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3 giugno 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Hegel fa ciò che Heidegger suggerisce di fare, e cioè di farsi carico del problema, considerando il problema come ciò che è da pensare, più che qualcosa da risolvere, da pensare, da pensare ancora. Infatti, la specificità dell’approccio di Hegel è che quando considera una questione non cerca la “soluzione” della questione fuori dalla questione, ma cerca all’interno della questione. Come dire che, siccome si tratta di concetti – non a caso si chiama idealismo la filosofia di Hegel, l’idea, cioè il pensiero o lo spirito, come lo chiama altre volte – allora, quando si fa carico di un problema incomincia a riflettere intorno al concetto, cioè intorno al pensiero, intorno a ciò che questo problema pone rispetto al linguaggio. In altri termini, cerca di intendere le questioni senza cercare qualcosa fuori dal linguaggio. È un’operazione di notevole interesse, anche perché qualche anno più tardi Peirce, che è nato otto-nove anni dopo la morte di Hegel, ha fatto un lavoro che è simile per alcuni versi a quello che fa Hegel. Quando Peirce parla del segno e giunge a considerare che qualunque cosa è segno, che non ci sono altro che segni, ci sta dicendo che ciò che appare è un segno, non è nient’altro che questo; un segno che è composto, come diceva Hegel rispetto all’apparenza, di un’esistenza e di un’essenza. L’esistenza è un essere in relazione con altre cose, cioè con altri elementi linguistici. Esattamente come diceva de Saussure rispetto al significante: il significante è quello che è per una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Quindi, potremmo dire che ciò che appare, quindi la relazione tra l’esistenza e l’essenza, l’apparenza per Hegel, è il segno. Il che è esattamente ciò che dice Peirce: ciò che appare, ciò con cui abbiamo a che fare quotidianamente, è il segno; tutto ciò che vediamo, che sentiamo, che tocchiamo, tutte queste cose sono segni, se sono qualcosa sono segni, sennò sono nulla. Questo è interessante perché mantiene la riflessione all’interno del linguaggio; sulla scia di Peirce, non ci sono altro che segni, il mondo è fatto di segni. Se qualcosa non fosse un segno non sarebbe. Questo, dunque, è l’approccio di Hegel. Il segno per Hegel non è che la relazione tra l’esistenza e l’essenza. Per riportare la cosa a de Saussure, l’esistenza come il significante, ciò che c’è, se dico tavolo dico tavolo e non un’altra cosa; l’essenza come il significato, cioè, è ciò che questo significante significa, è ciò che dà al significante la sua essenza, per cui il significante è quello che è.

Intervento: La scienza della logica non è analisi del puro pensiero?

Scienza della logica in Hegel ha un significato un po’ differente da come si intende oggi il termine scienza. In Hegel il termine scienza è più vicino all’uso che se ne faceva un secolo fa, molto lontano da ciò che si intende oggi. Scienza come il sapere, semplicemente – ho avuto scienza che siete qui questa sera; scienza del logòs. È un sapere e Hegel si interroga su come accade questo sapere, qual è il movimento che produce quella cosa che chiamiamo sapere. Ha individuato dapprima l’essere; poi, si è occupato dell’essenza; l’ultima parte sarà il concetto, che non è che la relazione tra l’essere e l’essenza, che a questo punto sono diventati momenti di un intero. A pag. 558. L’esistenza è l’immediatezza dell’essere, nella quale si è daccapo ristabilita l’essenza. Questa immediatezza è in sé la riflessione in sé dell’essenza. L’essenza è sorta quale esistenza dal suo fondamento, che è appunto passato in quella. L’esistenza è questa immediatezza riflessa, in quanto è in lei stessa l’assoluta negatività. Ormai essa è anche posta come cotesto, poiché si è determinata quale apparenza. Quindi, l’apparenza come la relazione tra l’essenza e l’essere. Vi è solo l’apparenza… Apparenza è da intendersi sempre come l’apparire. Apparire viene dal greco φανεσθαι, che ha alla radice φς, luce, ciò che viene in luce. Vi è solo l’apparenza, - nel senso che l’esistenza come tale non è che un posto, non già un essere in sé e per sé. È soltanto qualcosa che pongo, che affermo, potremmo dire. Questo costituisce la sua essenzialità, di avere in lei stessa la negatività della riflessione, la natura dell’essenza. Non è già cotesto una riflessione estranea, esteriore, cui l’essenza appartenga, e che mediante il confronto dell’essenza coll’esistenza dichiari quest’ultima quale apparenza. Ma, secondo che si è mostrato, questa essenzialità dell’esistenza, di essere apparenza, è la propria verità dell’esistenza. La riflessione, pe cui mezzo essa è tale, appartiene a lei stessa. Come dire che tutto ciò che ci appare, questa sua esistenza di ciò che appare, appartiene a lei stessa, non viene da altro. È questo, come vi dicevo prima, l’approccio di Hegel alle questioni, considerandole senza l’apporto esterno, cioè di altro che dovrebbe arrivare a spiegare.

