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3 ottobre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo a pag. 166, Capitolo 25, Determinazione della posizione dell’essere. Sappiamo oramai che cos’è l’essere per Severino, è l’immediato, ciò che non ha mediazione da parte di altro, ciò che è immediatamente evidente, ciò che non può non essere, quindi, il principio di non contraddizione. Secondo un’altra sua formulazione, l’essere è l’esser sé dell’essente e il non potere essere altro se non esser sé. La negazione dell’essere è (immediatamente) tolta perché l’essere è lo stesso fondamento dell’affermazione che lo pone. Questa è un’argomentazione frequente in Severino, cioè, l’immediatezza dell’essere appare nel momento in cui questo essere non è altro che il fondamento di qualunque cosa io voglia porre. Qualunque affermazione io faccia, questa affermazione afferma qualche cosa, dice che cosa è qualche cosa. Non posso fare un’affermazione senza l’essere. Come dire, se affermo qualcosa, affermando una qualunque cosa, affermo necessariamente, e direi “automaticamente”, l’essere. Ciò significa che la negazione dell’essere è tolta nella misura in cui nega l’essere che è a fondamento dell’affermazione che lo pone… La negazione di questa cosa, cioè, del fatto che l’essere è quello che è e non può togliersi, viene tolta nel momento in cui, affermando qualche cosa, affermo necessariamente l’essere. Se negassi l’essere negherei al contempo anche quell’affermazione attraverso la quale nego l’essere. O, che è il medesimo, l’essere è, nella misura in cui è un tale fondamento dell’affermazione che lo pone… L’essere è il fondamento dell’affermazione, ma qualunque affermazione lo pone; quindi, l’essere è il fondamento di qualunque affermazione. Andiamo avanti. Molte cose non ci interessano direttamente. Lui fa moltissime dimostrazioni logiche che però, al punto in cui siamo, per quanto ci riguarda lasciano un po’ il tempo che trovano. Sono argomentazioni logiche che dovrebbero concludere con un’affermazione che dice come stanno le cose, perché sennò la logica non serve a niente; oggi serve a questo, altrimenti si può buttare via tutto. Si può, in effetti, buttare via non tutto, tenendo ciò che ci serve per continuare a parlare, ma di sicuro non ci serve per credere che ciò a cui giunge questa serie di argomentazioni sia lo stato delle cose; questo sicuramente no. È nella migliore delle cose uno degli stati possibili delle cose, cioè, non è impossibile che sia anche così; questo è il massimo che possiamo affermare. Questo libro è stato uno dei primi scritti importati che ha scritto, qui c’è la sua teoria e tutto il resto segue a questo. Qualunque altro suo libro in qualche modo è un proseguimento, non tanto teorico, perché in effetti la sua teoria è già tutta qui, ma un proseguimento nel senso che utilizza queste cose per applicarle ora a questo ora a quest’altro. Aveva, quindi, bisogno con questo libro di dimostrare che le cose stavano proprio così come diceva lui. È un’affermazione sicuramente impegnativa ma soprattutto problematica, perché presuppone che alla fine della catena di argomentazioni si giunga a mostrare come stanno le cose, che le cose stanno proprio così. È questo che lui vuole fare. Ciò che invece a noi interessa è qualcosa di diverso, non tanto le sue argomentazioni per dimostrare che le cose stanno così come dice lui; anche perché, come sappiamo, qualunque tipo di argomentazione è sempre discutibile. Anzi, più è complessa e più è discutibile, più ci sono passaggi e più c’è la possibilità che qualche passaggio offra il fianco a qualche obiezione. Invece, come dicevamo, ciò che a noi interessa è quello che lui dice, il più delle volte senza neanche avere