4 gennaio 2017
Siamo a pag. 163. Lo esser qui in quanto uomo esistente è sempre insieme e in sé un esser lì con Loro, per esempio, presso la candela che arde lì sul tavolo, laddove ha parte anche l’esser-corpo in quanto vedere con gli occhi. Cioè, io esisto in questo momento sempre insieme con voi, nel senso che in questo momento a mia esistenza non può prescindere dalla vostra presenza. La vostra presenza modifica il mio esser-ci, qui, in questo momento. Se Loro fossero un puro spirito senza corpo, non potrebbero vedere la candela in quanto lume rilucente di luce giallognola. L’esser-corpo ha parte anche nel percepire il contenuto di significato di una lampada, anche se me la presentifico soltanto e non la vedo in carne ed ossa davanti a me, in quanto alla lampada in quanto lampada appartiene il suo rilucere. Sta dicendo semplicemente che io sono presente con il corpo, ovviamente, perché io vedo la luce, quindi vedo voi e quindi io sono certamente presente qui in quanto presente tra voi, ma anche tenendo conto del fatto che, grazie al mio corpo, io mi trovo anche a vedere delle cose e ciò che vedo non mi è indifferente, mi modifica. È una questione questa che abbiamo già considerato da moltissimo tempo: ciascun discorso che interviene, ciascuna parola che interviene, ciascun elemento che interviene all’interno della struttura non modifica solo un altro elemento ma modifica tutta la struttura. Questo lo diceva già lo strutturalismo, e cioè che basta modificare un elemento per modificare tutta la struttura, e sta dicendo esattamente la stessa cosa. Si sono accorti che in questa maniera Loro erano già sempre presso ciò che si fa incontro. Loro hanno dovuto liberarsi delle abituali rappresentazioni di un mero essere rappresentate delle cose all’interno della Loro testa e hanno dovuto introdursi nel modo dell’esistere, in cui Loro già sono. Come dire, voi, ascoltandomi, ovviamente, avete iniziato a considerare che non sono soltanto un mero essere, che si rappresenta delle cose all’interno; no, questo essere è un esser-ci, quindi è in continua relazione con tutto, continuamente, incessantemente, ne viene modificato e modifica. Si tratta va di eseguire espressamente questo introdursi nel modo d’essere in cui Loro già sempre sono. Cioè si tratta a questo punto di comprendere bene, di entrare in questo esser-ci in cui ciascuno già sempre è e non può non essere, non è che uno entra nell’esser-ci, poi ne esce e va a fare due passi e rientra, c’è sempre, qualunque cosa accada, qualunque cosa faccia, è sempre preso all’interno di un progetto, che comporta una relazione continua, costante con tutto quanto, dove modifica qualunque cosa e da qualunque cosa è modificato. Per voi, che state attraversando una strada, quella strada non è più quella di prima ma è modificata dalla vostra presenza in quel momento. Quindi, è un modificarsi ininterrotto delle cose. Tuttavia, questo eseguire espressamente ed introdursi non sono affatto sinonimi di un comprendere questo modo d’essere, in quanto Loro con comprendere intendono un “pensare qualcosa”, poterlo capire, un mero comprendere qualcosa in quanto qualcosa. Si può persino comprendere lo esser presso… in modo tale che ci si rifletta sopra e in ciò non ci sia proprio affatto ancora introdotti espressamente in esso, né lo si sia esperito in quanto rapportarsi fondamentale dell’uomo a ciò che si fa incontro. (pag. 164) Sempre rivolgendosi a questi, che sono medici: voi pensate di avere capito perché immaginate che ci sia il qualche cosa da comprendere, sempre all’interno di questa posizione cartesiana soggetto-oggetto. Il qualcosa da comprendere diventa l’oggetto che io soggetto devo afferrare. Non stanno così le cose, dice Heidegger. Ora, però, come perviene Descartes, un uomo così acuto e razionale, a una teoria così singolare, per cui l’uomo esisterebbe innanzitutto soltanto per sé solo senza il rapporto con le cose? L’uomo non esiste soltanto di per sé, senza essere in relazione con le cose che lo circonda, quindi, con il suo mondo. Husserl, il mio venerato maestro, condivideva ampiamente questa teoria, epperò già presagiva qualcosa oltre di