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3 luglio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo alla seconda parte di questa breve introduzione che fa Hegel alla Fenomenologia dello Spirito. A pag. 73, punto 9. Ciò detto, provvisoriamente e in generale, circa il modo e la necessità del processo, potrà essere utile spendere due parole ancora sul metodo della trattazione. Ci ha appena detto che non c’è il metodo in filosofia, che non possiamo pensare a un medium per raggiungere la verità. Se dobbiamo raggiungere la verità, ciò vuole dire che siamo fuori dalla verità, e non la raggiungeremo mai; quindi, siamo già nella verità. Questa è la sua conclusione. Per quanto riguarda, invece, la trattazione, allora sì, c’è un metodo. Se questa esposizione viene rappresentata come un comportamento della scienza verso il sapere apparente e fenomenico, e come ricerca ed esame della realtà del conoscere, sembrerà che l’esposizione stessa non possa aver luogo senza un qualche presupposto che venga stabilito come unità di misura. L’esame consiste infatti nell’applicare alla cosa che viene esaminata una certa misura, per decidere, dalla resultate eguaglianza o ineguaglianza, se la cosa sia giusta o no;… Ogni volta che bisogna stabilire se una cosa è giusta oppure no, se va bene oppure no, si compara, non c’è un altro modo. …e la misura in genere, e quindi anche la scienza se fosse la misura, sono prese in tal caso come l’essenza o come l’in sé. Cioè, come l’apparenza, l’apparire delle cose. Ma qui, dove la scienza sta soltanto sorgendo, né essa né alcun’altra cosa si sono giustificate come l’essenza o come l’in sé; senza di che non sembra poter avere luogo esame alcuno. Siamo ancora al di qua, non abbiamo ancora questo parametro per sapere se stiamo procedendo bene oppure no, dobbiamo ancora trovarlo. Prima ancora di incominciare, non possiamo prendere questa cosa da fuori, ma deve essere qualche cosa che appartiene alla cosa stessa. Se prendessimo qualcosa che viene da fuori, ci ritroveremmo come nel caso del medium a vedere se poi questo medium è vero, e così via all’infinito. Quindi, deve essere nella cosa; però ci sta dicendo che ancora deve avviarsi questa questione e, quindi, si trova in una contraddizione. Infatti, dice Questa contraddizione e la sua rimozione risulteranno in modo più determinato, se prima si richiamano alla memoria le astratte determinazioni del sapere e della verità, come esse trovansi nella coscienza. Cominciamo a vedere che cosa nella coscienza si pone come verità, come essenza, che cosa noi pensiamo che siano queste cose. Questa, cioè, distingue da sé un alcunché al quale in pari tempo si rapporta;… Questo fa la coscienza: io mi rapporto a qualche cosa, rapportandomi a qualche cosa mi distinguo da questo qualche cosa, non sono quel qualche cosa. Quindi, ci si distingue ma, allo stesso temo, ci si rapporta. Questo appare inevitabile. Che poi è anche il funzionamento del linguaggio, e cioè il mio dire è necessariamente un dire di qualcosa - se dico, dico qualcosa - ma questo qualcosa non è il mio dire, è un’altra cosa per cui si distingue ma, al tempo stesso, sono in un rapporto indissolubile perché se dico, dico necessariamente qualcosa. …o, in altri termini, quell’alcunché è qualcosa per la coscienza; e il lato determinato di questo rapportare o dell’essere di un alcunché per una coscienza, è il sapere. Il sapere non è niente altro che questo rapportarsi continuamente a qualcosa. Il sapere non è altro che una relazione: se io chiedo “che cos’è questo?”, ecco che rispondo dicendo altre cose rispetto a quella cosa, ma in ogni caso è sempre in questo rapportarmi che il sapere si fonda. Ma da questo essere per un altro… Siamo sempre per un altro. …noi distinguiamo l’essere-in-sé; il rapportato al sapere viene altrettanto distinto da esso e posto come essente anche fuori di questo rapporto; il lato di tale in-sé dicesi verità. In questo rapportarsi sempre a qualche cos’altro noi distinguiamo l’in