Intervento: …

È quel momento che Hegel nella Fenomenologia chiamava autocoscienza: non solo penso ma so che sto pensando. La scienza della logica è un sapere del linguaggio. Un sapere sia nella nozione oggettiva che soggettiva, nel senso che è un sapere sul linguaggio, ma è anche un sapere che il linguaggio possiede su se stesso. È il linguaggio che riflette su se stesso. A pag. 568. Questo mondo che è in sé e per sé si chiama anche il mondo soprasensibile… Qui sta ponendo la distinzione tra immanente e trascendente, tra ci che è presente e ciò che non lo è. Torniamo sempre alla questione del significate e del significato: il significante è l’immanente, è ciò che c’è qui in ciò che sto dicendo; il significato non lo posso dire, nel senso che per dire il significato devo dire altri significanti, e quindi il significato è trascendente rispetto al significante. …in quanto si determina il mondo esistente come sensibile, cioè come tale che è per l’intuizione, per il contegno immediato della coscienza. Il mondo soprasensibile ha anch’esso un’immediatezza, una esistenza, ma una esistenza riflessa, essenziale. Di fatto, nell’elaborazione di Hegel il mondo soprasensibile è l’essenza. L’essenza non ha ancora un esser determinato, ma è, e in un senso più profondo che non l’essere; la cosa è il cominciamento dell’esistenza riflessa; è un’immediatezza, che non è ancora posta come essenziale o riflessa;… Questa immediatezza è ciò che ancora non è stata riflessa su di sé. …in verità però non è un immediato che sia. Soltanto le cose, quali cose di un altro mondo, di un mondo soprasensibile, son poste in primo luogo come vere esistenze e in secondo luogo come il vero contro ciò che è; - in esse si riconosce che si dà un essere differente dall’essere immediato, un essere che è vera esistenza. Perché ci sia una vera esistenza, ci sta dicendo Hegel, non basta l’essere, ma occorre che questo essere si rifletta su di sé; questo riflettere su di sé dell’essere è l’essenza. Ma è l‘essenza il vero in tutto ciò, potremmo dire, il significato; senza questo significato, cioè senza l’essenza, l’essere è nulla, perché, come ci ha detto in tantissime occasioni, è senza determinazioni e, quindi, è nulla. Da un lato è superata in questa determinazione la rappresentazione sensibile, che attribuisce una esistenza soltanto all’essere immediato del sentimento e dell’intuizione; dall’altro lato poi vi è superata anche la riflessione inconscia, la quale ha bensì la rappresentazione di cose, di forze, d’interno, ecc., senza però sapere che coteste determinazioni non sono già immediatezze sensibili o appartenenti all’essere, ma anzi sono esistenze riflesse. Poco più avanti. Il mondo fenomenico ha nel mondo essenziale la sua unità negativa, nella quale cade giù, e nella quale ritorna come nella sua ragion d’essere. Inoltre il mondo essenziale è anche il fondamento che pone il mondo fenomenico. Come dire che senza l’essenza, senza questa riflessione, non c’è nessun fenomeno, cioè non appare niente. Senza linguaggio non appare niente, le cose non appaiono; soltanto nel linguaggio qualcosa può apparire. È una posizione molto interessante se si considera che è soltanto perché parliamo che possiamo porci queste questioni, sennò queste questioni non sarebbero mai esistite, come qualunque altra cosa, anche perché, per parlare di esistenza occorre concettualizzare, solo allora posso dire che qualcosa esiste. A pag. 570. Il mondo che è in sé e per sé è dunque esso stesso un mondo diverso in sé, nella totalità del molteplice contenuto. Di nuovo sta proponendo l’antica questione dell’uno e dei molti: c’è qualcosa che interviene come uno, ma perché questo uno sia quello che è occorre che sia fatto di tante cose. Di nuovo torniamo a de Saussure, che ha ripreso senza conoscere Hegel: il significante è uno, è quello che è, ma se non avesse il significato, che è una pluralità di cose, il significante non sarebbe; quindi, il significante è uno e molti, simultaneamente. A pag. 571, Risoluzione dell’apparenza. Risoluzione nel senso, come diceva prima, che questo mondo è identico al mondo fenomenico ossia posto, in quanto ne è il fondamento; come dire che l’uno è identico al molteplice e, quindi, ci sarebbe la contraddizione, quella di Parmenide. Il mondo che è in sé e per sé è la ragion d’essere determinata del mondo che appare, ed è tale solo in quanto ha in lui stesso il momento negativo, epperò quella totalità delle determinazioni di contenuto e dei loro mutamenti, la quale corrisponde al mondo che appare, ma in pari tempo ne costituisce il lato opposto. I due mondi stanno dunque fra di loro in un rapporto siffatto, che quello che nel mondo fenomenico è positivo, è negativo nel mondo che è in sé e per sé, e viceversa… Ciò che è positivo nel fenomeno, ciò che si pone, è il negativo di quell’altro: A è il negativo di non-A, e non-A è il negativo di A. Nel fatto è appunto scomparsa in questa opposizione dei due mondi la loro differenza, e quello che doveva essere un mondo in sé e per sé è esso stesso un mondo che appare, mentre vicever5sa questo è in lui stesso un mondo essenziale. In questa oscillazione continua.