essa. Altrimenti, le sue Cartesianische Meditationen non sarebbero il suo libro fondamentale. … la posizione di Descartes scaturisce dalla necessità dell’uomo, che ha rinunciato a ricevere la determinazione del suo esserci dalla fede, dall’autorità della Bibbia e del magistero ecclesiastico, che si è piuttosto interamente poggiato su se stesso, e che perciò cerca di riacquistare fiducia e sicurezza con qualcosa d’altro, che, dunque, ha bisogno di un altro fundamentum absolutum inconcussum. Questo lo diceva già prima, si è passati dalla fede, dalla teologia, alla scienza. In questo passaggio, ovviamente, mentre prima il fondamento delle cose stava in dio, adesso bisogna ricercarlo o nelle cose stesse o nel soggetto che ne garantisce l’esistenza. Dopo tutto il lavoro di Cartesio è consistito in questo, nel volere prendere le distanze dalla teologia, dice no, non è vero che è dio che garantisce ogni cosa, ma se non c’è un dio che garantisce le cose allora chi le garantisce? Occorre trovare un altro fundamentum inconcussum, e dove lo troviamo? E, allora, lì ha avuto il colpo di genio, per così dire: io penso, quindi, se penso, allora sono, senza riflettere sul fatto che questo passaggio è un po’ complicato, più di quanto Cartesio pensasse. Però, per lui questa era l’unica certezza assoluta, cioè il fatto che penso, che sono pensante, che penso delle cose, non c’è un’altra certezza prima, quindi, ha messo questa al posto di dio e in questo modo ha fondato il soggetto, l’io pensante, l’io cosciente. Nella ricerca di un altro che di indubitabile, in soccorso di Descartes giunge proprio al momento opportuno la completamente diversa possibilità di considerazione della natura che Galilei eseguiva con i suoi esperimenti, cioè il divenire visibile della possibilità della certezza ed evidenza matematiche. Cartesio non è che fosse isolato, a suo modo viveva anche lui all’interno del suo mondo, in cui c’erano anche Galilei, Newton, c’erano questi personaggi che gli hanno fornito il destro per pensare a un qualche cosa che potesse mettersi al posto di dio come certezza indubitabile, perché poi, di fatto, diventa la calcolabilità delle cose. In tal modo, Descartes perviene alla certezza del cogito sum: io in quanto pensante sono. Questa proposizione né da intendere come una deduzione, non dunque, cogito ergo sum, bensì come un’intuizione immediata… Questo è importante. Non è che lo deduce, cioè, se penso allora sono; non è posta in questi termini, dice Heidegger, è un’intuizione immediata, è qualche cosa che non ha bisogno di essere spiegato. La deduzione sarebbe una sorta di spiegazione, cioè un qualche cosa che passa da uno all’altro e l’altro in questo modo dovrebbe rendere più chiaro il primo. No, dice, nell’intuizione, invece, c’è l’immediatezza, non è mediata da nulla, è immediatamente evidente. Descartes guadagna la sua posizione dal voler apprestare qualcosa di assolutamente sicuro e certo… Questo ci interessa sta parlando, sì, di Cartesio, ma del nascere della scienza moderna. /…/ Non dunque a partire da un fondamentale rapportarsi immediato a ciò che è, o a partire dalla questione circa l’essere. Come, invece, suggerisce Heidegger sulla scorta degli antichi. Al contrario, che qualcosa sia e possa legittimamente essere, viene viceversa determinato secondo il criterio dell’evidenza matematica. (pagg. 164-165) Dunque, non è più l’ἀλήθεια, il disvelarsi, l’apparire di qualche cosa che mi si manifesta, ma il calcolabile. L’ ἀλήθεια viene sostituita dal calcolabile, cioè dall’episteme, dalla verità come episteme, cioè la verità in quanto certificata e dimostrata matematicamente, more mathematico. Ad illustrazione sia ancora una volta rinviato qui alla Meditatio II di Descartes: “De natura mentis humanae: Quod ipsa sit notior quam corpus”. Nell’esempio, qui addotto, della candela di cera, tutte le qualità di questa non sono ciò che permane assolutamente e che perciò è indubitabile, bensì indubitabilmente permanente è solo l’esser estesa della cera. Quindi, è l’estensione, quindi, di nuovo, è la misurabilità, la calcolabilità. Ricordate, diceva che se non c’è estensione non c’è calcolabilità. (Più