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3 luglio 2024

 

Plotino Enneadi

 

La lettura di Plotino sta aprendo il vaso di Pandora. Plotino sta dicendo come si deve pensare, sulla scorta di Platone, naturalmente, il quale Platone aveva detto a chiare lettere che perché qualcosa possa essere identico a sé, immutabile, deve essere fuori del linguaggio, deve essere lassù: questa è la condizione perché sia possibile pensare a qualcosa di assoluto. Ora, una questione immediatamente: come è accaduto che sia stato il pensiero greco a avviare tutto ciò che conosciamo oggi come scienza, come tecnica, ecc.? Alexander Koyrè fornisce una risposta insufficiente, insoddisfacente: lui dice che è perché i greci hanno inventato la metafisica, e questa è stata l’opportunità per inventare la scienza, la tecnica, ecc. È vero in parte, ma teniamo conto che ciò che noi oggi chiamiamo metafisica, ai tempi di Aristotele era ancora teologia. Infatti, Aristotele non parla di metafisica, termine che fu coniato dopo di lui, ma di teologia, di filosofia prima, di teologia essenzialmente; non c’è differenza tra teologia e metafisica. Sappiamo che Platone è stato il primo a porre l’assoluto, cioè una verità assoluta che, come dicevo prima, ha dovuto mettere lassù. Ma questa idea di assoluto c’era prima di lui? Proviamo a ripercorrere in pochi secondi il pensiero presocratico. Chi parlava di assoluto, di verità assoluta? Democrito? Anassimandro? No, per lui ogni cosa sorge dall’indeterminato, dall’πείρων. Eraclito? Non se ne parla proprio. Parmenide? No, lui certamente no, e neanche il suo discepolo Zenone. Empedocle? Anassagora? No. Empedocle aveva un’idea dell’uno che ora vi leggo, sono poche righe ma significative, anche per fare intendere come si ponevano allora le questioni. Dice: In tale modo, in quanto l’uno ha imparato a generarsi da più, e poi risultano di nuovo più quando l’uno germina, perciò sono in divenire e non è stabile la loro eterna vita, in quanto questi non finiscono mai mutandosi di continuo, perciò in eterno sono questi esseri inamovibili dentro il ciclo. Ecco, tanto per dirvi come pensava lui l’uno, e cioè come qualcosa che è generato dai molti, che poi tornano a essere molti, e non solo questo ma anche il modo in cui lo dice: è come un racconto, come un mito. Pare che prima di Platone non ci sia la verità assoluta. Poi, Aristotele, certo, era un discepolo di Platone, almeno inizialmente, e infatti lui ci prova, con i risultati che sappiamo. Ma, se non c’è questa idea della verità assoluta, ecco allora che per compiere quel passo, che sfugge a Koyrè, in questo suo scritto che si chiama Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, come si arriva all’universo della precisione? Attraverso il calcolo, naturalmente. Il calcolo è importante, ma non basta. Occorreva un’idea, occorreva Plotino: l’assoluto, l’Uno è il Bene assoluto, dunque, è anche verità assoluta; quindi, la verità assoluta da qualche parte c’è. Cosa che per i presocratici non c’era, non parliamo poi dei sofisti. Plotino ha reso pensabile l’idea di una verità assoluta, quindi, possibile. A questo punto, Plotino ha detto, sì, la verità assoluta c’è e se c’è, naturalmente, è garanzia di qualunque altra cosa; mentre, se non c’è una verità assoluta, come presso i presocratici, questo universo della precisione non è costruibile, non è neanche pensabile. Occorreva l’idea del Bene assoluto, dell’Uno. Naturalmente, questo Uno deve essere messo al riparo, come le idee di Platone, al riparo dal linguaggio. In tutte queste pagine Plotino non fa altro che dire quanto sia importante mantenere separata la materia, cioè il non-essere, dall’essere. E, infatti, li pone agli antipodi: da una parte l’essere e laggiù negli inferi il non-essere. A questo punto si legge molto più facilmente Plotino, perché si sa che cosa sta dicendo e perché lo dice. Ma, dicevamo della questione della precisione. La precisione sorge nel momento in cui incomincia a essere pensabile che ci sia una verità assoluta e l’idea della precisione è questa: il calcolo che giunge a una verità assoluta, perché è quella, perché i numeri non mentono. Ma