Intervento: …

Più che a immagini Hegel si riferisce a concetti. Qui torniamo alla questione di prima, ed è la questione più importante: in effetti, lui sta parlando di linguaggio utilizzando il linguaggio, e cioè tutte le cose che pone (l’in sé, il per sé, ecc.) non sono enti di natura ma enti di ragione, concetti, sono atti di parola.

Intervento: Solo i numeri 1,2 e 3 sono enti natura…

Questo lo si può pensare; in quanto a dimostrarlo è piuttosto difficile… però, lo si può pensare. Dicevo che la cosa più importante in Hegel, e che attraversa tutto il suo pensiero, è che, in effetti, non fa altro che parlare di linguaggio e dire che non c’è modo di uscirne. Chi prova a uscirne è la religione; ci prova e pensa di esserci riuscita, ma con tutti i problemi che incontra, così come abbiamo visto nella Fenomenologia. È la religione che cerca di porre i due momenti, che sono sempre presenti in Hegel, come separati, non come lo stesso attraverso l’unità loro, cioè l’integrazione, l’Aufhebung. La religione fa questo e, ponendo questi momenti come separati, li pone come fuori del linguaggio: è per questo che la religione può costruire tutto ciò che costruisce: l’idea che ci siano il bene e il male, il vero e il falso, ecc. Sono strumenti, che possono anche essere utili qualche volta, ma sempre tenendo conto, e questo Hegel non lo dimentica mai, che perché ci sia uno deve esserci l’altro. Non è che l’altro ci sia e bisognerebbe che non ci fosse; no, l’altro, cioè la sua negazione, è la condizione della sua esistenza, condizione senza la quale non c’è. A pag. 572. Il mondo che appare e il mondo essenziale sono pertanto ciascuno in lui stesso la totalità della riflessione con sé identica e della riflessione in altro, ovvero dell’essere in sé e per sé dell’apparire. Son tutti e due gli Intieri per sé stanti dell’esistenza. Questa è un’altra questione interessante. Ciascuno dei due momenti, di cui parla, sia il fenomeno che l’essenza, entrambi sono l’intero, perché entrambi non esistono senza l’intero, cioè senza la loro relazione. È la loro relazione che è l’intero. Qui accenna alla legge che lui pone come rapporto essenziale tra l’essenza e il fenomeno, come ciò che fissa questo rapporto. A pag. 573. La verità del mondo inessenziale è anzitutto un mondo altro da esso, un mondo che è in sé e per sé. Se non che questo è la totalità, in quanto è se stesso e quel primo. Così tutti e due sono esistenze immediate, epperò riflessioni nel loro esser altro, come anche appunto perciò veramente riflessi in sé. La parola mondo esprime in generale la totalità informe della molteplicità. Questo mondo, tanto come mondo essenziale, quanto come mondo fenomenico, è andato giù, la molteplicità avendo cessato di essere una molteplicità semplicemente diversa; così esso è ancora totalità o universo, ma come rapporto essenziale. Questi due mondi, questi due momenti, vanno giù, scompaiono nel momento in cui si pongono come rapporto essenziale. La relazione fa scomparire i due momenti, che non sono più i momenti in quanto tali ma sono una relazione. Di nuovo qui ci sarebbe da citare Peirce, che anche lui giunge alla stessa conclusione: nella relazione A è B, A e B scompaiono, anche