tardi, Leibniz dimostrò come da Descartes la forza non venisse ancora considerata quale determinazione necessaria di un processo naturale). … Ora, però, tutte le nostre trattazioni non devono affatto venire concepite come ostili alla scienza. La scienza in quanto tale non viene in alcun modo rifiutata. Viene soltanto respinta, in quanto presunzione, la sua pretesa assolutistica di essere il criterio di ogni proposizione vera. Questa è la critica di Heidegger alla scienza. Lui non ce l’ha con la scienza, critica la pretesa della scienza di potere esibire la verità. Di contro a questa inammissibile pretesa, come caratterizzazione del nostro metodo, completamente diverso, mi sembra essere necessario il nome di “introdursi espressamente nel nostro rapportarci a ciò che si fa incontro”… Cioè, lui oppone alla pretesa assolutistica della scienza di dire la verità, questo: “introdursi espressamente nel nostro rapportarci a ciò che si fa incontro”, cioè accogliere ciò che si fa incontro, introdursi significa prendere parte, essere presenti, essere lì in ciò che si fa incontro. … in cui noi già sempre soggiorniamo. Appunto, perché non è che oggi soggiorniamo e domani non siamo nel progetto; domani, qualunque cosa faremo, saremo comunque lì, da sempre, perché non c’è stato un momento in cui non lo fummo. L’introdursi non significa neanche alla lontana meramente un rendersi-conscio il mio modo d’essere. Non è di questo che si tratta, di un rendere consapevoli o consci. Di un render conscio posso parlare solo se voglio tentare di determinare come nostro originario esser presso… sia connesso con altre determinazioni dell’esserci. Cioè, l’esser conscio di qualche cosa, per Heidegger, significa soltanto il tentativo di determinare questo mio essere presso qualche cosa, dargli una determinazione, perché posso dire che è conscio, che è inconscio, poi nella prima Topica c’era anche il preconscio. Ma questo esser conscio è sempre connesso con altre determinazioni come se volere render conscio, rendersi conto dell’inconscio, fosse un modo di determinarmi, uno dei vari modi in cui voglio determinarmi: sono conscio, sono inconscio, sono questo e quell’altro. Ora, per Heidegger, una cosa del genere non ha molto senso, cioè, determinarsi a questa maniera, perché se ciascuno si trova presso l’esserci già da sempre non ha bisogno di ulteriori determinazioni; certo, può determinarsi ma questo non gli servirà a nulla nel suo andare incontro e lasciare che le cose gli vengano incontro. Perché dice, infatti, subito dopo: L’introdursi è una via del tutto diversa, un metodo del tutto diverso dal metodo scientifico, qualora noi sappiamo far uso della parola metodo nel suo senso originario autentico μετά-όöός, la via verso… In ciò Loro, dal concetto di metodo, devono tenere lontano il significato, ad esso solitamente dato, di mera tecnica di indagine. Dobbiamo percorrere, dunque, la via verso noi stessi. Questa, però, non è più la via verso un io isolato, dato innanzitutto da solo. (pagg. 165-166) questa è l’obiezione importante che fa Heidegger, per lui non c’è questo io isolato, l’Io di cui parla anche Freud, ovviamente, ne suo saggio dove esplora la seconda topica (L’Io e l’Es). Dice che l’io non è isolabile, quindi, non posso coglierne la determinazione. Se ci atteniamo alla posizione di Heidegger… a parte il fatto che non parla mai di io, neanche di soggetto, ne parla ma criticandolo, per lui c’è l’esserci, l’essere sempre e comunque all’interno di una progettualità, in cui si è presi in una costante e inevitabile relazione con il mondo che mi costituisce in quel momento. Il mio, in questo istante è essere qui, in questo momento, con voi, parlando e ascoltando, ecc. Quindi, non c’è un io per Heidegger, non c’è il mio io, c’è il mio esserci qui, in questo momento, a fare queste cose, cioè, è sempre e comunque preso all’interno di una relazione. Un elemento non è determinabile isolatamente ma è sempre e comunque quello che è in relazione con gli altri: questa è la semiotica. Non si può uscire da questo esserci, esserci inteso come essere nel progetto, essere nel mondo che mi circonda e che mi costituisce