questa intenzione, riguardo al funzionamento del linguaggio, perché tutto ciò che dice riguardo al principio di non contraddizione è qualcosa che attiene al modo in cui il linguaggio funziona. È importante - difatti mi ci sono soffermato e lo riprenderemo ancora perché una delle cose più importanti, peraltro già presente in Heidegger - l’esempio della lampada sul tavolo, come dire ciò che io colgo di una qualunque cosa e, quindi, soprattutto di un’affermazione, che è esattamente come quella proposizione che dice “questa lampada che è sul tavolo”, la quale peraltro è una proposizione, non è una manifestazione visiva, magari c’è anche quella, ma se c’è segue a quella possibilità della proposizione che afferma “questa lampada che è sul tavolo”, perché, come dicevamo, per un bruco non c’è nessuna lampada sul tavolo. Questa è una cosa che a Severino sfugge; primo, perché questo è il suo obiettivo, che è di mostrare che lui ha ragione, come accade; secondo, è la tesi parmenidea, che l’essere è e non può non essere. La questione del linguaggio c’è tra le righe, però, la cogliamo noi perché lui non è particolarmente interessato a questo. Però, dicevo che, riguardo all’esempio che faceva della lampada sul tavolo, è una proposizione, come una qualunque altra proposizione, che va considerata, come dice lui, concretamente, va presa nel concreto, come quella proposizione, non come una proposizione che è composta di singoli elementi che, dice giustamente, è un’astrazione. Se io considero la lampada in quanto tale la astraggo da questa proposizione che dice che la lampada è sul tavolo, e cioè pone la relazione tra questi termini, tra questi elementi, come qualcosa di originario e di prioritario rispetto agli elementi. Non è poi così lontano da quello che diceva Verdiglione - la relazione originaria, il due della relazione è originario - solo che in Verdiglione non c’era nessuna argomentazione. Quanto meno, qui c’è un’argomentazione, che viene peraltro, come si diceva, da Heidegger. Ecco, quindi, questa relazione non è la somma degli elementi ma è un’altra cosa, perché questa lampada che è sul tavolo non è semplicemente la lampada ma è questa lampada che è sul tavolo, che è un’altra cosa. Come dire, all’interno di questa relazione, del concreto, come dice lui, solo in questo caso mi appare questa lampada che è sul tavolo nel modo in cui è di fatto questa lampada che è sul tavolo. Questo è importante in qualunque affermazione, in qualunque proposizione. C’è qui un aggancio quasi immediato con la questione psicoanalitica, e cioè il fatto che ciascuna affermazione, ciascuna proposizione, che interviene in un discorso va intesa come il concreto, cioè come un qualche cosa tale per cui ciascun elemento è quello che è ma all’interno di quella proposizione particolare. Se io astraggo un elemento cambia tutto, non ho più quella proposizione. Per estensione, potremmo anche dire che una qualunque affermazione - la questione, però, qui si fa più complessa ma in un certo qual modo è la stessa – qualunque affermazione non può essere tolta dal concreto delle fantasie che l’hanno prodotta e che la supportano. Vale a dire, qualunque affermazione è il prodotto di fantasie. Esattamente così come qualunque elemento di una proposizione è il prodotto della relazione con gli altri elementi, per estensione questa stessa proposizione è il prodotto di relazioni con altre proposizioni. Che cosa costituiscono queste altre proposizioni? Di sicuro non dati di fatto ma fantasie. Questa questione delle fantasie è, sì, presente in Freud, però, avrebbe forse dovuto affrontarla in modo più radicale, in modo più determinato.

Intervento: Potrebbe dire due parole in più rispetto a questo aggancio con la psicoanalisi?

