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3 novembre 2021

 

Aristotele Metafisica Θ 1-3 di M. Heidegger

 

Siamo verso la fine del testo di Heidegger, dove però c’è una delle questioni più importanti. A pag. 139. Aristotele non è in grado, come non lo è stato nessuno prima di lui e come non lo sarà nessuno dopo di lui, di cogliere l’essenza propria e l’essere di quel che costituisce appunto questo tra, il tra che cade tra αίσθητόν come tale e l’αίσθηεσις come tale (tra il percepito e la percezione) di cogliere quel che di per sé compie il miracolo grazie al quale, benché ci si riferisca all’ente nella sua autonomia, questa autonomia non scompare a causa di tale rapporto, ma anzi a chi lo stabilisca è data la possibilità di assicurarsi secondo verità proprio di quell’autonomia. Perché questo avvenga, però, dobbiamo avere la possibilità di comprendere qualcosa come realmente accessibile, anche se e proprio se la cosa accessibile è accessibile come qualcosa che può essere in un certo modo, come qualcosa che può venir percepito. (È questa la possibile appartenenza dell’ente al mondo; solo in questa appartenenza l’ente “diviene”, producendosi come qualcosa che anche prima di essere percepito non era un nulla). L’indipendenza delle cose accessibili da noi uomini non viene lesa dal fatto che proprio questa indipendenza sia possibile come tale solo se esistono gli uomini. L’essere-in-sé delle cose non diventa solo inspiegabile, ma anche completamente senza senso se l’uomo non esiste; il che non significa che le cose stesse dipendano dall’uomo. Ora, come vi dicevo, qui c’è una questione importante: questo “tra”. Cosa autorizza il passaggio da un ente a un altro? Come avviene questo passaggio? Per intendere questo può essere utile rifarsi a un’antica questione posta dai Pitagorici: il numero. I Pitagorici avevano una virtù: sono stati gli unici a chiedersi che cosa sia un numero. Se lo è chiesto anche Platone, proseguendo sulla via dei Pitagorici, ma dopo di lui nessuno si è più domandato intorno al numero. È stato utilizzato, certo, ma su che cosa sia il numero nessuno si è più posta la domanda, che ha cessato di esistere. La domanda verte intorno a questo: che cosa consente il passaggio dall’uno al due? Perché pensiamo che ci sia un passaggio dall’uno al due? I Pitagorici distinguevano tra l’idea di numero e il numero in quanto operativo, quello aritmetico, quello che si usa per fare i conti. Il numero ideale può essere pensato così: qual è la condizione per cui è possibile pensare a qualcosa come numero. I Pitagorici hanno trovato una soluzione interessante. Adesso sto dicendo delle cose che vanno al di là dei Pitagorici, però prendono lo spunto da loro. L’uno come εδος, come forma: vedo Cesare di fronte a me, ha una forma e quella forma è quella, è una, è l’uno. Questa è l’idea da cui sorge la possibilità, secondo i Pitagorici, di pensare l’uno, la forma. Vi rendete immediatamente conto che tutto ciò trova il suo άρχή, il suo inizio, il suo da dove, nell’analogia. Difatti, nei confronti di Cesare ho fatto un’analogia. L’uno è naturalmente qualcosa che si oppone a ciò che non è uno. E che cos’è che non è uno? I molti, ovviamente, e i molti sono ciò che si oppone all’uno. In prima istanza i molti rappresentano per i Pitagorici l’uno che si divide in due. Ecco, il due come ciò che si oppone all’uno, come il ciò che non è uno, i molti; che poi siano due o centomila miliardi è irrilevante, ma è ciò che si oppone all’uno. Quindi, abbiamo l’uno e il due, che è ciò che non è uno. Però, poi aggiungono il tre, perché tra uno e ciò che non è uno, potremmo dire alla Hegel, tra il positivo e il negativo c’è una relazione; non sono enti separati, c’è una relazione, e questa relazione è il tre. Lo diceva anche Greimas, anche se molto tempo dopo. Quindi, abbiamo l’uno, il due e il tre, ma per il momento sono solo numeri ideali. Ora, questi tre elementi costituiscono un nucleo, un qualche cosa. Questo qualche cosa, formato dall’uno, dal due, che è ciò che si oppone all’uno, e dalla relazione tra i due, tutto questo è un’altra cosa, è il quattro. Ora, 1+2+3+4 dà come risultato 10, e per i Pitagorici questo 10 è il limite del numero, non si va oltre; sì, ci sono multipli di 10, ma è il 10 che importa. Il 10 non è altro che la somma di