non solo questo, c’è anche da pensare al fatto che con Plotino, e poi il cristianesimo che sorge da Agostino in poi, tutta la precisione rimane come sopita per quasi mille anni, rimane sopita proprio per via di Agostino, per il quale la logica, la ragione, non è necessaria alla conoscenza di Dio. Dopo, con Anselmo, ecco che allora interviene la logica, quindi, il calcolo, quindi, la necessità della precisione. Pensate al ritorno poderoso del neoplatonismo con Cusano, Ficino, siamo XV secolo; poi, Giordano Bruno, nel XVI secolo; Spinoza, XVII secolo e l’illuminismo nel XVIII. Questo percorso, sì, lungo, certamente lento, è un percorso che porta all’Illuminismo, cioè, porta alla ragione come strumento della precisione. Si pensa che si sia incominciato a usare il calcolo con precisione dal momento in cui è intervenuto l’apporto delle cifre arabe, anche perché calcolare con i numeri romani diventava impegnativo. Si è incominciato a utilizzare le cifre arabe in Occidente nel XII-XIII secolo, ma possiamo dire che si conoscevano già intorno al IX secolo, perché venivano sicuramente utilizzate per il commercio, per varie cose, e anche perché sono molto pratiche, questa è stata la loro fortuna. Dicevo che a un certo punto sorge la necessità della precisione, certamente coadiuvata dall’intervento delle cifre arabe, ma questa precisione era già cercata prima attraverso il ragionamento, attraverso la logica, che non utilizza le cifre arabe. Ma ciò che ha reso pensabile la precisione è l’idea che ci sia una verità da raggiungere, che ci sia questa verità assoluta. Se togliamo questo, tutto il calcolo proposizionale crolla. E chi ha creato questa idea che esista una verità assoluta? Plotino, prima, come abbiamo visto, non c’era. Perché se così come appare – certo occorrerebbero argomentazioni un po’ più ricche – ma se è così come ci appare, quello che Koyrè chiama l’universo della precisione è diventato pensabile con Plotino, perché è lui che ha inventato l’assoluto. L’idea di verità assoluta, che naturalmente procede dal Bene assoluto, perché l’Uno è il Bene assoluto, quindi, verità assoluta, ovviamente, non può essere altrimenti. Quindi, c’è per ipostasi, ma c’è. E, allora, è stato possibile cominciare a pensare che con la ragione, con l’anima, per usare il termine di Plotino, quindi, attraverso la ragione, quindi, attraverso l’intelletto, sia possibile avvicinarsi alla verità, che è nell’Uno. L’altra volta parlavamo di un ordine. In effetti, è la stessa cosa: la verità è ordine, perché dice che questo è così e, quindi, quest’altro no. E se fosse stato proprio Plotino a rendere pensabile l’idea della precisione, con l’idea dell’Uno, dell’assoluto? L’idea di una verità assoluta prima non c’era. Io non ho mai trovato nei presocratici un discorso, un’argomentazione che portasse all’interno l’idea di una verità assoluta. Plotino quando legge gli antichi, come hanno fatto anche i cristiani, avverte un tendere verso l’Uno, ma che non trovano perché non erano ancora abbastanza bravi. Convergere verso l’Uno, tutto tende verso l’Uno, cioè verso l’assoluto, verso la verità assoluta, che quindi c’è. Se c’è, ecco allora la logica. L’operazione che ha tentato Aristotele andava in questa direzione: trovare attraverso la logica una verità assoluta. Prima compila il suo programma eseguibile, ma il problema sorge quando vuole trasferire il programma in una ontologia, cioè dire di che cosa propriamente è fatto: lì incontra problemi insormontabili. Ma se fosse così, e cioè che l’idea di Plotino dell’assoluto abbia reso pensabile una verità assoluta e, quindi, la precisione del calcolo, prima proposizionale e poi aritmetico, allora tutto questo, e cioè tutto il percorso logico nel Medioevo, soprattutto nel basso Medioevo, sino ad arrivare alla scienza, ecc., tutto questo non è altro che teologia, letteralmente. Nell’accezione ancora aristotelica, cioè di metafisica. Tutta la logica ha bisogno di pensare che ci sia una verità da qualche parte, da raggiungere. La matematica ha bisogno dii una verità assoluta per potere muoversi, per potere fare quello che fa; e se si accorge che questa verità vacilla, trova