La psicoanalisi coglie in qualcosa che si dice non tanto il contenuto di quella cosa, anche, certo, ma in che modo questa cosa che si dice è in connessione con altre cose che non si stanno dicendo in quel momento ma che, tuttavia, costituiscono il supporto, anzi, la condizione perché quella cosa si dica in quel modo, in questo momento. In questo senso parlavo di connessione con la psicoanalisi. In effetti, la portata più importante, più interessante, della psicoanalisi è proprio questa: qualunque cosa si dica si dice perché è il prodotto di un’infinità di altre cose che sono presenti, e che sono presenti perché la fanno dire in questo momento e nel modo in cui si dice. Lo stesso Heidegger lo diceva: non posso isolare un elemento dal mondo, che io sono, dalla mia storicità. Ognuno la dice come gli pare, naturalmente, però, tutte queste cose è come si rivolgessero a una stessa cosa, e questa stessa cosa è il fatto che ciascuna cosa, se è qualcosa, è perché è in relazione con altre cose. Questo è fondamentale. Tutto ciò che ci dice qui Severino va anche in questa direzione perché per lui è importante considerare che quella proposizione “questa lampada che è sul tavolo” è quella che è, ma nel concreto, cioè come un tutto e non come la somma di elementi, come fa la filosofia analitica, che scompone e poi verifica tutti i termini singolarmente, ma quello che ne viene fuori non c’entra più niente con la proposizione che dice che questa lampada è sul tavolo, che è un’altra cosa. siamo a pag. 171, capitolo 30, Analiticità del giudizio originario. Il giudizio originario non può che essere analitico per Severino, analitico nel senso di Kant, naturalmente, cioè un qualche cosa che è immediato, il giudizio analitico è l’immediato, cioè che non è mediato da altro. La conoscenza del tempo e dello spazio, per Kant, non è mediata da qualche altra cosa, non c’è qualche cosa prima che ci consente di sapere cos’è il tempo, lo sappiamo e basta. Per Kant è un giudizio analitico a priori. Il modo di formulazione del giudizio originario rende esplicito che l’immediatezza dell’immediato resta inclusa nell’atto stesso in cui l’essere è posto come l’immediato. Nell’atto stesso in cui pongo l’essere come l’immediato, questo mi rende esplicita l’immediatezza stessa, cioè, l’essere che si pone è l’immediato, non è mediato da nulla, e questo mi dice che questo stesso essere immediato è l’essere stesso; l’essere e l’immediato sono la stessa cosa. “La totalità dell’essere immediatamente presente è l’immediato” significa che nella totalità dell’essere che è per sé noto… L’essere è sempre per sé noto. Perché è per sé noto? Perché è l’immediato, se fosse mediato non sarebbe per sé noto ma sarebbe noto per altro. …è immediatamente incuso il suo essere per sé noto… Perché fa tutti questi giri? Non ci sarebbe bisogno ma per lui c’è bisogno perché sta dicendo che questa immediatezza dell’essere per sé noto non è un qualche cosa che si aggiunge all’essere ma è incluso, cioè sono la stessa cosa, il medesimo. Avete inteso che è sempre la stessa questione che si ripete, (A=B) = (B=A), è la stessa cosa, cioè, lui parla di inclusione, cioè, non sono disgiungibili le due cose, non posso astrarre una cosa dal concreto. Certo, lo posso fare ma se lo faccio, se astraggo qualcosa dal concreto, e considero la lampada, la considero sempre in quanto inclusa nel concreto. Se, invece, lui dice, compio un giudizio in cui si pone l’astratto dell’astratto, allora è come se ponessi la lampada, non più come un qualcosa che è incluso nel concreto ma credo che la lampada sia di per sé. La lampada è tale perché è all’interno della proposizione che afferma “questa lampada che è sul tavolo”. Per Severino, l’astratto dell’astratto è il dimenticarsi che quella lampada è all’interno del concreto, cioè all’interno di quella proposizione, ma è prenderla per sé. A questo punto, per Severino, incominciano una serie di contraddizioni, perché l’unico modo per evitare una contraddizione è considerare il concreto, e cioè che questa lampada che è sul tavolo è il concreto, cioè un tutto, dove non posso astrarre gli elementi e considerarli a sé stanti ma devo sempre considerarli comunque all’interno di una relazione. Questa