questi quattro numeri che sono i numeri ideali. Chiaramente, che siano numeri ideali significa che non possono essere utilizzati per le operazioni, cioè, non posso sommare la relazione tra l’uno e il non-uno, non li posso usare. A questo punto ho la possibilità di incominciare a pensare all’uno, al due, al tre, al quattro, al dieci. Cosa mi dice tutto ciò? Mi dice che questi molti incominciano a prendere forma. Potevo definire inizialmente il numero, come prima definizione approssimativa, come un “quanto di grandezza”. Ora, questi molti (due o centomila, è la stessa cosa) sono un conto. Quanto molti? Per esempio, sette: è un quanto. Quindi, il numero, pensato come un quanto di grandezza, è ciò che rende conto ciascuna volta, determinandolo, di quanti molti si tratta, come facevano anticamente, dove erano tutti uno: p.es. 1+1+1+1+1+1+1 fino a 7; poi si sono abbreviati fino ad oggi, ma era sempre l’uno che diventava molti. Questo dà l’avvio in un certo qual modo a una teoria del numero che ci dice che cos’è il numero, non operativamente ma ontologicamente. Questo risponde alla domanda “che cos’è un numero?”: dicendo che il numero è un quanto, una quantità, parliamo, sì, di un numero che poi diventa anche operativo, ma soprattutto di un numero ideale, di un numero di cui possiamo pensare la possibilità di pensarlo. Queste riflessioni ci fanno considerare ancora che tutta la matematica non è altro che una relazione tra l’uno e i molti, cioè, questi quanti sono determinati dalla relazione tra loro. E qui c’è una questione che è decisiva perché si è sempre pensato che tra un numero e l’altro ci sia una sorta di passaggio, che è stato concepito inizialmente come una sorta di linea e bisogna andare da un punto a un altro, ma già Zenone aveva detto che questo percorso non è percorribile. La stessa teoria matematica, quella del calcolo infinitesimale, per esempio, dice la stessa cosa in fondo, anche se la risolve come fanno in matematici che a un certo punto si stufano e tagliano corto. Se la questione viene presa come un passare da un elemento a un altro, allora sì che c’è il problema. È il problema dei limiti, della x che tende a 1, ma se x tende a 1 non sarà mai 1, perché o tende a 1 o è 1, finché tende non lo è. Ma, e qui c’è la questione che ci interessa di più rispetto alla teoria del numero, se non si tratta di un passaggio da un elemento all’altro. Il tre, per esempio, è già presente nel due, è già presente nell’uno, è già presente nel quattro, è già presente nel centomila miliardi, è già presente perché questi numeri sono originariamente numeri ideali. E, allora, se il tre è già presente nel due non c’è più nessun passaggio dal due al tre, non devo compiere quel tragitto che già Zenone aveva detto che non era possibile compiere, né devo compiere chissà quali artifici o diavolerie per aggirare il problema, perché il problema non c’è, il tre è già presente, è già lì nel due, e il due è fatto anche del tre. Questo è un altro modo per intendere ciò che diceva de Saussure rispetto al significante: il significante non è che una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, che devono esserci già lì perché quel significante ci sia. Voglio dire che perché ci sia il tre ci deve essere già il due, ci deve essere il quattro, ci deve già essere tutto, ci deve essere già tutta l’aritmetica. Una volta che ho pensato l’uno e i molti ho già pensato l’intera matematica, in questo caso l’aritmetica. L’ho già pensata tutta, si tratta solo di definirne i dettagli. A questo punto la teoria del numero diventa una cosa interessante perché non è altro che la riproposizione di ciò che avviene nel linguaggio. È chiaro che non può essere pensata una teoria del numero in questi termini senza avere inteso la questione del linguaggio, e cioè del positivo e del negativo che non costituiscono due punti tali per cui dall’uno si passa all’altro. Ancora in Hegel c’è questo modo di pensare: si passa dall’uno altro, poi si ritorna, come se fosse un viaggio. Non è proprio così, perché il positivo “è” il negativo e il negativo “è” il positivo. Come dire che il due, per essere due, deve essere anche necessariamente il tre, l’uno, il quattro, il cento, il mille, ecc., perché se non fosse anche questi numeri il due non ci sarebbe, né avrebbe ragione di esistere.