subito il rimedio per continuare a pensare che ci sia comunque. Come dicevamo mercoledì scorso, il pensiero è che una verità, cioè un ordine, debba esserci necessariamente. Quelle cose possono stare così o cosà, non importa, ma in un modo devono stare. È questa idea è un’idea teologica. Solo Dio la garantisce, come aveva intuito Ockham: è Dio, in fondo, che garantisce che io veda questa cosa per quella che è, perché io non ho nessuna garanzia. E Ockham era un logico, gli scritti suoi più importanti sono di logica. E, allora, ha reso pensabile, sì, la verità assoluta, quindi la logica, la matematica, quindi tutto ciò di cui è fatto questo percorso di pensiero che attraversa duemila anni. In fondo, potremmo anche dire, anche se detta così appare un po’ bizzarro, che Plotino ha reso pensabile il capitalismo, lo ha reso pensabile attraverso questa idea che le cose stanno in un certo modo, devono stare in un certo modo. Duemila anni di cristianesimo hanno addestrato le persone a pensare questo, che un Dio ci deve essere, e se non è Dio è qualche altra cosa, ma qualcosa ci deve essere, perché un ordine ci deve essere. La verità c’è, non è la mia, non è la sua, ma una verità c’è. Duemila anni di cristianesimo hanno addestrato le persone a pensare in modo neoplatonico, e cioè che una verità debba esistere, che un ordine debba necessariamente esserci. I presocratici quest’ordine lo immaginavano, ma come un mito. Abbiamo visto Empedocle, ma anche tutti gli altri, sì, cercavano comunque di unificare. Queste idee del fuoco, dell’acqua, della terra, ecc., erano modi per dire che ci deve essere da qualche parte un qualche cosa che unifica e che è quindi la causa, ecc., senza trovarla, naturalmente. Anche Anassagora, poi, ci mette dentro il νος, il pensiero. Però, questa idea della precisione non esisteva, e non esisteva perché non c’era ancora stata l’idea dell’assoluto, della verità assoluta, del Bene assoluto: questa è un’invenzione di Plotino, su cui poi la Chiesa ha costruito tutto quanto; però, l’ha inventata lui questa cosa, non c’era prima. Platone gli ha aperto la strada, dicendo che le idee, essendo lassù, non possono essere contaminate. Da lì gli è venuta idea: l’Uno, devo metterlo lassù anch’io, perché se lo metto quaggiù è un disastro, perché poi si argomenta, si confuta, si controconfuta; se, invece, lo metto lassù, chi lo tocca? E diciamo che è un’ipostasi. Un’ipostasi rimane intoccabile, invisibile, ineffabile, ecc., però, c’è. Ancora oggi nessuno sa esattamente qual è la verità, però c’è. E come fa a dirlo, in base a che cosa? La verità assoluta, quella epistemica, è un’invenzione, esattamente come Dio, e ha in fondo la stessa funzione di garanzia, anche se non può garantire niente. Sono illuminanti le pagine di Aristotele negli Analitici secondi, in parte anche nei Topici. Quindi, come leggiamo Plotino? Cercando queste cose, per esempio, vedendo la necessità che ha di tenere assolutamente separata la materia dall’Uno, cioè, il non-essere dall’essere, la forma dalla materia. Per lui ciò che dice Aristotele è assolutamente inammissibile, che non ci sia materia senza forma e viceversa; quella cosa che Aristotele chiamava sinolo non è pensabile, perché non può essere la materia, deve essere una cosa che è separata da tutto, così come l’Uno è separato da tutto. L’Uno è l’assolutamente identico a sé ed è l’assolutamente differente da qualunque altra cosa. Su questo hanno lavorato parecchi teologi perché sorge un problema: è identico ma anche differente. Ecco, allora, Cusano, Ficino, Dionigi Areopagita, ecc., a lavorare per risolvere questo problema, perché detta così come la pone Plotino sembra che comunque questo Uno sia Uno ma sia anche molti. E, invece, no. Non è che abbiano trovato chissà quali escamotages, è difficile dimostrare una cosa del genere; l’unica cosa sulla quale insistono è che l’Uno comunque è al di sopra di qualunque opposizione; le contraddizioni ci sono, sì, certo, impossibile non vederle, ma sono al di sotto, c’è una complementarietà, una simultaneità tra un elemento e il suo contrario, certo che ci sono; ma c’è un Uno al di sopra che garantisce