in questo momento. Potete sostituire il termine “mondo” con rete di connessioni, se vi piace di più, una rete di connessioni tale per cui mi trovo ad essere di volta in volta preso in questa rete… una parte importante è quella che si accorge di essere presa in una rete, il posacenere, no. Tuttavia, il posacenere è per me qualche cosa, io sono in relazione anche con il posacenere, nel momento in cui spengo la sigaretta sono in relazione con lui, questo fa parte del mio mondo, fa parte del mio esserci anche il posacenere. A pag 166. Il discorso dell’esser rapportato, della relazione con l’altro uomo ovvero persino della relazione interumana è fuorviante, in quanto ci induce alla rappresentazione di due soggetti semplicemente-presenti polarmente, che poi debbano produrre dei collegamenti tra le rappresentazioni semplicemente-presenti nelle loro coscienze. Con ciò, il concetto di relazione ostruisce l’introdursi nel nostro vero rapportarci agli altri. Dice, badate bene, che non è che si tratti in questo essere in rapporto, nel senso che c’è una relazione tra le sue rappresentazioni e le mie, che si mettono in comunicazione, per cui si crea una relazione di questo tipo, come se fossimo due cose semplicemente-presenti, e cioè, l’essere qui in questo momento rappresenta il mio mondo, che non è fatto di più uno, più uno, più uno, ecc., ma è fatto dell’essere in relazione, io sono il prodotto di questa relazione continua. Ma come siamo l’uno con l’altro? In questo modo, che in questa stanza sia semplicemente-presente qui uno e lì un altro e là un altro ancora di noi e che poi ci addizioniamo? La tanto rinomata teoria psicologica dell’entropatia riposa su questa rappresentazione evidentemente non appropriata. Questa teoria, in modo puramente cartesiano, si rappresenta un io dato innanzitutto per sé,… quindi non più in relazione ma per sé … che poi penetra empaticamente nell’altro e scopre così che anche questi è un uomo, che è così come sono io, un alter Ego. Questa nondimeno è una pura costruzione. Poco più avanti a pag. 167. Quando si parla delle tanto nominate relazioni io-tu e di quelle al noi, si dice qualcosa di molto incompleto. Questa locuzione ha il suo punto di partenza sempre ancora da un io primariamente isolato. Quando si parla dell’io e dell’altro si isolano questi elementi compiendo un’operazione che è una costruzione, non rende conto minimamente di ciò che sta accadendo, dice Heidegger. È un’operazione, diciamo così, scientifico-cartesiana, che muove da quella posizione dove ciascuna cosa è presa in quanto isolata e isolabile dal mondo in cui e per cui esiste. Siamo al 23 novembre 1965 a pag. 170. Qui riprende il discorso dell’ostilità alla scienza. Lui aveva già detto che non è ostile alla scienza, sono ostile alla pretesa assurda della scienza di dire la verità, di dire come stanno le cose, e allora analizza tre obiezioni che qualcuno gli ha fatto. Innanzitutto, devono venire discusse le tre obiezioni seguenti: 1) l’analisi dell’esserci sarebbe ostile alla scienza, 2) l’analisi dell’esserci sarebbe ostile all’oggetto, 3) l’analisi dell’esserci sarebbe ostile al concetto. Queste sono le tre obiezioni fondamentali che hanno rivolto ad Heidegger. Ora, per poter delucidare queste obiezioni, dobbiamo anzitutto venire in chiaro su che cosa, in questi termini, vogliano propriamente dire analisi, analitica e analizzare. Forse è persino ancora meglio riandare un passo più in là e domandare: che cosa intende Freud, quando parla di analisi? Questo chiaramente lo attendo da Loro. Si rivolgeva, infatti, a degli psicoanalisti. Un tizio risponde alla sua domanda. S.: Con ciò Freud intende la riconduzione dei sintomi alla loro origine. H.: Perché egli chiama allora una riconduzione analisi? S.: In analogia con l’analisi chimica; anche questa, infatti, vuole risalire agli elementi. H.: in ciò si tratterebbe, dunque, di una riconduzione agli elementi, nel senso che il dato, i sintomi, viene risolto in elementi, con l’intenzione di spiegare i sintomi attraverso gli elementi in tal modo acquisiti, l’analisi, nel senso di Freud, sarebbe dunque una riconduzione nel senso della risoluzione