relazione è il concreto, è l’essere, di fatto. Questa formulazione è dettata dalla necessità dell’inclusione dell’immediatezza dell’immediato nell’immediato: nell’atto stesso in cui l’essere è posto come l’immediato… Io pongo l’essere come l’immediato, cioè non lo faccio derivare da qualche altra cosa, ma pongo lui come l’immediato. Qui si potrebbe anche dire che questo problema ci fa gioco perché lui tenta di risolvere le aporie sempre allo stesso modo, facendo le sue parentesi, che poi alla fine diventano mille, ma la questione è che è una decisione, è un’imposizione, un atto di forza, un atto di volontà, cioè io pongo che è così. Ma quello che a noi interessa è che è inevitabile che io lo ponga così. Il fatto che l’essere sia l’immediato sono io che lo pongo. Perché lo pongo? Per Severino, per evitare una contraddizione; per lui è fondamentale evitare una contraddizione, perché se una proposizione è autocontraddittoria è nulla, non è utilizzabile. Qui ci richiama a Heidegger: la cosa, per essere utilizzabile, deve essere quello che è, non può essere quello che è ma anche non essere quello che è. Quindi, c’è un atto di volontà, volontà di potenza, che mi costringe in un certo senso a porre l’essere come l’immediato. Questo non posso dimostrarlo; per dimostrarlo mi troverei in una situazione paradossale perché per dimostrare l’immediatezza dell’essere potrei farlo o semplicemente enunciandola, cioè imponendola, oppure utilizzando un’altra cosa, per dimostrare quell’altra, ma allora l’immediatezza dell’essere non è più immediatezza ma è mediata da quest’altra argomentazione. Questa è un’aporia che non ha soluzione. Sarebbe un po’ come uscire dal linguaggio: per dimostrare che una cosa è fatta in un certo modo, se esco dal linguaggio, con che cosa lo faccio? Qui interviene Nietzsche con tutta la sua potenza, potenza sia nel senso di potenza di pensiero, sia nel senso di volontà di potenza, e cioè è un mio atto di forza affermare che questa cosa è quella che è, come dicevamo anche tempo fa, per poterla utilizzare. A questo mi serve il principio di contraddizione: per potere utilizzare quello che affermo, altrimenti, non lo posso utilizzare. Severino probabilmente si accorge di una cosa del genere e si arrampica sugli specchi in modo inverosimile, però la questione rimane, cioè o lo pongo come un atto di forza, per cui “è così”, però, lui direbbe – facciamo finta che qui ci sia Severino – sì, certo, è un atto di forza, però se non lo faccio allora quella cosa non è più quella che è, e se non è quella che è non la posso utilizzare; quindi, è necessario che sia così, non è una mia volontà. Pertanto, non è neanche una volontà di potenza, perché la volontà di potenza prevede l’eventualità che possa non essere così ma io impongo che sia così. Ma, direbbe Severino, non può non essere così perché, altrimenti, se non fosse quella che è, non sarebbe questa cosa. Questa è l’argomentazione che probabilmente Severino ci opporrebbe. La questione è sottile, però, ci sta all’interno delle sottigliezze di Severino, per cui si può porre. Noi potremmo obiettare a Severino, ma, allora, tutto questo non ci dice altro, non che questo deve essere necessariamente quello che è, come ci ha spiegato poco fa, ma ci dice che questo deve essere quello che è perché il linguaggio funzioni. Quindi, è un qualche cosa che è necessario al funzionamento del linguaggio. A pag. 172, capitolo 31, Note. È ormai comunemente affermato che la posizione… Ricordate che la posizione è l’apparire della cosa, il fenomeno. …la posizione dell’immediatezza del pensiero trova la sua prima asserzione esplicita nella filosofia di Cartesio. Il che non vuole essere qui contestato. Solo si avverta – e anche questa avvertenza raccoglie ormai larghi consensi – che per Cartesio il termine “pensiero” vale – allorché il pensiero è posto come l’immediato – come il lato semplicemente “soggettivo” e “ideale” del pensare. Per Cartesio il pensiero è, sì, l’immediato, quello che penso è ciò che sto pensando in questo istante, però, per Cartesio, è l’aspetto soggettivo, ideale. Onde, sul piano dell’immediatezza, la certezza è tenuta distinta dalla verità, o l’essere è presupposto come un’ulteriorità cui