la possibilità di unificare questa contraddizione, cioè, di risolverla. Non siamo più nelle mani di Eraclito che diceva: l’uno è tutte le cose. No, tutte le cose sono sotto l’Uno, l’Uno le unifica in lui, perché tutte le cose, anche i contrari, se esistono è perché c’è un Uno che li fa esistere. Certo, non è un granché come spiegazione, però, tutti i teologi medievali vanno in questa direzione. Quindi, la assoluta necessità, torno a dire, perché questo è fondamentale, che la materia, cioè il non-essere, non contamini mai, per nessun motivo, l’essere. E, infatti, cosa ci dice Plotino qui, a pag. 453: Se si dicesse che essa (materia) in quanto materia non si altera, non si potrebbe dire anzitutto in che cosa sia alterata, e poi si riconoscerebbe così che essa non è alterata in se stessa. Difatti, agli altri esseri che sono idee non appartiene l’alterazione dell’essenza, poiché l’essenza persiste nell’alterazione, e così, poiché l’essenza della materia è di essere materia, essa non può venire alterata in quanto è materia, ma sussiste. La materia non è alterata da niente, la materia per Plotino è qualcosa di assolutamente inerte, è qualcosa che deve essere formato, ma, di fatto, è nulla, da cui però procedono le cose. È la stessa cosa dell’Uno; infatti, c’è una sinistra comunanza tra l’Uno e la materia: entrambi sono nulla, ma entrambi producono ogni cosa. E come lassù la forma rimane immutabile, così anche qui la materia rimane inalterata. La materia non deve alterarsi perché alterandosi diventa altro, quindi non è più materia, non è più quel nulla e, quindi, non possiamo più controllarla. È una cosa fondamentale, deve essere controllata perché deve rimanere laggiù. A pag. 463. Non è possibile che ciò che al di fuori dell’essere non partecipi affatto dell’essere... Se qualcosa è fuori dell’essere, in qualche modo, comunque, deve partecipare all’essere, perché è in ogni caso. …la natura dell’essere è di produrre degli esseri. Però l’assoluto non-essere non può unirsi all’essere; ne deriva questo fatto strano: che esso, pur non partecipando dell’essere, ne partecipa e trae ogni cosa come dalla sua vicinanza ad esso, benché per la sua natura non possa, per così dire, amalgamarsi con esso. Si parla della materia chiaramente. Ciò che la materia ha ricevuto fugge via come da una natura estranea. La materia non può trattenere niente, è come se fosse il puro nulla, il nihil absolutum; cosa che non può essere naturalmente. Vedete come ai due capi ci sono da una parte l’Uno e dall’altra la materia: entrambi sono nulla. Perché? Per via della teologia negativa, non si può attribuire nulla all’Uno, perché qualunque cosa gli si attribuisca è uno sminuirlo, cioè dargli delle proprietà. La stessa cosa per la materia: la materia è nulla, è non-essere, nient’altro che questo. A pag. 467. Nemmeno la materia è la grandezza stessa. Infatti, la grandezza è una forma, non un ricettacolo, ed è la grandezza in sé, non grandezza determinata. Ma poiché la forma posta nell’Intelligenza o nell’anima, vuole essere grande… Qui nessuno gli ha chiesto: perché deve essere grande? Cos’è questa fantasia di onnipotenza che dovrebbe avere un intelletto e, quindi, l’Uno, visto che l’intelletto procede direttamente dall’Uno? …essa ha concesso a quegli esseri che, per il loro desiderio e movimento verso di lei, desiderano imitarla. di rivelare la loro disposizione in altra cosa, cioè nella materia. La materia è un qualche cosa che è nulla, che però viene utilizzata per creare delle forme. Ma è nulla, non ha neanche grandezza, non ha niente. Qui parla dell’eternità, del tempo. Siamo a pag. 475. Anzitutto bisogna esaminare che cosa sia l’eternità e che cosa pensino di essa coloro che la affermano diversa dal tempo; infatti, una volta conosciuta l’eternità immobile del modello, forse diventerà più chiara anche l’idea della sua immagine, che si dice essere il tempo… Ecco che cos’è il tempo per Plotino: l’immagine dell’eternità. A pag. 477. Qual è questo carattere, per il quale noi diciamo che tutto il mondo intelligibile è eterno e perfetto? Il mondo intelligibile sarebbero le idee di Platone. E che cos’è la