al servizio della spiegazione causale. Ora, però, non ogni riconduzione a un donde dell’essere e del sussistere deve necessariamente essere un’analisi nel senso or ora indicato. Cioè, una risalita o una discesa. Ricordate la celeberrima frase di Freud “si neque superos Acheronta movebo”, cioè, se non posso confrontarmi con le cose più in alto, superiori, allora mi confronterò con l’inferno, con le cose più basse. Né negli scritti di Freud, né nella biografia di Freud scritta da Jones, si trova un qualche passo da cui risulti perché Freud abbia scelto proprio questo termine analisi come titolo del suo tentativo teorico. È una questione legittima. L’uso più antico della parola analisi si trova in Omero, e precisamente nel secondo libro dell’Odissea. Là viene usata per ciò che Penelope fa nottetempo, cioè per il suo sciogliere il tessuto che ella aveva tessuto durante il giorno. ἀναλύειν significa qui lo sciogliere il tessuto nelle sue parti che lo compongono. Questa è l’interpretazione di Heidegger della parola analisi: sciogliere il tessuto nelle parti che lo compongono. In greco ἀναλύειν significa anche sciogliere da un vincolo, per esempio allentare le catene ad un incatenato, liberare qualcuno dalla prigionia; può anche significare scomporre le parti solidali di una costruzione, per esempio levare le tende. Quindi, ci fornisce un’altra etimologia della parola analisi. Molto più tardi, il filosofo Kant usa l’espressione di analitica nella Critica della ragion pura. Di qui io ho ripreso la parola nel termine “analitica dell’esserci”. Ciò, tuttavia, non vuol dire che l’analitica dell’esserci in Sein und Zeit sarebbe solo una prosecuzione della posizione di Kant. (pag. 171) Poco più avanti dice Ora, però, ogni conoscenza nel senso dell’esperienza scientifica non è meramente una intuizione sensibile, bensì è sempre intuizione, ovvero percezione-sensibile, più precisamente: esperienza, determinata dal pensiero. Questa Kant la concepisce in quanto conoscenza scientifica, vale a dire fondata sulla matematica, della natura. Scienza è sinonimo di scienza matematica della natura secondo il modello di Galilei e Newton. Alla questione circa le condizioni di possibilità di quest’altra componente della conoscenza, cioè il pensiero, risponde la Logica Trascendentale. A pag. 172. Da questo concetto kantiano di analitica risulta che essa è una articolazione della facoltà dell’intelletto. Infatti, l’analitica trascendentale non è altro che l’interessarsi delle condizioni per cui è conoscibile la conoscenza. L’analisi della conoscenza prende la conoscenza e la fa a pezzi per vedere come è fatta, come funziona. L’analitica, invece, si occupa non della conoscenza in quanto tale ma delle sue condizioni, cioè che cosa la rende possibile. Questa è la differenza tra analisi e analitica, sia in Kant sia in Heidegger, che le riprende da Kant. Il carattere fondamentale di un’articolazione non è la risoluzione in elementi, bensì la riconduzione ad una unità (sintesi) della possibilizzazione ontologica dell’essere dell’ente, nel senso di Kant: dell’oggettività degli oggetti dell’esperienza. Qui ci sarebbe da riflettere un istante perché, come abbiamo visto prima, muove dall’analisi così come la pone Freud. Sapete, lui prende tutti i vari sintomi nella Psicopatologia della vita quotidiana, ne L’interpretazione dei sogni, ecc., cioè coglie tutti quegli elementi che possono rinviare, ricondurre a qualcosa di inconscio, per esempio, partendo dal sintomo, la ricerca del desiderio inconscio che, rimosso, ha scatenato il sintomo. Questa è l’analisi in Freud, grosso modo, detta molto rapidamente, qui, invece, Heidegger pone un’altra cosa. Riprendendo la questione dell’analitica riprende la questione delle condizioni della conoscenza, che per Freud sono induttive, cioè fa delle ipotesi, cioè, muove dal particolare per indurre il generale, nel senso che ciò che rileva nel discorso di qualcuno sono elementi particolari e questi elementi particolari devono essere ricondotti a qualcosa di più generale, che per esempio la rimozione è avvenuta nel 1924, il 13 marzo alle 17,30, era una bellissima giornata per rimuovere: Non lo sta dicendo Heidegger, è una questione che sto ponendo io, che mi ha indotto a pensare Heidegger, che però è in linea con il suo pensiero. Dice che non si tratta di scomporre ma di comporre. Comporre significa qui non tanto il mettere insieme tutti i pezzetti e farne una unità in quanto tale ma cogliere il fatto che tutti questi elementi, tutti questi particolari, fanno parte dell’esserci, fanno parte del mondo, fanno parte di tutto ciò che io sono in questo momento. Quindi, cosa interessante, è che tutti questi elementi particolari, quelli che individuava Freud, anziché ricondurli a un donde, a una causa, Heidegger propone di considerarli come tutti gli elementi del mondo di quella persona, sono all’interno di ciò che quella persona è in quel momento. Questo indurrebbe a pensare alla non necessità della riconduzione dei vari particolari a un generale ma piuttosto a intendere che quella persona è tutte queste cose. Perciò qui non può neanche esservi alcun discorso di una causalità, la quale concerne sempre solo un rapportarsi ontico tra una causa essente ed un effetto essente. Causa-effetto: ha ammazzato la mamma e gli è venuto il senso di colpa. La meta dell’analitica è, dunque, di rendere manifesta l’unità originaria della funzione della facoltà dell’intelletto. Nell’analitica si tratta di un regredire a una “connessione in un sistema”. L’analitica ha il compito di portare allo sguardo il tutto di una unità di condizioni ontologiche. In quanto ontologica, l’analitica non è un risolvere in elementi, bensì l’articolazione dell’unità di una commettitura strutturale. Questo è il fattore, che è essenziale anche nel mio concetto di “analitica dell’esserci”. Nel corso di questa analitica dell’esserci, in Sein und Zeit parlo anche di analisi dell’esserci, col che intendo di volta in volta l’eseguimento dell’analitica. Dice, dunque, L’analitica ha il compito di portare allo sguardo il tutto di una unità di condizioni ontologiche, condizioni ontologiche per Heidegger significa l’esserci, l’analitica dell’esserci è l’ontologia per Heidegger, quindi, dell’essere in quanto orizzonte che rende possibile l’apertura di ciò che appare. Dice In quanto ontologica, l’analitica non è un risolvere in elementi, bensì l’articolazione dell’unità di una commettitura strutturale, di una serie di connessioni che è strutturale, quindi, l’articolazione di una serie di connessioni che è strutturale. Quindi, non analizzare ma articolare. Qual è la differenza? Per Heidegger l’analizzare significherebbe cogliere ciascun elemento come un ente, che è quello che è, isolato da tutto il resto, un oggetto qualunque; mentre per Heidegger non si tratta di questo ma di cogliere non l’ente ma l’essere, ciò che rende questi quello che sono, ciò che rende questi particolari che Freud analizza, ciò che li rende quello che sono, che non è il da dove arrivano ma è il come si stanno articolando in questo momento, cioè qual è il progetto tale per cui queste cose sono in questo momento quello che sono. Se il progetto è la volontà di potenza allora tutto questo discorso diventa più chiaro, nel senso che non si tratta più di trovare dei particolari da ricondurre alla loro causa, particolari come effetto di qualche cosa che ne sarebbe la causa, ma questa “causa” è il progetto all’interno del quale questi particolari esistono. Se questo progetto è la volontà di potenza, che come diceva Nietzsche è l’essere, ecco che allora è questo essere che dà il significato all’ente, cioè rende l’ente quello che è, è questo essere ciò per cui esistono questi particolari nel modo in cui esistono. Quindi, l‘andare a cercare da dove arrivano trova altri enti che a loro volta, in quanto enti, sono debitori dell’essere per essere quello che sono, e così via all’infinito. Questo per intendere un pochino meglio la questione dell’analisi così come la pone Freud, così come la pone anche la scienza, dopo tutto il tizio che aveva risposto ad Heidegger parlava dell’analisi chimica, la metteva in rapporto con la chimica che scompone gli elementi per poi analizzare questi elementi e vedere per quale motivo due molecole di idrogeno sono mischiate