peculiare del dire: il manifestare, il rendere presente. … il “portare alla vista una cosa”. Io parlo e voi vedete. Ogni parlare è, soprattutto per i greci, un parlare con qualcuno, o con altri, parlare con se stessi o a se stessi. Il parlare si dà nell’esserci concreto, poiché non si esiste da soli – è un parlare di qualcosa con altri. Parlare di qualcosa co altri è di volta in volta un esprimersi. Nel parlare di qualcosa con altri io mi esprimo, esplicitamente o no. Ma allora che cos’è il λόγος? È la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto tale. Se traduciamo λόγος con linguaggio: il linguaggio è la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto tale. I greci concepiscono l’uomo in quanto ζοον λογον εχων, non solo in senso filosofico, ma nella vita concreta: “Un vivente che (in quanto vivente) ha il linguaggio”. Questa definizione non deve far pensare alla biologia o alla psicologia come scienza dello spirito, e così via: si tratta infatti di una determinazione che precede siffatte distinzioni. Ζωή è un concetto ontologico, “vita” significa un modo dell’essere, e precisamente l’essere in un mondo. Questa è la vita: l’essere in un mondo. Ciascuno è già da sempre in un mondo, nasce nel mondo, vive nel mondo. Sta qui l’idea che Heidegger fosse un po’ comunista, per il fatto che l’uomo, parlando, è sempre in relazione con altri, e questa comunanza con tutti gli altri ha fatto pensare ad alcuni che fosse un po’ comunista. Un vivente non è semplicemente il presente, ma è in un mondo in modo tale da avere il suo mondo. Non è lì in modo qualunque, no, è lì nel modo in cui si situa nel suo mondo. È in questo che “ci è”, c’è in quanto situato nel suo mondo, e in quanto situato nel suo mondo lui si rapporta al mondo. Un animale non è semplicemente posto sulla strada, ma si muove sulla strada spinto da un qualche apparato; esso è nel mondo nel modo dell’“avere il mondo”. L’“essere nel mondo” dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare. Il modo dell’essere fondamentale dell’uomo nel suo mondo è il parlare con il mondo, sul mondo, del mondo. Questo mondo, di cui sono fatto e senza il quale io non esisterei, è ciò con il quale io continuamente dialogo, con cui continuamente parlo. L’uomo, insomma, è determinato proprio dal λόγος. Ma se la definizione è un λόγος, vedete allora dove la questione della definizione ha il suo terreno, nella misura in cui il λόγος è la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo. La definizione fa parte dell’essere dell’uomo. Non possiamo eliminare la definizione. Noi stiamo parlando continuamente con il mondo, noi definiamo continuamente cose, le definiamo per poterle pensare, per poterle dire. Solo a questa condizione, se qualcosa è delimitato, definito, determinato, noi possiamo dialogare con il mondo. Per assurdo, nell’πειρον non c’è nessuna possibilità di comunicare alcunché, perché non c’è nessun alcunché, perché tutto è indistinto. Il λόγος in quanto όρισμόςIl λόγος quindi come definizione, il λόγος non fa che definire, non fa che affermare cose. Si rivolge all’ente nella sua ούσία, nel suo esserci. Dobbiamo quindi intenderci sul significato di ούσία.