se non usa questi termini, ma ciò che rimane è la relazione. Relazione che necessita di questi due momenti, ma non sono più due figure, due istanze, sono due momenti della relazione. Son sorte nell’apparenza due totalità del contenuto. Anzitutto son determinate una di fronte all’altra come dei per sé stanti indifferenti…  È così che appaiono, e la religione li prende così. …e hanno bensì la forma ciascuna in lei stessa, ma non l’una di fronte all’altra. Questa però si è anche mostrata come la lor relazione, e il rapporto essenziale è il compimento della loro unità di forma. Questo è il loro compimento, quello che più avanti diventerà il concetto. Ora, parla del rapporto essenziale. La verità del fenomeno è il rapporto essenziale. La verità di ciò che appare è questo essere un rapporto. Il contenuto di questo rapporto ha un per sé stare immediato, e precisamente l’immediatezza dell’essere e l’immediatezza riflessa o la con sé identica riflessione. In pari tempo cotesto contenuto è in questo per sé stare un contenuto relativo… C’è sempre in Hegel questo movimento tra l’immediato e il mediato; come dire che l’immediato c’è in quanto mediato, e viceversa. …addirittura solo come riflessione nel suo altro, o come unità della relazione col suo altro. In questa unità il contenuto per sé stante è un posto, un tolto;… Abbiamo visto la volta scorsa come il posto è tale in quanto tolto: lo pongo e lo tolgo, perché ponendolo lo determino, determinandolo lo sposto su qualche cos’altro che non è. …ma appunto questa unità costituisce la sua essenzialità e il suo star per sé; questa riflessione in altro è riflessione in se stesso. Il rapporto ha dei lati perché è riflessione in altro. Così ha la differenza di se stesso in lui; e i lati sono un sussistere indipendente in quanto nella loro indifferente diversità reciproca son rotti in se stessi, così che il sussistere di ciascuno ha parimenti il suo significato solo nel riferimento all’altro o nell’unità negativa dei due. Il rapporto essenziale non è quindi certamente ancora il vero terzo,… Il terzo, cioè, il concetto, la relazione. …rispetto all’essenza e all’esistenza, ma contien già l’unione determinata di esse due. Ci sono già in questo rapporto essenziale, anche se non si è posto ancora come concetto, lo dovrà diventare naturalmente, e lo diventerà. Il lato del rapporto essenziale è una totalità, la quale però come essenziale ha un contrapposto, un al di là; è soltanto fenomeno; l’esistenza sua, anzi, non è la sua, ma quella del suo altro.  È quindi un che di rotto in se stesso. Ma questo suo esser tolto consiste in ciò ch’esso è l’unità di se stesso e del suo altro, epperò è un tutto, e appunto per questo ha una esistenza per sé stante ed è riflessione essenziale in sé. Questo è il concetto del rapporto.

Intervento: …

In un certo senso, sì. Hegel pone l’essere come il nulla. Che sia inconoscibile…, qui c’è la critica che fa a Kant rispetto alla cosa in sé, che è effettivamente inconoscibile per Kant. Ma è inconoscibile perché Kant pone la cosa in sé come qualcosa che è a se stante; mentre Hegel pone l’inconoscibile come il negativo del posto, il contrapposto di qualcosa. Quindi, non è più inconoscibile….