perpetuità? È identica all’eternità, oppure l’eternità viene dopo di essa? Bisogna concepire il mondo intelligibile secondo unità; se non che la sua nozione è composta di molte cose, anche se una natura unica accompagna gli esseri intelligibili o unendosi ad essi o apparendo in essi; tutti questi esseri intelligibili formano quell’unica natura, la quale però ha molte potenze ed è molte cose. Perciò chi avrà considerato la pienezza di questa potenza la chiamerà sostanza, in quanto essa è come un substrato; movimento, in quanto vede la sua vita; quiete, in quanto essa rimane sempre nello stesso modo; alterità e anche identità… Questo lo avevamo già trovato ed è il modo in cui Plotino risolve il problema posto da Aristotele nelle Categorie. Vi ricordate che Aristotele parla della sostanza come di ciò che è determinato dalle categorie: senza le categorie non c’è neanche la sostanza. Allora, Plotino che cosa si inventa? È difficile togliere di mezzo questa cosa, la sostanza come risultato di categorie, e allora si inventa un’altra sostanza. C’è la sostanza di cui parla Aristotele, ma ce n’è un’altra che invece rimane sostanza immodificabile, inalterata. Uno potrebbe chiedergli: perché? A pag. 479. Riunendo poi, inversamente, in unità queste potenze, così che una vita unica sia nel loro insieme, collegando l’alterità, l’atto incessante, cioè il movimento, l’identità indifferenziata, il pensiero e la vita che non passano da una ad altra cosa: insomma ciò che rimane identico e indivisibile, e guardando a tutte queste cose, egli vede l’eternità come una vita che persiste in se stessa e possiede sempre presente il tutto, che non è ora questo ora quello, ma tutte le cose insieme, che non è ora una cosa ora un’altra, ma una perfezione indivisibile, simile a un punto, in cui si riuniscono tutte le linee senza mai uscirne fuori; ma essa persiste in se stesa nella sua identità, giammai modificata, ed è sempre nel presente, sicché di essa nulla è passato o verrà, ma è sempre ciò che è ed è sempre tale. Ecco perché possono convivere gli opposti e i molti: perché c’è un uno che sta sopra e li unifica, li domina, per dirla tutta. Quindi ci sono, sì, le zuffe, le baruffe, come diceva anche lo stesso Empedocle, φιλα e νεκος, amore e odio, disputa, ecc. Sì, però c’è qualcuno, qualcosa al di sopra di tutto, che domina e veglia su di tutti. A pag. 481. Ma negli esseri primi e beati non c’è aspirazione al futuro; essi sono già il tutto ed hanno la vita totale che in qualche modo è dovuta a loro; sicché essi non ricercano nulla, poiché per essi non c’è né il futuro né il tempo, di cui il futuro fa parte. Questa sembra essere un’affermazione gnostica, se proprio dovessimo dirla tutta, come dire: se sei beato hai già tutto. E beato è chi guarda, chi contempla l’Uno. Dunque la sostanza dell’essere è intera e totale, non soltanto quella che è nelle sue parti, ma anche quella a cui nulla manca e a cui non potrebbe aggiungersi alcunché di non-essere. Ci risiamo: non può aggiungersi alcunché di non-essere e, quindi, la materia deve stare laggiù negli inferi. Non soltanto è necessario che tutti gli esseri appartengano all’essere intero e totale, ma anche che nessuno non essere sia in quello: questo suo modo di essere e questa sua caratteristica è l’eternità. Infatti eternità deriva da essere sempre. A pag. 483. Perciò l’eternità è venerabile e la riflessione ci dice che essa è identica a Dio. E giustamente si può dire che l’eternità è Dio stesso che si mostra e si manifesta qual è, cioè come l’Essere, immutabile, identico a sé e perciò stabile nella sua vita. Quindi, ha una vita. Ma non aveva detto che non aveva niente di tutto ciò che…? E se diciamo che questo Essere consta di parecchi, non bisogna meravigliarsene: infatti ciascun essere intelligibile è molteplice, perché esso è infinito per potenza; ed è infinito perché non manca di cosa alcuna ed è quello che è nel senso vero e proprio, perché non perde nulla di sé. Qui già parla del della processione: per esempio, l’intelletto procede dall’Uno, ma senza che l’Uno perda nulla di sé, altrimenti diventerebbe mancante di qualcosa. Non perde nulla in questa