sé, la cosa che è in se stessa. Prima ancora di essere per sé e tornare all’in sé, c’è questo in sé, che possiamo chiamare conoscenza immediata: la conoscenza del qualche cosa che qualche cosa è; ancora non sappiamo che cos’è ma sappiamo che è. Quindi, la verità per Hegel è questo, e cioè il fatto che dicendo dico qualcosa; non posso dire se non dicendo qualcosa. Punto 11. Indagando, ora, la verità del sapere, sembra che noi indaghiamo ciò che è in sé. Solo, in tale indagine esso è nostro oggetto, è per noi;… Questo in sé lo indaghiamo, sì, certo, ma lo rendiamo nostro oggetto, ma questo oggetto è per noi che lo stiamo indagando, non è per sé, non esiste da sé. … e lo in sé di esso quale risultasse, sarebbe piuttosto il suo essere per noi; ciò che noi affermeremmo quale sua essenza, non sarebbe già sua verità, ma soltanto il nostro sapere di esso. L’essenza e la misura cadrebbero in noi, e ciò che alla misura dovrebbe venir comparato e intorno a cui in questa comparazione si dovrebbe decidere, non sarebbe tenuto necessariamente a riconoscerla. È ciò che diceva prima: dove troviamo questo metro se non nella coscienza? Nella coscienza che comunque, sì, rileva l’oggetto ma lo rileva per noi che lo osserviamo, per noi che lo consideriamo. Senza questo “per noi” non c’è nessun oggetto. Ma la natura dell’oggetto da noi esaminato rende vana questa separazione o questa parvenza di separazione e di presupposizione. Non c’è questa distinzione di soggetto e oggetto. La coscienza dà in lei stessa la propria misura, e la ricerca sarà perciò una comparazione di sé con se stessa;… Tutto si svolge nella coscienza. Non c’è soggetto inteso cartesianamente; non c’è oggetto separato dal soggetto. No, l’oggetto è oggetto per noi che lo consideriamo, non c’è per sé. Questo non è stato ancora inteso per lo più. Essa è in lei uno per un altro, ossia ha in lei in generale la determinatezza del momento del sapere;… È la coscienza che stabilisce il sapere, non è qualche cosa che viene dall’oggetto, viene dalla coscienza o, potremmo dire, viene dal linguaggio. …in pari tempo questo altro è a noi nel soltanto per lei,… Cioè: questo oggetto è, sì, per noi ma per noi in quanto coscienza; quindi, è per noi in quanto è per lei, la coscienza. Se non ci fosse la coscienza non ci sarebbe neanche il “per noi”. Dunque, in ciò che la coscienza, dentro di sé, designa come lo in sé o come il vero, noi abbiamo la misura da lei stessa stabilita per commisurarvi il suo sapere. Chiamando il sapere concetto, e l’essenza o il vero l’essente o l’oggetto, l’esame consiste nel vedere se il concetto corrisponda all’oggetto. Come potete vedere, qui oggetto e concetto non sono più cose distinte, separate. Certo, sono distinte, nel senso che non sono la stessa cosa, ma questo oggetto non è fuori, non è in una realtà. Ben si vede che le due cose sono lo stesso… L’oggetto e il concetto che ne ho sono lo stesso. …ma l’essenziale sta nel far sì che durante l’intera ricerca entrambi i momenti, concetto e oggetto, esser-per-altro ed essere-in-se stesso, cadano essi stessi nel sapere da noi indagato, e nel far sì che, quindi, noi non abbiamo bisogno di portar con noi altre misure, né di applicare nel corso dell’indagine le nostre trovate e i nostri pensamenti; anzi, lasciandoli in disparte, noi otteniamo di considerare la cosa come essa è in e per se stessa. Lasciamo in disparte tutte le considerazioni, tutte le misure che possiamo trovare da qualche parte. Tutto si svolge lì, tutto si svolge, potremmo dire oggi, all’interno del linguaggio, non c’è qualcosa al di fuori. Al punto 13, poco più avanti. Infatti, da una arte la coscienza è coscienza dell’oggetto; e dall’altra, coscienza di se stessa:… La coscienza, ci sta dicendo Hegel, ha questa proprietà: è coscienza dell’oggetto, nel senso che lo percepisco, ma, al tempo stesso, è anche coscienza di sé che percepisce, coscienza di sé in quanto percipiente. …coscienza di ciò che ad essa è il vero, e coscienza del suo sapere ciò. È cosciente