Intervento: …

Pone l’inconoscibile, la cosa in sé, non più come figura, come istanza, ma come momento, momento di una integrazione, per cui la cosa in sé di Kant diventa il negativo del positivo. In questo senso è ciò che diventa la condizione della conoscenza. La cosa in sé di Kant, che è impossibile da conoscere, per Hegel si pone come qualche cosa che è necessario all’interno del movimento che porta alla conoscenza. Senza questo elemento che, potremmo anche dire così, è ancora vuoto, non c’è l’avvio di tutto il percorso. È per questo che arriva a dire a un certo punto che il primo movimento, il primo passo, di fatto non è conoscibile in quanto primo. La stessa cosa diceva Peirce dicendo che non c’è il primo segno, il primo è già sempre il secondo. Come dire che non c’è il primo passo se non alla fine del percorso; solo alla fine del percorso posso determinare quel primo passo; alla fine del percorso determino la cosa in sé, non tanto come ciò che non si può conoscere, ma come quell’elemento che ha dato l’avvio a qualcosa, elemento di cui ne so soltanto alla fine; prima effettivamente si pone come il nulla, come l’essere, che è senza determinazioni; anzi, la sua determinazione è essere senza determinazioni. A pag. 575. Il rapporto essenziale è pertanto immediatamente il rapporto del tutto e delle parti, - la relazione dello star per sé riflesso e dello star per sé immediato, cosicché tutti e due in pari tempo non sono se non in quanto reciprocamente si condizionano e si presuppongono. In questo rapporto nessuno dei lati è ancora posto come momento dell’altro. Siamo ancora al pensiero religioso. La loro identità è quindi essa stessa da un lato, ossia non è la loro unità negativa. Quindi è che si passa in secondo luogo a ciò che l’un dei lati è momento dell’altro ed è in quello come nel suo fondamento e vero per sé stante dei due, - rapporto della forza e della sua estrinsecazione. In terzo luogo si toglie l’ineguaglianza che ancora persisteva di questa relazione, e l’ultimo rapporto è quello dell’interno e dell’esterno. – In questa differenza divenuta interamente formale va giù il rapporto stesso, e sorge la sostanza o il reale come unità assoluta dell’esistenza immediata e dell’esistenza riflessa. L’esistenza immediata è quella della coscienza sensibile, l’esistenza riflessa è quella della certezza sensibile che diventa autocoscienza, per riprendere i termini della Fenomenologia dello spirito. A pag. 577. Quindi è che il tutto e le parti si condizionano reciprocamente. Come dire che l’una è la condizione dell’altra. Ma il rapporto qui considerato sta insieme anche al di sopra della relazione che corre fra il condizionato e la condizione, secondo che cotesta relazione si era determinata dianzi. Questa relazione è qui realizzata, vale a dire è posto che la condizione è l’essenziale per sé stare del condizionato in modo tale ch’essa vien presupposta da questo. Ciascuna delle due si presuppone: l’uno presuppone i molti, i molti presuppongono l’uno. Ma dicendo che presuppone ci dice anche un’altra cosa, oltre a indicare questo movimento, e cioè ci dice che si tratta di questioni linguistiche. Che i molti si contrappongano all’uno non è un dato di fatto, non è fattuale, è un fatto linguistico, nel senso che sono elementi linguistici ciò con cui ho a che fare, non sono enti di natura. I molti sono un concetto, così come l’uno; quindi, non faccio altro che continuare a parlare di concetti. È chiaro che il passaggio dal tenere sempre ben presente ciò che si sta facendo, e cioè che si sta parlando, all’idea che invece ci si stia riferendo a qualche cosa che linguaggio non è, questo rischio di scivolare nel pensiero religioso è sempre presente, e cioè che esista fuori da questo rapporto qualche cosa e che, in definitiva, ne costituisca la garanzia. Perché se è fuori del linguaggio allora può garantire della stabilità di qualche cosa, se è nel linguaggio no, non può garantire di nessuna stabilità; può garantire soltanto che la stabilità è un concetto, identico a sé.

Intervento: …

Ne è sicura? Perché Hegel sta dicendo esattamente il contrario. L’uno è una presupposizione. Parlando dell’uno presuppongo i molti, cioè questo uno è pur fatto di qualche cosa, e questo qualche cosa di cui è fatto sono appunto i molti. Era il problema di Parmenide…