si tratta di accedere muovendo appunto dall’immediatezza del pensiero. Questa cosa della soggettività, ecc., non piace tanto a Severino; a lui interessa, invece, porre l’immediatezza come qualcosa che riguarda l’essere e non il soggetto, perché se riguardasse il soggetto ciò vorrebbe dire che l’essere è dipendente dal soggetto. Il toglimento della presupposizione gnoseologistica conferisce al pensiero la natura che gli è propria: unità del soggettivo e dell’oggettivo, dell’ideale e del reale; o, in termini forse meno compromessi: totalità dell’essere immediatamente presente. Col che resta anche chiaro che l’immediato è mediazione, nel senso che l’essere presente è superamento dell’astratta immediatezza di un puro essere in sé. E qui c’è una citazione da Gentile, di cui ci occuperemo più in là. Dice che l’immediato sarebbe mediazione, nel senso che questo essere presente è il superamento dell’astratta immediatezza di un puro essere in sé. Occorre presupporre un puro essere in sé che, poi, ci fa arrivare all’immediatezza, di cui parla Severino, però, c’è sempre un passaggio in questo caso. Questo superamento è quello stesso esser-per-altro (fieri aliud, estaticità, intenzionalità) in cui consiste la presenza dell’essere. La negazione di questa mediazione non è pertanto l’immediatezza della totalità dell’immediato, ma è l’astratta immediatezza di un essere non pensato, o di una presenza che non sia presenza dell’essere. Tale mediazione è cioè quella relazione tipica in cui consiste la presenza come esser-per-altro, dove l’essere di questo esser-per-altro si esaurisce nel lasciare che l’altro, l’essere, la realtà, appaia. Qui c’è una nota importante. La base storica del concetto di intenzionalità si trova soprattutto nel De anima aristotelico, dal quale prendono spunto gli ulteriori approfondimenti sia di coloro che hanno in vista esplicitamente questo concetto (scolastici, neoscolastici, Husserl, Heidegger, ecc.) sia di coloro che ne trattano solo implicitamente (idealisti, neopositivisti, ecc.) e a questa serie di indagini rimandiamo il lettore. Dice: La negazione di questa mediazione (aveva posto prima l’immediato come mediazione, nel senso che l’essere presente è superamento di un’altra cosa, cioè dell’astratta immediatezza di un puro essere in sé). Questo superamento è quello stesso esser-per-altro… qui c’è Heidegger (l’esser-per) in cui consiste la presenza dell’essere… l’essere è sempre un essere-per-altro. Però, dice, se vogliamo negare che l’immediato sia negazione… La negazione di questa mediazione non è pertanto l’immediatezza della totalità dell’immediato, che Severino vuole invece stabilire – l’immediatezza della totalità dell’immediato, cioè dell’essere in quanto essere – ma è l’astratta immediatezza di un essere non pensato, o di una presenza che non sia presenza dell’essere. Un’astratta immediatezza e, quindi, non concreta - bisogna sempre tenere conto dei termini che Severino utilizza - come dire che questa immediatezza, di fatto, non è quella che lui intende con concreto ma è un qualche cosa che viene dall’astrazione di questo concreto, come se, rispetto alla frase “questa la lampada che è sul tavolo” che è il concreto, che è l’essere – l’essere è questo, il concreto –, come se, invece, si avvertisse questa immediatezza dal fatto che io posso cogliere i singoli elementi (la lampada, il tavolo, ecc.), e quindi questo concreto, questa immediatezza sarebbe mediata da un’astrazione. Mentre per Severino sappiamo che l’immediatezza è il concreto, è ciò che non può essere in nessun modo mediato da qualche altra cosa, se è mediato c’è subito la contraddizione. A pag. 173, capitolo Terzo, L’immediatezza dell’incontraddittorietà dell’essere. È chiaro che per Severino l’incontraddittorietà dell’essere deve essere immediata, se fosse mediata cadremmo immediatamente nella contraddizione, perché in quel caso l’essere dipenderebbe da qualcos’altro e, quindi, l’essere non sarebbe l’essere ma un qualche cosa che attiene a un’altra cosa. L’essere non può venire da qualcos’altro, per questo deve essere eterno, per questo poi Severino elabora la sua teoria sugli eterni: se non viene da qualche altra cosa allora è eterno, perché è sempre lo stesso.