di ciò che per la coscienza è vero, ma è anche cosciente di sapere che è vero. Mentre entrambi questi momenti sono per la coscienza, essa stessa è la loro comparazione; diviene per la coscienza se il suo sapere l’oggetto corrisponda a quest’ultimo o no. È la coscienza che decide se l’oggetto corrisponde a questo oppure no. Chiaramente, questo oggetto è qualche cosa che la mia coscienza ha “concesso” di vedere – parlo di coscienza ma potremmo intendere come linguaggio. Quindi, come so che corrisponde? Adesso vediamo se ce lo dice. Pare bensì che per essa l’oggetto sia soltanto così com’essa lo sa; par quasi che essa non possa rintracciare come l‘oggetto sia non per lei stessa, ma in sé… Qui c’è una critica a Kant, ovviamente. …e pare che non le sia possibile mettere alla prova, in quello, il proprio sapere. Se non che, proprio perché la coscienza sa, in generale, un oggetto… Cioè: ha nozione di un certo oggetto. …è già data la differenza che qualche cosa le è lo in-sé;… Il fatto di pensare a un oggetto, anche se questo oggetto mi è dato dalla coscienza, comunque mi si pone una differenza tra l’in sé, l’Io e questo oggetto. …ma che, peraltro, il secondo momento è il sapere o l’essere dell’oggetto per la coscienza. L’essere in sé dell’oggetto è tale solo per la coscienza. Su questa distinzione, la quale è data, si basa l’esame. Distinzione tra l’Io e l’oggetto, per dirla in modo spiccio. Se in questo raffronto entrambi i membri non si corrispondono, allora la coscienza sembra dover mutare il proprio sapere per renderlo adeguato all’oggetto; ma nel mutarsi del sapere le si muta, in effetto, anche l’oggetto stesso;… Sta incominciando a dire qualcosa di straordinario. Se non si corrispondono, cioè, se c’è disparità tra ciò che so e l’oggetto, allora devo mutare il mio modo di vedere l’oggetto, ma mutando questo muta il mio modo di sapere intorno all’oggetto. …infatti quel dato sapere era essenzialmente sapere un oggetto il quale, poiché al sapere essenzialmente apparteneva, insieme con il sapere diviene anch’esso un altro oggetto. È come se in un certo senso avesse anticipato la semiotica. Anche Heidegger ha preso molto da qui: io progetto qualcosa, ma nel progettare io modifico questa cosa e la cosa modifica me: è esattamente il circolo ermeneutico. Lo rileggo: insieme con il sapere diviene anch’esso un altro oggetto: in seguito al mio sapere io so una cosa, ma questa cosa è inadeguata; allora modifico il concetto che ho dell’oggetto, modificando il concetto modifico il mio sapere e, quindi, modifico me. Diviene quindi alla coscienza che ciò che prima le era lo in-sé, non è in sé, ma era in sé solo per lei. È ciò che Freud chiamerebbe la fantasia, cioè: diviene alla coscienza, cioè ci si rende conto che ciò che prima era considerato l’in sé, l’essenza, non è in sé, non è qualcosa che appartiene alla cosa per se stessa, ma lo è per me, è così per me. Mentre essa dunque nel proprio oggetto trova che il proprio sapere non gli corrisponde, neanche l’oggetto stesso sta saldo; vale a dire, la misura dell’esame si muta, se ciò di cui essa dovrebbe esser misura non permane nell’esame; e l’esame non è soltanto un esame del sapere, ma anche dell’unità di misura dell’esame stesso. Come dire che l’unità di misura sono io. Questo movimento dialettico che la coscienza esercita in lei stessa, - e nel suo sapere e nel suo oggetto, - in quanto gliene sorge il nuovo vero oggetto, è propriamente ciò che dicesi esperienza. Qui dice una cosa importante. Dice in quanto gliene sorge il nuovo vero oggetto. Qual è il nuovo vero oggetto? È quello che io ho mutato a seconda del mio sapere, il quale viene a sua volta mutato dal nuovo oggetto. È quello il vero oggetto, cioè quell’oggetto che è per la mia coscienza. È l’esempio di “questa lampada che è sul tavolo”: questa lampada che è sul tavolo è quello che è, è ciò che appare, è la verità, è il concreto. La coscienza sa qualcosa; questo oggetto è l’essenza o lo in-sé; ma esso è lo in-sé anche per la