Intervento: Il concetto di uno è innato…

Lo si può pensare, ovviamente. Altro, però, è porsi veramente di fronte alla questione, e cioè cominciare a domandare di che cosa stiamo parlando quando parliamo di qualcosa che è fuori del linguaggio. Questa potrebbe essere una domanda alla Heidegger. Immaginare qualcosa fuori del linguaggio comporta una sorta di problema che appare irresolubile. Da dove vengono tutti i paradossi? Dall’idea che qualcosa, da fuori del linguaggio, debba rispondere di sé, ma come fa? Non lo può fare e, quindi, ci si trova di fronte a una sorta di atto di fede. Quello che hanno fatto questi psicologi è un atto di fede, e cioè: io ho fede che sia così. Va bene, è come pensare che l’uno sia dio, Plotino lo pensava. Non c’è niente di male, ma in questo caso non ci si fa carico del problema, e cioè che affermare una cosa del genere, cioè affermare che una cosa è fuori del linguaggio, costituisce un problema. In che modo lo approccio? In che modo ne so qualcosa? Ne so soltanto attraverso il linguaggio, ovviamente, perché solo la scienza della logica, cioè il sapere del linguaggio, mi consente di costruire un concetto che potrà poi portarmi ad affermare una serie di cose; ma senza questo concetto, e questo Hegel lo sapeva bene, non c’è niente. Proprio per questo Hegel era giunto a dire che perché mi appaia qualche cosa occorre che ci sia il concetto, occorre che ci sia il linguaggio; senza il linguaggio non può apparire niente. È in questo senso che parlare di qualcosa fuori del linguaggio costituisce un problema. Un problema che va pensato, naturalmente. Pensato come? Con il linguaggio, non abbiamo un altro sistema per pensare. A pag. 577. Il tutto non è una unità astratta, ma è l’unità come unità di una diversa molteplicità. Questa unità però, come quello in cui il molteplice reciprocamente si riferisce, è la sua determinatezza per la quale esso è parte. … Ma oltracciò il tutto è uguale alle parti. Qui incomincia a riflettere sul tutto e sulle parti per giungere a considerare che il tutto e le parti sono momenti di una relazione, cioè, non posso parlare del tutto senza parlare delle parti di cui è composto, e non posso parlare delle parti se non con un riferimento a un tutto che le comprende. A pag. 580. Il tutto e le parti son cioè altrettanto essenzialmente in relazione fra loro indifferenti ed hanno una sussistenza indipendente. … nel liberarsi dall’altro, immediatamente lo fa sorgere. Determinato dunque l’esistente come un tutto, esso ha delle parti, e le parti costituiscono la sua sussistenza;… Se io pongo un tutto, come un’unità, questo è nulla finché non c’è un’essenza, cioè finché questo tutto non riflette su di sé. Riflettendo su di sé si altera, muta, e soprattutto mette in evidenza che il solo riferirsi a se stesso già comporta delle parti, che sono al di fuori del tutto. …l’unità del tutto è soltanto una relazione posta, una composizione esterna, che non tocca per nulla l’esistente per sé stante. Che rimane quello che è. In quanto ora questo è parte, non è tutto, non è un composto, epperò è un semplice. Ma siccome la relazione a un tutto gli è estrinseca, cotesta relazione non lo tocca. Il per sé stante quindi è anche tale che in sé non è parte, perché è parte solo per mezzo di quella relazione. Sta facendo il discorso che faceva prima: la parte e il tutto che si pongono uno di fronte all’altro ma in modo tale che ciascuno, sì, è indipendente per sé, in quanto si mostra differente l’uno dall’altro, tuttavia, si pone come momento di una relazione fra i due. La volta scorsa dicevamo: che cos’è una X? La X è tutto ciò che non è non-X, è questa la sua essenza: di essere se stessa, cioè di non essere altro da sé. Quindi, che cos’è la X? È il non essere altro da sé; quindi, è una negazione, cioè, per potere porre devo negare, sennò la X non l’ho nemmeno posta, non c’è. Ora Hegel affronta il tema della forza, concetto noto alla fisica, e fa un discorso sulla forza che ripercorre ciò che dicevo all’inizio, e cioè considera la forza non in relazione a qualcosa che le è estrinseco ma in relazione a se stessa, cioè come concetto. A pag. 581. La forza è l’unità negativa, nella quale si è risoluta la contraddizione del tutto e delle parti, la verità di quel primo rapporto. Il tutto e le parti sono il rapporto vuoto di pensiero in cui si abbatte sulla prima la rappresentazione; ovvero, obbiettivamente, è cotesto l’aggregato morto, meccanico, che ha bensì delle determinazioni di forma, per cui la molteplicità della sua per sé stante materia vien messa in relazione in un’unità, ma in modo però che questa unità resta estrinseca a quella. Sta dicendo che finché si mantengono separate le due cose, la contraddizione permane, perché una cosa è se stessa ma anche il suo contrario. Il modo in cui Hegel risolve dialetticamente la contraddizione è dire che la cosa e il suo contrario sono lo stesso, non sono due opposti che si fronteggiano e che si negano l’un l’altro. negando un elemento il suo opposto lo integra, lo assume su di sé.