Intervento: Anche perché nella matematica, come nella logica, si usa a piene mani l’induzione. Non è una cosa distinta dal linguaggio.

Assolutamente no. Infatti, come evidenzia la matematica, non ha né può avere un fondamento matematico. Questo i Pitagorici lo avevano capito: il fondamento non è matematico, è ontologico. L’operatività è una tecnica, messa in atto nel momento in cui si incomincia a potere pensare i numeri e si incomincia a poterli pensare nel momento in cui si avverte l’εδος, la forma, che è una; ma questa forma, che è una, è debitrice del fatto che si staglia sulle altre, è un rapporto differenziale, sennò non c’è neanche quella forma. È questo il significato che si attribuisce a questa affermazione che, per esempio, il positivo “è” il negativo, simultaneamente, perché se non lo fosse non ci sarebbe neppure il positivo. È chiaro che poi l’aritmetica ha potuto proseguire con una certa rapidità nel momento in cui con Fibonacci sono state tradotte in Europa le cifre cosiddette arabe, intorno al XI-XII secolo. Ci sono poi voluti un po’ di secoli prima che divenissero di uso comune e allora, a quel punto, l’aritmetica e poi l’algebra hanno potuto muoversi più agevolmente. L’algebra è un sistema tale per cui a un gruppo di numeri si sostituisce una lettera, che è anche quello che fa la logica formale, cioè, a un enunciato o a un gruppo di proposizioni sostituisce una lettera, utilizzandola in base a delle regole prestabilite. In tutto questo è interessante il problema del tra: che cosa c’è tra l’uno e il due? L’infinito attuale, per esempio. Certo, ma anche questo infinito attuale posso certamente mettercelo, ma non è necessario perché in ciascun numero ci sono già tutti gli altri. È così anche per il significante: in un significante devono esserci tutti gli altri significanti, sennò non c’è neanche lui. Per il numero è esattamente la stessa cosa. È a questo punto che i numeri vengono utilizzati per fare certi calcoli che con i numeri romani, ad esempio, era più difficile fare di conto. Tutto questo per dire che attraverso la questione dei numeri dei Pitagorici, in effetti, si coglie la questione direi quasi nucleare, il cuore del linguaggio, per cui ciascun elemento che interviene, che si dice, è anche ciò che quell’elemento non è; per potere essere quello che è deve essere anche ciò che non è. Hegel ha costruito la sua dialettica su questo, anche se, come dicevo prima, permane in Hegel questa ambivalenza, sembra quasi che ci sia un passaggio – si va da una parte, poi si torna indietro – come se si trattasse di muoversi tra punti. No, non c’è movimento tra punti, il movimento, quello che Aristotele chiamava μεταβολή, è un movimento di qualche cosa che è quello che è perché non è quello che non è. È solo a questo punto che la questione diventa radicale e si intende effettivamente la questione del linguaggio, e cioè che per potere dire occorre che ciascun elemento, che viene detto, sia quello che è e sia ciò che non è, deve essere entrambe le cose. È, in effetti, curioso che dopo i Pitagorici, a parte Platone, il problema del numero non sia mai stata più affrontata da nessuno; non dell’utilizzo del numero ma del numero posto in termini ontologici, e cioè la domanda “che cos’è il numero?”, la domanda intorno all’essere del numero. Abbiamo visto che per Aristotele l’essere non è nient’altro che l’entelechia, la sostanza. L’entelechia è l’atto, è l’atto che per Aristotele comprende anche la δύναμις. È l’atto, ma è l’atto di parola, non c’è un altro atto. Quindi, la domanda ontologica intorno al numero non è altro che la domanda intorno alla pensabilità del numero: che cosa rende possibile pensare qualcosa come un numero? In fondo, è la stessa domanda: che cosa rende possibile pensare