coscienza; e con ciò entra in gioco l’ambiguità di quel vero. Sì, è vero in sé, ma è vero per me. Lui si è trovato di fronte a questo problema: sì, è vero che questo è questo, ma lo è per me, per la mia coscienza. Quindi, questo vero è ambiguo, non è un vero autentico, puro, certo. Noi vediamo che la coscienza ha ora due oggetti; l’uno è il primo in-sé, l’altro è l’esser-per-lei di questo in sé. Il primo è l’in sé – vedo la cosa in sé -, il secondo è il fatto che questo in sé è per me, per la coscienza, non è per sé. La questione fondamentale in Hegel è che ha divelto tutta la superstizione dell’esistenza della realtà in quanto tale, per se stessa, che ha in sé la propria causa e il proprio fine. Quest’ultimo oggetto sembra essere da prima soltanto la riflessione della coscienza entro se stessa;… Quest’ultimo oggetto, cioè, l’oggetto per la coscienza. …rappresentazione non già di un oggetto, ma soltanto del sapere che essa coscienza ha di quel primo oggetto. Cioè, dell’oggetto in sé. Se non che, ed è stato mostrato, ora le si muta il primo oggetto; esso cessa di essere lo in-sé, e le diviene un oggetto siffatto che è lo in-sé solo per lei;… La coscienza si accorge che l’in sé di questo oggetto non è per sé per l’oggetto stesso, ma per lei stessa, per la coscienza. …ma così ciò, l’esser-per-lei di questo in-sé, è poi il vero;… In effetti, cos’è il vero? Ciò che è per me, ciò che è per la coscienza. Questo è vero: è il concetto che la coscienza ha costruito. …il che significa peraltro che questa è l’essenza, o il suo oggetto. L’essenza, quindi, non appartiene all’oggetto; l’essenza, ciò che è indicato come il vero, cioè il fatto che questo in sé della cosa è un essere-per-lei. In questa presentazione del corso dell’esperienza, c’è un momento pel quale essa sembra non concordare con ciò che si suole intendere come esperienza. Ossia, il passaggio dal primo oggetto e dal sapere di esso stesso all’altro oggetto nel quale si dice essere stata fatta l’esperienza, fu accennato così che il sapere del primo oggetto, o il per-la-coscienza del primo in-sé, debba divenire il secondo oggetto. Il primo oggetto è ciò che la coscienza percepisce nell’immediato, che diventa secondo oggetto quando l’in sé dell’oggetto è per me, è per la coscienza. Sembra invece comunemente che in un altro oggetto noi facciamo esperienza della non-verità del nostro primo concetto;… Comunemente è così: è in un oggetto che noi facciamo esperienza della non-verità del primo, cioè, credo che sia in un certo modo e poi, guardando meglio, mi accorgo che non è così. In quel modo di vedere, invece, il nuovo oggetto si mostra come divenuto mediante un rovesciamento della coscienza stessa. Rovesciamento della coscienza, la quale si accorge dell’errore e, quindi, deve rimediare all’errore. Nostra aggiunta è una tale considerazione della cosa, per cui la serie delle esperienze della coscienza si elevi ad andatura scientifica: considerazione che non è per la coscienza da noi considerata. Ma ciò non è in effetto se non quella circostanza di cui già sopra parlammo a proposito della relazione di questa presentazione con lo scetticismo: che cioè ciascun resultato come si dà in un sapere non verace, non debba sfociare in un vuoto nulla, ma debba necessariamente venir riguardati come il nulla di ciò di cui è resultato, - resultato contenente quel che il precedente sapere ha in sé di vero. Questa è la critica che fa Hegel. Se mi accorgo, riferendomi a una certa cosa, che questa cosa è falsa, lui dice che, sì, generalmente questa cosa si elimina, ma – e qui c’è tutta una anticipazione nei confronti della psicoanalisi – tutto ciò che viene detto di “falso”, in realtà è vero, nel senso che sta dicendo qualche cosa che ha un suo contenuto. Vi ricordate la celeberrima frase di Freud: “ho sognato una donna ma non era mia madre”, cioè nega che la donna presente nel sogno fosse sua madre. Questa negazione, per la comunità scientifica, sarebbe un semplice annullare quella certa cosa e, quindi, non