processione, perché è un’emanazione. Se si dicesse dunque che l’eternità è vita infinita perché completa, e che essa non perde nulla di sé poiché non ha né passato né futuro, perché altrimenti non sarebbe completa, si sarebbe vicini a una sua definizione. Infatti ciò che segue: “è una vita completa e non perde nulla” è una spiegazione della sua infinità. A pag. 495. E poiché questi esseri rimangono in sé stessi in una quiete assoluta, per sapere come mai sia sorto il tempo non si possono invocare le Muse, poiché esse ancora non esistevano…. Come facesse a saperlo con tanta precisione, non è dato sapere. …forse si potrebbe, se allora fossero già esistite; si può chiedere piuttosto al tempo stesso come è apparso e come è nato. Esso direbbe di se stesso così… Adesso è Plotino che interpreta il tempo. …prima che avesse generato l’anteriorità e, legato ad essa, avesse bisogno della posteriorità, esso riposava nell’essere; non era il tempo, ma conservava la sua immobilità nell’essere. È un altro modo per dirci che, in effetti, ciò che è nell’Uno è in potenza tutte le cose, quindi è già in potenza e anche in atto, perché se è in potenza è anche in atto. Se non che, la natura irrequieta, volendo essere padrona di sé… Di nuovo fa riferimento alla volontà di potenza; perché dovrebbe volere essere padrone di sé? A che scopo? …ed appartenere a se stessa e decidendo di ricercare uno stato migliore del presente, si mosse e con lei si mosse anche il tempo, diretti così verso un avvenire sempre nuovo, non identico al passato, ma diverso e continuamente diverso, e dopo essere avanzate ancora un po’, noi abbiamo fatto il tempo che è un’immagine dell’eternità. Questo è secondo lui il modo in cui si è creato in tempo. C’era infatti nell’Anima una potenza inquieta che voleva sempre far passare in altro ciò che aveva contemplato nel mondo intellegibile, e non sopportava che l’essere intelligibile le fosse presente tutto insieme. Perché non è dato sapere. E come da un germe immobile esce la ragione spermatica, sviluppandosi a poco a poco, come si pensa, verso il molteplice, manifestando nella divisione la sua molteplicità e invece di conservare in sé la sua unità, la diffonde all’esterno e diventa, procedendo, sempre più debole; così l’Anima produce il mondo sensibile ad immagine di quello intelligibile e lo fa mobile, non del movimento intellegibile, ma di uno che è simile a quello e che aspira a esserne immagine e temporalizza anzitutto se stessa producendo il tempo in luogo dell’eternità; poi pone il mondo da lei generato alle dipendenze del tempo e lo pone tutt’intero nel tempo racchiudendo in esso tutti i movimenti. Questi sono i problemi su cui poi, un certo numero di secoli dopo, si sono parecchio indaffarati i teologi cristiani per risolverli. Uno era questo: l’Uno, che è assolutamente identico ed è assolutamente differente, come fa a essere le due cose simultaneamente? Questi concetti di identità e differenza vengono dall’Intelletto, ma l’Uno in quanto tale è al di sopra dell’Intelletto e, quindi, è la condizione dell’esistenza dell’identità e della differenza, ma non ne è viziato. A pag. 509. La ragione, si dirà, è immobile, mentre la natura differisce dalla ragione e si muove. Se si dice che essa si muove tutta intera, anche la ragione si muoverà; e se una sua parte è immobile, questa dovrebbe essere proprio la ragione. La natura infatti deve essere forma e non un composto di materia e forma...Ritorna spessissimo questa questione. …forse che essa ha bisogno di una materia calda o fredda? La materia che è il substrato sul quale essa lavora arreca ad essa queste qualità; oppure la materia che non ha alcuna qualità diventa calda o fredda sotto l’influsso della ragione. Invero non è necessario che si accosti il fuoco, perché la materia diventi fuoco, ma è una ragione; e questa è una prova non piccola che negli animali e nelle piante vi sono ragioni operanti e che la natura è una ragione che produce un’altra ragione come sua creatura, la quale la quale dà qualcosa di sé al substrato, pur rimanendo immobile. La ragione, dunque, che si manifesta nelle forme invisibili, è ultima, senza