Intervento: “La lampada è sul tavolo” è innanzitutto una proposizione, quindi, qualcosa di mediato dal linguaggio. Mi sembra che per Severino tutto ciò non sia essenziale…

Infatti, Severino scrisse un libro, Oltre il linguaggio. Lui pone la questione del linguaggio, è ovvio, ma per lui non è mai prioritaria, per lui c’è qualche cosa che è prima del linguaggio. Per lui la condizione del linguaggio è il principio di non contraddizione, come se questo non fosse qualche cosa che è insito nel linguaggio ma fosse qualche cosa…

Intervento: Si potrebbe dire che il principio di non contraddizione è a fondamento del linguaggio…

E lo è, infatti. È a fondamento del linguaggio ma non è un qualche cosa che viene aggiunto al linguaggio, sono la stessa cosa. il linguaggio e il principio di non contraddizione sono praticamente la stessa cosa. Quando lui cerca di cogliere il principio di non contraddizione, cioè l’incontraddittorietà dell’essere, come un qualche cosa che è per sé, è come se, dicendola in modo da tenere buono Severino, tenesse da parte la questione del linguaggio, così come la intendiamo noi – come struttura, come funzionamento – per indicare un qualche cosa che occorre che sia presente necessariamente, certo, nel linguaggio, ma è come se lui volesse analizzarlo senza occuparsi direttamente e necessariamente del linguaggio.

Intervento: È come se il linguaggio fosse una questione formale, come se rappresentasse solo la forma…

In un certo senso, sì. È chiaro che quando parla di forma e di semantica, è ovvio che si riferisce al linguaggio, è inevitabile; però, certe volte dà l’impressione che stia facendo di tutto per evitare di scontrarsi con il linguaggio, con delle operazioni incredibili senza tenere in conto che lo sta utilizzando: tutte queste cose sono consentite dal linguaggio, che è principio di non contraddizione. Ponendo lui l’essere come l’immediato sta dicendo che l’essere non dipende da qualche altra cosa, perché se l’essere, cioè l’immediato, dipendesse dal linguaggio, allora c’è un qualche cosa che precede l’essere e, quindi, l’essere è mediato dal linguaggio, e questo significa che non è eterno perché viene da qualche altra cosa. L’essere e il linguaggio sono la stessa cosa – qui sta la soluzione –, sono inscindibili, si coappartengono. Ponendo l’essere come l’incontraddittorio sto parlando del linguaggio, non sto parlando di un’altra cosa. Quindi, il linguaggio non è che media l’essere, è che si coappartengono, se c’è uno c’è l’altro, se c’è linguaggio è perché c’è principio di non contraddizione, se c’è principio di non contraddizione è perché c’è il linguaggio. È così che si risolve la questione. Questo è il problema che sorge senza tenere conto del linguaggio, del fatto che questa coappartiene al linguaggio. L’essere non è mediato dal linguaggio, non è vero, l’essere, come lo intende Severino, come l’incontraddittorio, coappartiene al linguaggio. E, quindi, non c’è nessuna contraddizione: l’essere rimane l’immediato, non è mediato da niente; è come dire che il linguaggio… da che cosa è mediato? È il linguaggio l’immediato, non c’è qualche cosa prima del linguaggio. Tutto questo ci costringe a pensare che l’immediato è il linguaggio. Non è che l’essere viene posto dal linguaggio, l’essere non è qualcosa che dipende dal linguaggio; sarebbe come dire che il principio di non contraddizione dipende dal linguaggio. Possiamo anche dire che è vero, ma è vero anche esattamente il contrario, cioè che il linguaggio non c’è se non c’è il principio di non contraddizione, cioè non c’è se non c’è un qualcosa che è affermabile. Sono la stessa cosa, come dire che A=B e che B=A, non c’è l’uno senza l’altro, si coappartengono, costituiscono una relazione, nell’accezione di Severino, cioè come il concreto. Nella proposizione “questa lampada che è sul tavolo”, certo, c’è la parola lampada, la parola tavolo, ecc., ma tutti questi elementi si coappartengono, non li posso astrarre, se non comunque all’interno di un concreto. La negazione dell’essere è tolta… Sappiamo che per Severino la negazione dell’essere va tolta, perché, se la mantengo, l’essere è autocontraddittorio, sarebbe essere e anche non essere. La negazione dell’essere è tolta perché è in contraddizione con l‘immediatezza dell’essere. Se io affermo “questa lampada che è sul