è sua madre. Invece no, già per Hegel, la questione è molto più complessa e anche più interessante. Ciò che viene scartato come falso, potremmo dirla così: ha molto da dire. Ciò ora qui si presenta così, che quanto per lo innanzi appariva come l‘oggetto, si abbassa, per la coscienza, a sapere di esso, e lo in-sé diviene un esser-per-la-coscienza dello in-sé:… Sta dicendo che generalmente l’oggetto ha una sua proprietà, una sua virtù, mentre lui parla di concetto dell’oggetto, toglie questa prerogativa di assolutezza dell’oggetto. …questo è il nuovo oggetto, con il quale compare anche una nuova figura della coscienza, figura alla quale l’essenza è qualche cos’altro che non alla figura precedente. Questa è la circostanza che conduce nella sua necessità l’intera successione delle figure della coscienza. Qual è la nuova figura che compare? La figura che compare – adesso ve la dico in modo molto rapido – è la sintesi, sintesi tra il positivo e il negativo. Se io non scarto più il falso come qualche cosa che deve essere eliminato, questo falso rimane come qualcosa che ha un suo contenuto e che è in relazione con ciò che ho posto, con il positivo. Solo questa necessità stessa e il sorgere del nuovo oggetto che, senza che essa sappia come le accade, si offre alla coscienza, è ciò che per noi si muove, per così dire, dietro le spalle di essa. Cioè: noi non sappiamo bene cosa sta succedendo mentre parliamo, ma qualcosa si muove dietro alle spalle del nostro dire, soltanto dopo sapremo cosa abbiamo voluto dire, quado, confrontandoci con ciò che abbiamo detto – qui c’è la psicoanalisi – teniamo conto anche di ciò che non è stato detto, o che il dire voleva eliminare per inserirlo nel positivo, in ciò che è stato affermato, rendendo in un certo senso ciò che è stato affermato in un concreto. Questo perché nell’isolare il positivo e il negativo è come se ponessi due astratti anziché il concreto, come due figure separate tra loro, prese astrattamente. Ciò che Hegel avanza – Severino ha poi preso anche lui da qui – è l’idea di un concreto che è fatto, sì, di questi due astratti, ma anche di una relazione tra loro che è indissolubile. Nel movimento della coscienza si produce quindi un momento dell’essere-in-sé o essere-per-noi; momento che non si presenta per essa, la quale è essa medesima immersa nell’esperienza; ma il contenuto di ciò che a noi vien sorgendo è per la coscienza; e noi di esso comprendiamo soltanto il lato formale o il suo puro sorgere; per quella ciò che è sorto è solo come oggetto; per noi è in pari tempo come movimento e divenire. Questa cosa che sorge, questa nuova figura, questa sintesi, potremmo indicarla come un nuovo oggetto, ma il contenuto di questo nuovo oggetto, ci dice, è per la coscienza. Dire che è per la coscienza è come dire che è per noi. Nel momento in cui sorge noi comprendiamo solo il sorgere di questa nuova figura, cioè, per la coscienza si pone come nuovo oggetto; per noi, sì, come nuovo oggetto ma anche come movimento e divenire: la coscienza si accorge di questo movimento che produce continuamente nuovi oggetti, che si producono nel momento in cui, anziché prendere il negativo e il positivo come due astratti, li prende insieme come il concreto; il concreto, che ne viene, è un nuovo oggetto. Questo o aveva inteso anche Greimas quando diceva che nella relazione tra A e B non ci sono più A e B ma c’è la relazione tra A e B, che è un’altra cosa; A e B non sono più la stessa cosa perché c’è una relazione tra i due: è questa relazione il terzo elemento, il concreto. Punto 17. L’esperienza che la coscienza fa di sé, non può, secondo il concetto dell’esperienza stessa, comprendere in sé meno dell’intero sistema della coscienza, ossia l’intero regno della verità dello spirito;… Sta parlando del concreto. L’esperienza che la coscienza fa di sé non può comprendere di sé meno del concreto. L’esperienza che la coscienza fa di sé è il concreto; è “questa lampada che è sul tavolo”, è il concreto, è l’intero. …così