un atto di parola? Che cos’è che lo rende possibile? Il fatto che l’atto di parola è già nel linguaggio, è già tutto presente nel linguaggio, perché il linguaggio per funzionare ha questa necessità che sia tutto presente; poi, come dicevamo tempo fa, posso non vederlo, non coglierlo, ma deve essere presente; se non lo fosse allora qualcosa sarebbe fuori dal linguaggio, nel qual caso non avrei mai alcun accesso. Ho trovato interessante nei Pitagorici la questione che l’idea del numero venga dalla forma, dall’εδος. Questo è molto greco: la prima cosa che appare è la forma e la forma è quella, non è un’altra, ma è anche l’altra, perché se non ci fosse l’altra non ci sarebbe neppure questa. L’interrogazione intorno a numero nei Pitagorici ha posto l’accento su qualcosa di radicale rispetto al linguaggio, proprio perché è questo tra che ha costituito una sorta di dannazione per gli umani: che cosa consente il passaggio da un ente a un altro o da un numero a un altro? Che cosa mi autorizza a passare da uno all’altro? Cosa rende possibile questo passaggio? Se posta così non ha soluzione, aveva visto benissimo Zenone. Ma la questione non è posta così, non c’è passaggio; quell’altro elemento, cui si dovrebbe giungere, è già qui; quindi, non c’è nessun percorso da compiere e, pertanto, nessun infinito attuale e neanche quello potenziale. Soltanto una riflessione ontologica poteva intendere il numero in quanto tale; torno a dire, non la sua operatività, quella segue una volta che il numero è diventato pensabile. Detto questo, ci sono ancora alcune cose che possiamo considerare. A pag. 144. Qui parla Aristotele, che ce l’ha con i Megarici, che negano il movimento. Fanno bene i Megarici se si intende il movimento come un passare da un punto a un altro, e gli eleati, come Zenone, erano perfettamente autorizzati a dire che questo movimento non c’è. Non c’è nel senso che non è concettualizzabile, dove non concettualizzabile vuol dire che non è determinabile. Se non lo posso determinare, di che cosa sto parlando? Tutta la questione si “risolve” pensando che c’è il movimento dal punto A al punto B, solo che A e B sono la stessa cosa. “Sempre, allora, tanto quelli che sono in piedi resteranno in piedi… Ricordate che i Megarici dicevano che la δύναμις, la potenza, non c’è nel momento in cui c’è l’atto, perché l’atto cancella la potenza. …quanto quelli che sono seduti restano seduti; se si sonno seduti, allora non si alzeranno; nulla ha infatti capacità di far sì che si alzi quel che non ha affatto la capacità di alzarsi”. La questione è che i Megarici, insieme agli eleati, e Aristotele stanno facendo due discorsi completamente diversi. Aristotele, come si è trovato a fare spesso, se la prende con qualcuno immaginando che questo qualcuno dica cose che in realtà non gli appartengono. Lo abbiamo visto anche con Protagora: gli attribuisce cose che Protagora non ha mai affermato. Prosegue Heidegger. Dopo quanto detto finora, questo esempio non ha più bisogno di alcuna spiegazione: tra lo stare in piedi e lo stare seduto vi sono i modi del passaggio, ossia il sedersi e l’alzarsi. E più esattamente: i modi del passaggio non stanno in mezzo agli altri due fenomeni come una pietra sta in mezzo ad altre pietre; infatti, lo star seduto è un essersi seduto e lo stare in piedi è un essersi alzato; il passaggio fa parte di questi due fenomeni come ciò attraverso cui essi, ogni volta in modo diverso, devono essere passati o attraverso cui passeranno. L’aver-capacità-di è, nella sua realtà più propria, parallelamente determinato da questo fenomeno del passaggio. Bisogna notare che questo esempio viene ripreso una seconda volta per la discussione positiva del problema conduttore, senza tenere conto dell’uso che se ne fa a partire