Intervento: C’è un punto in cui chiarisce il concetto di negatività?

Sì, lo dice spessissimo. La negatività non è altro che il porsi di qualche cosa attraverso la negazione di ciò che quella cosa non è. Per potere porre qualche cosa, per potere affermare X, devo, affermando X, negare tutto ciò che X non è. È il discorso che faceva anche Severino quando parlava dell’essere e del non essere. Diceva: se io parlo dell’essere, questo essere non è determinato da nulla, rimane indeterminato e, quindi, può anche essere un non essere. Quindi, occorre che io ponga l’essere ma anche ciò che l’essere necessariamente non è; che cos’è che non è l’essere? Il non essere. Devo quindi porre il non essere e toglierlo; soltanto a questo punto posso affermare con certezza che l’essere non è non essere, anziché essere qualunque cosa, compreso il suo contrario.

Intervento: …

Irrilevante in quanto consente, per es., a Severino di affermare l’essere in modo incontrovertibile. Soltanto quando affermo che l’essere non è non essere allora determino l’essere, sennò è qualunque cosa e il suo contrario. Se, invece, posso negare che l’essere non è non essere, solo a questa condizione l’essere è determinato. Quindi, la negazione ha la sua funzione, che è imprescindibile; un po’ come nel complemento booleano: quando scrivo ~X, cioè nego X, sto indicando tutto ciò che la X non è: la totalità degli enti meno la X.

Intervento: Il negativo non è conoscibile….

Dipende da cosa si intende con conoscibile, perché se indico con negativo di qualcosa tutto ciò che questo qualcosa non è, allora è conoscibile, nel senso che lo definisco come la totalità degli enti senza questo; quindi, è conoscibile, per definizione direi. Ma tutto dipende da che cosa si intende con conoscibile, ovviamente. A pag. 581. Il rapporto della forza invece è il superiore ritorno in sé, dove l’unità del tutto, che costituiva la relazione del per sé stante esser altro, cessa di essere un che di estrinseco e d’indifferente a questa molteplicità. Cos’è la forza per Hegel? L’unità e il molteplice sono due elementi che si respingono da sé. Questo respingersi da sé di un elemento rispetto al suo negativo, per Hegel è la forza, un concetto che lui trae unicamente dal movimento dialettico. La forza è il respingersi da sé di un elemento dal suo negativo. Hegel parla di due forze: una che muove e l’altra che si oppone; sono interscambiabili, naturalmente: quando c’è l’una non c’è l’altra, e viceversa. Potremmo quasi dire che la forza è ciò che tiene insieme questi due momenti, in quanto entrambi si respingono, ma allo stesso tempo, nel respingere qualche cosa, c’è anche una forza che lo attrae. Questo lo si può notare nel movimento dialettico, quando un elemento incontra la prima negazione, il suo negativo, che respinge, appunto perché negativo, e la forza in questo caso sarebbe la forza di repulsione. Ma, al tempo stesso, la seconda negazione è quella che toglie la prima negazione e riflette su di sé ciò che è stato negato; quindi, è un’altra forza che interviene. La forza di cui parla Hegel è questa: la forza che tiene insieme i due momenti della relazione; li tiene insieme respingendo da una parte ma attraendo dall’altra, perché quando nella seconda negazione l’elemento negato si riflette su di sé abbiamo la estrinsecazione della forza. Quando definisco la X come tutto ciò che non è non-X, tutto ciò che non è X si oppone a X, ma nel momento in cui la X è questo non essere nient’altro che l’identità con sé, quindi, l’eliminazione di tutto ciò che non è, allora, dicendo che questa è veramente la X, ritorna su di sé, riflette su di sé, e questa forza riconduce la negazione di X sulla X. L’effetto di tutto ciò è che ciascun elemento è simultaneamente e necessariamente se stesso e altro da sé.