tavolo”, affermando questo io tolgo quell’altra proposizione che dice “non questa lampada che è sul tavolo”. Abbiamo due proposizioni: “questa lampada che è sul tavolo” e “non questa lampada che è sul tavolo”. Ovviamente, sono contraddittorie, una delle due devo levarla; se io ho affermato la prima, la seconda debbo toglierla e la tolgo perché è in contraddizione, ce lo ha appena detto, con l’immediatezza dell’essere, cioè il fatto che l’essere non è mediato da qualche altra cosa, non è mediato dalla sua contraddittoria. Come dire ancora: l’essere è quello che è, tolta la sua negazione. Tolta la sua negazione, non è più mediato da nulla perché, se rimane la sua negazione, allora è mediato da questa negazione, per cui se c’è uno c’è anche l’altro. Era il discorso che faceva quando scriveva A è B senza le parentesi, per cui una era il soggetto e l’altra il predicato. A non è B, è un’altra cosa, è una A, per l’appunto. Quindi, devo togliere la negazione. Di queste due proposizioni che vi dicevo, una delle due la devo eliminare, perché sono contraddittorie e, quindi, in questo caso elimino la seconda. Solo a questa condizione la prima mi mostra l’immediatezza dell’essere, mi mostra che questa proposizione è concreta, è quello che è e non altro da sé e, quindi, la posso utilizzare. Altrimenti no, se io ho le due proposizioni simultanee, non posso utilizzare nessuna delle due, perché questa cosa è questa cosa e anche non lo è, perché è molto diverso dal dire “questa lampada che è sul tavolo” e poi dire “questa lampada non è sul tavolo”, è tutta un’altra cosa. questa terza proposizione non c’entra niente, non ha nulla a che fare con l‘immediatezza. Sono due le proposizioni di cui dobbiamo tenere in conto: l’una è “questa lampada che è sul tavolo” e l’altra “non questa lampada che è sul tavolo”. Dire che questa lampada non è sul tavolo è tutto un altro discorso, e non c’entra niente. Caoitolo 2, Il principio di non contraddizione. Del principio di non contraddizione e dell’affermazione dell’essere… Il principio di non contraddizione, per Severino, è l’affermazione dell’essere, tout court. …è da dire che “proprium est horum principiorum, quod non solum necesse est ea per se esse vera, sed etiam necesse est videri quod sint per se vera” (S. Tommaso, in I° Post, I. 19°.)… “È proprio di tutti questi principio che non solo è necessario che questa cosa sia per se stessa vera, ma è anche necessario che si veda ciò per cui è vera”. Non basta dire che è vera ma bisogna vedere perché una certa cosa è vera. Secondo Tommaso questo è a fondamento di tutti i principi. Il che – possiamo così interpretare – è già stato riscontrato a proposito dell’affermazione dell’essere, la quale è in grado di escludere la negazione dell’essere… Sappiamo a questo punto anche il perché. Ecco che rispondiamo alla questione di Tommaso: quando non è semplicemente l’immediatezza ma quando è posta come posizione immediata dell’essere, cioè, quando oltre a essere per sé vera si vede anche per quale motivo è vera. E qual è il motivo? Che se io dico che una cosa è quello che è e anche quello che non è, non la posso utilizzare. Questo è il motivo, cioè un motivo che serve alla volontà di potenza. Perché tutto questo lavoro, questa ricerca anche delle strutture più raffinate del funzionamento del linguaggio, ci porta a considerare che tutte queste cose servono alla volontà di potenza. È per la volontà di potenza che è necessario che ciò che dico sia quello che è e non sia quello che non è. È solo per questo, c’è un altro motivo? Non ne vedo nell’immediato, se non la volontà di potenza, che mi costringe a dire che questa cosa è quella cosa. il fatto è che la volontà di potenza procede, appunto, dal funzionamento del linguaggio. E, allora, qui è come se le due cose si intrecciassero: da una parte, la volontà di potenza che mi costringe ad affermare che una cosa è quella che è; dall’altra, pensare che la volontà di potenza è comunque qualche cosa che procede dal funzionamento del linguaggio. A questo punto, allora, le due cose si coappartengono, per cui la volontà di potenza “è” il funzionamento del linguaggio, né più né meno. E così videtur quod est per se vera, vediamo perché questa cosa deve essere vera per sé, perché se no non la utilizzo, e se non la utilizzo, come direbbe Nietzsche, mi depotenzio.