dal sesto capitolo. Qui è di nuovo Aristotele che parla. “Se ora non si tratta di sostenere queste proposizioni, allora in questo modo si scoprirà che capacità ed esser-all’opera sono (una rispetto all’altro) qualcosa di diverso; quelle proposizioni invece fanno delle due cose, della capacità e dell’esser-all’opera, una stessa e identica cosa, e non è quindi cosa da poco quella che tentano di eliminare.” Vedete che qui il discorso che fanno gli eleati, lasciamo stare i Megarici, è che non c’è il movimento perché non posso concettualizzarlo, ma non è che non posso vederlo. Questo che cosa significa? Significa che questa idea di δύναμις e ένέργεια risente ancora dell’idea di un passaggio dalla potenza all’atto, mentre lo stesso Aristotele, in più di un passo della Metafisica, si accorge che non c’è l’uno senza l’altro; infatti, lo dice: non c’è la materia senza la forma, non c’è la potenza senza l’atto. Certo, che non c’è l’uno senza l’altro, ma la cosa va ripresa in termini più radicali, nel senso che l’uno è anche l’altro, oltre a essere sé è necessariamente anche l’altro. Aristotele si accorge che se tolgo la forma non c’è più neanche la materia, se ne accorge ma non ne coglie tutte le conseguenze, devastanti naturalmente, perché a questo punto dire che non c’è movimento significa soltanto che non posso concettualizzare il movimento da un punto a un altro, posso pensarlo ma non lo posso concettualizzare, non lo posso determinare. Questo significa che posso parlare del movimento ma, di fatto, parlo di qualche cosa che propriamente non ha uno suo statuto. Quindi, a che cosa serve questo movimento? È ciò che chiamiamo questa cosa che vediamo continuamente. Certo, muovo una matita e chiamo questo movimento, ma per potere pensare il movimento occorre un concetto che, diciamola così, che neghi il movimento, che lo renda impossibile. Mi spiego. Per potere pensare il movimento occorre che io separi la δύναμις dall’ένέργεια in modo da potere compiere questo percorso; ma se separo, del tutto arbitrariamente, la δύναμις dall’ένέργεια, allora tolgo ad entrambe la loro prerogativa, che è quella di essere in relazione. Che cosa vuol dire che sono in relazione? Che l’uno è la condizione di esistenza dell’altro, e viceversa, cosa che Aristotele coglie quando parla di forma e di materia, la materia non c’è se non è in una forma. Ancora: per potere parlare del movimento devo fermarlo. Questo chiamiamolo paradosso, che è in fondo il paradosso della freccia di Zenone: per parlare del movimento della freccia devo fermare la freccia, devo pensare che la freccia in ciascun istante occupi uno spazio e quello spazio è quello e non un altro, quindi, è lì, è ferma. In altri termini ancora, per pensare il movimento, il movimento non deve esistere, non deve esistere da solo. Il paradosso di Zenone è proprio questo: per pensare il movimento devo fermarlo, cioè, devo toglierlo, devo cancellarlo; finché non lo tolgo, finché non lo cancello, non lo posso pensare. Quindi, torniamo alla questione di prima, e cioè al fatto che per potere pensare un numero devo, anche se può apparire strano, cancellare il numero, il numero in quanto operatore: non devo più considerarlo come un operatore ma considerarlo ontologicamente, e cioè come l’insieme di condizioni della sua pensabilità. Il numero in quanto operatore opera lungo una catena, lungo uno spazio: 1+1+1+1+1+1, ecc. Devo cancellare il numero, così come lo si intende comunemente, se voglio pensare il numero. Se penso il numero lo fermo, lo fisso e, quindi, non è più in una successione, il numero non è più il successore di un altro numero, come voleva Peano. Pensate a Peano e ai Pitagorici. Peano dice “Numero es classe”, il primo dei suoi cinque assiomi. Perché numero es classe? Chi