vita, incapace ormai di generarne un’altra; ma la ragione superiore, dotata di vita, è affratellata a quella che produce la forma; essa possiede la stessa potenza e produce la forma nell’essere generato. Perché procede dall’Uno. Quindi, insiste su quest’altro aspetto, ma c’è comunque una ragione, una ragione che rende conto del perché le cose accadono così come accadono, e non accadono casualmente, accadono per una ragione e accadono nel modo migliore in cui possono accadere. Questa è un’altra questione su cui lavoreranno i teologi medievali, Cusano in particolare: le cose stanno così come devono essere, e devono essere così perché sono le migliori possibili, meglio non si può, perché le ha fatte Dio. A pag. 509. Essa (la natura) non possiede la contemplazione che deriva dal pensiero discorsivo, da quel pensiero cioè che esamina ciò che contiene in sé. E se essa è vita, perché non è anche ragione e potenza operante? Forse perché ricercare vuol dire non possedere ancora? Ora, poiché la natura possiede, essa, in quanto possiede, anche agisce. Per lei, essere ciò che è, è lo stesso che agire: essa è contemplazione e oggetto di contemplazione, poiché è ragione. Ed in quanto è contemplazione, oggetto di contemplazione e ragione, e soltanto per questo, essa produce. E così abbiamo dimostrato che la produzione è contemplazione. Perché l’idea di Plotino è che le cose che si generano sono già tutte nell’Uno, perché l’Uno non può aumentare di alcunché, perché sarebbe comunque un ente al di fuori, mentre l’Intelletto non è fuori dell’Uno, è qualcosa che procede per emanazione, ma fa parte dell’Uno, un pochino meno perché se ne è distanziato, ma fa parte dell’Uno e l’Uno non ha perso qualcosa in questo allontanarsi dell’Intelletto, che è rimasto sempre integro, sempre identico a sé. Se qualcuno le chiedesse (alla natura) perché produce, essa, qualora volesse ascoltare quella domanda e parlare, direbbe così: “Meglio sarebbe non interrogare, ma comprendere e tacere, come faccio io che non ho l’abitudine di parlare. Comprendere che cosa? Che l’essere generato è oggetto da me contemplato ed oggetto naturale della mia contemplazione; ed io stessa, che sono nata da una simile contemplazione ho una naturale tendenza alla contemplazione... La contemplazione è un concetto fondamentale in Plotino: l’Uno che contempla. Cosa vuole dire che contempla? La parola usata qui è θεωρεῑν, teoria, nell’etimo sarebbe l’assistere a uno spettacolo. Le cose esistono perché l’Uno le contempla, cioè, le pensa; lo stesso atto di pensarle le fa esistere. Non è proprio così esplicitamente in Plotino, questo è già Cusano. Per Cusano non è neanche più il pensiero, ma è la parola, è la parola di Dio: dicendo la cosa, non è che la fa esistere perché parla, ma dicendola esiste, il dirla è la sua esistenza, è la parola di Dio la sua esistenza. Non è la parola di Dio che la fa esistere, ex nihilo; no, la parola di Dio è l’esistenza stessa di quella cosa. Tutto nella mente di Dio, o nell’Uno; quindi, c’è già tutto, in potenza, naturalmente. È in potenza, ma non può non essere anche in atto, anche nell’Uno, perché la potenza e l’atto sono due facce della stessa cosa, anche in Plotino. Ciò che è in potenza in Dio è già in atto, quindi, se può pensarlo vuole dire che lo ha pensato, e se lo ha pensato esiste: il suo pensarla è la sua esistenza. A pag. 511. La natura, contemplando il suo oggetto, resta in riposo, e quell’oggetto è nato in lei, perché essa rimane in sé e con sé ed è oggetto di contemplazione: essa è una contemplazione silenziosa, ma anche un po’ oscura. La contemplazione, cioè, il riflettere su qualche cosa, il pensare qualche cosa, lo fa esistere, nel senso che ne è l’esistenza, letteralmente. Era molto lontano dal pensare che le cose esistono perché sono nel linguaggio, ovviamente, non perché si metta il linguaggio al posto di Dio, ma perché Dio è stato sempre messo al posto del linguaggio, cioè di quella cosa per cui, dicendo, effettivamente le cose esistono nel momento in cui si dicono. Cusano non aveva neanche tutti torti: è la parola la vera esistenza delle cose; solo che lui attribuisce a Dio questa parola.