che i momenti della verità si presentano in questa peculiare determinatezza; non essere puri momenti astratti; si presentano, anzi, così come essi sono per la coscienza, o come questa stessa compare nel suo rapporto con quelli, per modo che i momenti dell’intiero sono figurazioni della coscienza. Quindi, momenti dell’intero. Sono figure della coscienza, cioè, permangono come figure ma sono momenti dell’intero, per cui non sono più A e B, ma A e B sono momenti della relazione. Poi, annuncia ciò che apparirà alla fine della sua opera: Sospingendo la coscienza se stessa verso la sua esistenza vera, raggiungerà un punto nel quale depone la sua parvenza di essere inficiata di un alcunché estraneo, che è solo per lei ed è come un altro; o dove l’apparenza diviene eguale all’essenza, dove, quindi, la presentazione della coscienza coincide proprio con questo punto della scienza dello spirito propriamente detta; e dove infine, nel cogliere questa sua essenza, la coscienza medesima segnerà la natura dello stesso sapere assoluto. Diciamola in un’altra maniera. L’obiettivo, la direzione è questa: giungere a potere, in ciascun atto di parola, cogliere questo atto come il concreto, come l’intero, come il tutto, cioè, in ciascun atto di parola è presente il tutto, è presente l’intero. Questo lo dicevamo anche a proposito di Severino. Il sapere assoluto, parafrasando Hegel, ciò cui punta tutta la Fenomenologia dello spirito, potremmo dire che non è altro che il rilevare che parlando è presente il tutto: ogni cosa che dico comporta il tutto, cioè il linguaggio, comporta l’intero, comporta il concreto. Poi, parlando, mi trovo preso in mille frammentazioni, in mille astrazioni, ma ciò che dà la verità in ciò che si dice è il concreto, è l’intero. Hegel lo ha detto: il vero è l’intero e l’intero è il vero, cioè, il concreto, la consapevolezza, la coscienza che ciascun atto di parola comporta ciascun altro atto di parola. Meglio ancora: ogni atto di parola è anche ciascun altro atto di parola, cioè, lo rinvia. Dice Hegel, raggiungerà un punto nel quale depone la sua parvenza di essere inficiata di un alcunché estraneo, cioè, non c’è più nulla di estraneo al dire. Ciascun atto di parola è il tutto, comprende tutto il linguaggio, linguaggio in quanto l’intero, che deve essere presente in ciascun atto di parola. Quindi, non gli è più estraneo in qualche altra cosa, perché quest’altra cosa è comunque già presente, fa parte dell’intero, non c’è più nulla di estraneo. E siamo arrivati alla Coscienza. Il capito primo si intitola La certezza sensibile o il questo e l’opinione. In questa Introduzione ci ha detto, e questa è la cosa forse più importante, che l’oggetto è per la coscienza, cioè, è quello che è per lei. Tenete però sempre conto, per ciò che sappiamo oltre Hegel, che l’oggetto non è che un significato e che se non fosse un significato sarebbe niente. Quindi, questo movimento non è altro che il movimento di cui parla de Saussure, movimento del significante verso il significato, come l’oggetto, per dirla così, del significante. Il significante sarebbe l’in sé, è ciò che è immediatamente evidente. La coscienza lo pone come l’in sé, certo, ma se non ci fosse un per sé, se non ci fosse un significato verso il quale rinvia, questo in sé rimarrebbe lì appeso e non significherebbe nulla. Un significante senza significato non significa niente, ma questo non significa che non esista. La coscienza lo rileva, lo rileva in quanto in sé, in quanto vuoto, in quanto nulla, potremmo giungere a dire. Quindi, ecco che questo movimento non è altro che il movimento che avviene necessariamente nel linguaggio: se dico, dico necessariamente qualcosa. Questo potrebbe in realtà riassumere tutto ciò che ha detto Hegel. Questo qualcosa è indissolubilmente legato al mio dire, non esiste da solo. Questo fa intendere molto bene come non può esistere l’oggetto da solo: il ciò di cui dico non può esistere da solo, esiste in ciò che sto dicendo, e cioè nell’atto di parola.