glielo ha detto? E poi che cosa vuol dire che è una classe? Lui non dice che cosa sia una classe, perché? Perché è un’idea primitiva, cioè, non ulteriormente interrogabile, non ulteriormente scomponibile, determinabile. No, non è così, perché i Pitagorici hanno invece interrogato proprio questo. Certo, Peano voleva costruire la sua aritmetica senza ricorrere all’ontologia, cioè, senza chiedersi che cosa fosse un numero; semplicemente ha detto che “Numero es classe”, “Zero è un numero, se A è un numero allora il successore di A è un altro numero…”. Va bene, ma un numero che cosa è esattamente? Una classe, ma classe di che? Non si sa, è un’idea primitiva. Il che fa ricordare le parole di Aristotele, il quale diceva che non dovete interrogare il principio di non contraddizione, lasciate stare. E, invece, si può e si deve interrogare, per giungere a intendere che il principio di non contraddizione non è altro che una variante dell’analogia. Così come la retorica: tutte le figure retoriche sono fondate sull’analogia, la retorica è un’enorme analogia. È per questo che è efficace ed è efficace perché l’analogia è ciò che ciascuno può comprendere, come l’esempio da cui siamo partiti “Cesare ha una forma”, che è quella e non un’altra, è l’uno. Peano, in realtà, non è andato da nessuna parte, ha imposto cinque assiomi, cinque ipostasi, cioè, cinque affermazioni che lui pone senza alcuna argomentazione. Che poi sia operativo, questo va bene, perché da lì poi si possono costruire tutta una serie di giochi più o meno divertenti. Infatti, Peano piacque moltissimo a Russell; durante un convegno in cui Peano espose il suo sistema, Russell ne fu entusiasta, non c’era da chiedersi niente, era già tutto lì: il numero è questo e accontentati. I Pitagorici no, non si accontentarono, ma hanno inteso che per capire che cos’è un numero non posso utilizzare i numeri, se ancora devo sapere che cos’è un numero. Come faccio a dire che cos’è un numero utilizzando i numeri, se è quello che devo ancora capire? Ecco che allora si parte dall’εδος, da un’analogia, non possiamo partire da nient’altro; il linguaggio è una serie di analogie, funziona così. Passiamo a un’altra questione che riguarda la volontà di potenza. A pag. 150. Qui cita Aristotele. “Nella realtà, però, capace è ciò per il quale non resti più nulla di non eseguibile quando si sia messo al lavoro in base a quel che questo lavoro richiede.” A pag. 151. Ma è nel terzo momento che si tratta di comprendere correttamente l’ ούδέν σται άδύνατον. Lo si deve comprendere in modo che resti riferito all’ένέργεια; il suo significato è: è accessibile come alcunché di pienamente e realmente in-condizione-di solo quel che quando entra in esercizio non deve lasciare nulla di non eseguito. Qui c’è qualcosa di notevole. Sta dicendo che la capacità di fare qualcosa è pienamente capacità di fare qualcosa quando è eseguita pienamente, cioè, quando non resta più nulla da fare. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la potenza ha raggiunto pienamente il suo τέλος quando è perfettamente controllabile, dominabile, conoscibile, perché non rimane fuori niente, è tutto lì. Come si ripercuote questo nel dire di ciascuno, in ciascun momento della sua esistenza? Che ogni volta che dice qualche cosa pensa aristotelicamente che il suo poter dire quella cosa si compie nella misura in cui il suo dire esaurisce tutto ciò che può dirsi di quella cosa e non c’è altro da dire: ho detto tutto. Naturalmente, non è così, ma l’idea è che questa cosa che io ho da dire, questa δύναμις, questa potenza – usiamo questi termini tirandoli un po’ per i capelli – del mio dire qualcosa, si compie nel momento in cui il mio dire diventa tutto il dicibile rispetto a ciò che il mio dire può dire