con una di ossigeno e hanno fatto insieme dell’acqua. Ora, questa posizione di Heidegger è interessante perché intanto sta dicendo che questa regressio verso le cause, questa discesa negli inferi, diceva Freud, in effetti non può che trovare degli altri enti, l’analisi può trovare solo altri enti perché separa gli elementi per poterli analizzare e, quindi, separandoli, li pone come enti. Diventano oggetti di esperienza. È una questione interessante sulla quale occorrerebbe riflettere perché mette in discussione molte cose, cominciare a riflettere sul fatto che questa analisi, anche nell’accezione psicoanalitica del termine, diciamo di Freud, di fatto trova altri elementi che sono posti come oggetti, cioè come oggetti metafisici, quindi, che sono quello che sono, per virtù propria. No, perché in relazione all’essere sono quello che sono per via del fatto di essere inseriti all’interno di un progetto, ciascuna volta, in ciascun momento. Quando Freud dice che un elemento è stato rimosso e da quel momento quell’elemento è inconscio, fa parte dell’Es, quell’elemento che viene rimosso viene posto da Freud proprio come un oggetto metafisico, come se fosse isolabile, isolabile in qualche modo dal discorso della persona in cui si trova in quel momento. Mi rendo conto che è ancora un po’ ostico però c’è qualche cosa qui che sta dicendo Heidegger fra le righe, di cui non parla ma che indica una direzione, cioè gli elementi che la psicoanalisi trova lungo la sua analisi vengono posti come oggetti metafisici. Questo cosa comporta? Esattamente ciò che comporta per la scienza, e cioè l’idea di poter isolare un elemento, poterlo analizzare e, quindi, sapere che cos’è.
Intervento: la psicoanalisi è andata un po’ più avanti…
Non credo, nel senso che si sono poste questioni, attraverso la linguistica, Lacan prima e Bion dopo, ma le cose di cui parlano come sono poste in realtà? Sono poste come elementi che sono quello che sono, indipendentemente dalla considerazione che li pone, invece, come cose che hanno un riferimento continuo con ciò che le fa essere quelle che sono, ma di volta in volta. La teoria, per esempio di Verdiglione, ci sono molti concetti, molte questioni, che vengono poste in modo ben determinato e inamovibile, perché se le dovessimo muovere, così come è stato fatto, tutta la teoria ne viene modificata e non sta più in piedi. Per esempio, considerate un’affermazione come questa: l’inconscio è la logica particolare a ciascuno. Adesso non discuteremo del fatto sia così oppure no, ma sull’enunciato. Quando io dico che questa cosa è quell’altra, cioè dico che A è B, muovo, come direbbe Heidegger, dall’assunzione, o addirittura dalla presunzione, che quella cosa sia quella necessariamente. Perché quella cosa sia necessariamente deve essere isolata, cioè, non deve più avere relazioni con il resto del mondo, in un certo senso. Solo a queste condizioni posso dire che quella cosa è quella che è e, quindi, se questo è questo allora osso dire che A è B, cioè l’inconscio è la logica particolare a ciascuno, dove anche il particolare, anche il ciascuno, seguono lo stesso andamento. Tutti questi elementi devono essere quello che sono, ma non intesi, come diciamo spesso, come sono quello che sono all’interno di un gioco linguistico, così come decido che un re di fiori è un re di fiori e non un asso di picche. No, perché, se così fosse, allora questo renderebbe la teoria di Verdiglione un gioco linguistico al pari di qualunque altro, escluderebbe la possibilità che questa teoria possa rendere conto di uno stato di cose, come dire che non è più possibile affermare che le cose stanno così, quindi, possono essere in tutt’altro modo, quindi, quello che dice non significa niente, se non un gioco, fatto a scopo ludico. Quello che dico forse, dico forse perché Heidegger non lo dice espressamente, è incominciare a tenere conto del fatto che ciascun elemento è quello che è in quanto è in relazione con il mondo in cui è inserito e non per sé. Tutta l’obiezione che Heidegger muove alla scienza è su questo, la scienza isola degli elementi; isolandoli, a quel punto può conoscere, elaborare, manipolare l’ente.