rispetto a quella cosa particolare. Da qui l’idea che qualcuno, quando afferma qualche cosa, immagini che affermando quella cosa abbia detto tutto ciò che c’è da dire e, quindi, non resta altro e non tollera che qualcuno lo metta in discussione. È tutto lì, che altro c’è da discutere? Certo, si può eventualmente discutere sui dettagli ma la cosa importante è stata detta tutta. A pag. 151. Qui è Aristotele che parla. “È così che intendo la cosa: se uno è capace di sedersi, in modo cioè che può assumere su di sé il sedersi, allora per lui, quando sia il momento di sedersi, nulla resterà non eseguito. E la stessa cosa vale anche per quel che è capace di esser mosso o di mettere in movimento, di star fermo o di far sì che qualcosa stia fermo, di essere o di divenire, di non essere o di non divenire.” Come dire che il divenire è pienamente compiuto quando diventa essere. Il che non è del tutto errato, ma ciò che forse avete notato qui è che in Aristotele si tratta ancora di un percorso, di un passaggio, di un giungere da una cosa a un’altra cosa, che quindi non è già qui, perché non ci sarebbe in caso contrario bisogno di compiere alcun percorso. E, infatti, non c’è nessun percorso da compiere, c’è da accogliere qualche cosa, da accogliere il fatto che sono nel linguaggio, che sono quello che sto dicendo; accorgendomi che sono linguaggio incomincio a pensare l’unica cosa che è da pensare, e cioè che sono linguaggio o, come direbbe Aristotele, essere Dio, cioè, il pensiero che pensa se stesso, come l’unica cosa da pensare. Perché non viene pensata? Nessuno la pensa perché ciascuno è continuamente attratto da infiniti enti, ciascuno è circondato da enti. E questi enti chiedono di essere dominati, cioè, chiedono di esercitare la volontà di potenza su cose assolutamente irrilevanti rispetto al pensiero che pensa se stesso, però offrono questo contentino, danno l’opportunità di potere esercitare continuamente e facilmente la propria volontà di potenza. Nel pensiero che pensa se stesso, invece, la volontà di potenza è messa alla prova, a dura prova, perché le cose diventano molto complesse. Questa idea che la potenza debba, attraverso un percorso, diventare tutto ciò che può diventare, cosa che è presente ancora in Nietzsche: diventa ciò che sei, cioè, diventa tutto ciò che puoi diventare. Ciò che invece sta dicendo Aristotele qua e là, e che i Pitagorici dicono in modo ancora più preciso, è che tu sei già queste cose, devi accoglierle, ma per poterle accogliere occorre incominciare a cessare di essere sedotti da tutti gli infiniti enti che ci circondano e che offrono sempre quel contentino.

Mercoledì prossimo incominceremo la lettura di questo libro di Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, la sapienza esoterica, riservata ai discepoli. Poi leggeremo due dialoghi di Platone, il Parmenide, con a fianco il Commentario di Porfirio; leggeremo poi l’altro dialogo, il Sofista. Dopo il Sofista leggeremo le considerazioni di Heidegger che, come sappiamo, ha questa virtù: riesce sempre a darci delle nuove cose da pensare, a farci cogliere cose che magari non si erano viste, notate, facendo rampollare nuove idee. Il programma poi prosegue con la lettura del Diels-Kranz, tutto, a tappeto, perché lì c’è ancora qualche cosa, un po’ come in Platone. Si tratta di partire, un po’ come fa Diels-Kranz, che parte dagli orfici, da Epimenide, dai pre-presocratici, per intendere come tutto sia nato dal discorso religioso, che in fondo è quella separazione, è quel tra di cui parlavamo prima che la religione tiene separato. Il discorso religioso è il discorso comune, oggi più che mai. Lì si possono reperire le tracce di questo percorso, di come il discorso religioso si sia consolidato e sia diventato il pensiero.