Intervento: Non sono più per…
Esattamente, non sono più per qualche cosa, così come avviene che una qualunque cosa, il tempo, diceva prendendo uno dei termini più difficili da maneggiare, è sempre stato preso e continua a essere preso come un ente, quindi, un ente per se stesso, mentre la sua posizione è quella di prendere il tempo “per” qualche cosa. È soltanto questo, ma non soltanto il tempo, che è uno dei concetti più difficili sicuramente, ma qualunque cosa è sempre “per” qualche cosa. È questo che dice del suo essere, essere è essere “per” qualche cosa. È questa la distanza che Heidegger rileva tra sé e il discorso scientifico, verso il quale non è ostile, semplicemente dice che la scienza non può affermare che le cose stanno così.
Intervento: qualunque è cosa è per… l’uomo.
Esattamente, certo. Questo, però, apre a un’altra questione di grande interesse. L’essere qualche cosa “per” è esattamente la definizione di tecnica, essere per qualcosa. E questo apre a qualcosa di enorme. Dice “essere per qualche cosa”, l’ente è sempre un ente per l’essere ma questo essere è essere per qualche cosa, ma essere per qualche cosa è la definizione propriamente di tecnica, e cioè uno strumento per degli scopi, è un qualche cosa per qualcos’altro. Per questo abbiamo già detto da tempo che la struttura del linguaggio è la struttura della tecnica: ciascun elemento è per un altro, in quanto segno è quello che è per un altro. Quindi, l’essere per qualcosa è la tecnica.
Intervento: una macchina può essere un segno.
Questo Heidegger non lo dice, però lo si desume da tutto ciò che sta dicendo, questo essere per qualche cosa è anche qui, e continua a ribadirlo, l’analisi scompone gli elementi, ciascun elemento appare essere quello che è per virtù propria mentre ciascuna cosa che si incontra è sempre “per” qualche cosa, non è isolabile. Questo processo di isolamento è come se alterasse tutto completamente e renda, a questo punto, inaccessibile la questione di cui si tratta. La questione della tecnica compare qui in modo massiccio e ci conferma in qualche modo che la tecnica non è niente altro che la struttura del linguaggio: l’essere sempre per qualche cos’altro. La tecnica è essere sempre per qualcosa allo scopo di risolverlo, però, la struttura appare la stessa. Ci dobbiamo riflettere bene perché è una questione tutt’altro che semplice.
Intervento: L’essere per qualcosa…
In vista del progetto, è il progetto che determina l’obiettivo. Il progetto è un volere fare qualcosa, modificare qualcosa, quindi, sì, è una volontà di potenza. Questo Heidegger lo dice, lo vedremo in modo più chiaro quando leggeremo Essere e tempo. Il progetto, il progetto gettato, è sempre il trovarsi presi nel volere fare qualcosa, nel volere modificare qualcosa, nel volere conoscere, nel volere elaborare, manipolare, fare qualunque cosa, e quindi essere sempre presi nella volontà di potenza. Il progetto è la volontà di potenza, né più né meno, cosa che non è senza una serie notevole di implicazioni.
Affermando, noi fermiamo qualche cosa, è come se l’oggettivassimo, come se lo facessimo diventare oggetto. È per questo motivo che accosto il linguaggio alla tecnica. Parlando, nel momento in cui si afferma qualche cosa, la volontà di potenza non è niente altro che il volere che quella cosa sia quella che è, cioè, io dico una certa cosa e quello che dico è quello che è, non è un’altra cosa, questa è la volontà di potenza. Non può parlando evitare di affermare e se afferma impone a qualche cosa di essere quelle che lei vuole che sia.