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M. Heidegger, Essere e Tempo

 

3 maggio 2017

 

Si tratta di provare a fare funzionare le varie cose che abbiamo dette intorno a Heidegger rispetto a ciò che a noi interessa di più, cioè, la questione del linguaggio, della tecnica e, possiamo aggiungere, della teoria. Il modo in cui stiamo leggendo Heidegger è certamente particolare ma ciò che ne stiamo traendo sempre di più è che ci si trova di fronte a un qualche cosa, lui lo chiama l’Esserci, che è come se fosse fuori dalla teoria. Per fare teoria occorre obiettivare le cose, è necessario che io pensi che una certa cosa sia lì, sia quella che è, e pertanto posso discuterne, posso parlarne. Quindi, potremmo dire, cartesianamente, che se non c’è obiettivazione di qualcosa non c’è possibilità di fare teoria, visto che la teoria non fa altro che costruire affermazioni che descrivono qualcosa, cioè, descrivono uno stato di cose: la teoria deve descrivere qualcosa, sennò cosa fa? Fa niente. Se non ci fosse qualcosa di obiettivato, o immaginato come tale, la teoria non potrebbe fare nulla perché, per esempio, non saprebbe di che cosa parlare e se non sa di che cosa parlare andiamo poco lontani. Ciò che stavo considerando è che la teoria, affermando cose, si comporta esattamente così come vuole la tecnica, e cioè cerca di risolvere dei problemi. La teoria, descrivendo delle situazioni, mostra quali sono le proprietà di queste situazioni e, quindi, mostra il modo in cui affrontarle, cioè, mostra un modo per risolvere dei problemi, che è esattamente ciò che fa la tecnica. La tecnica inventa problemi da risolvere, che esattamente ciò che fa il linguaggio; inventa dei problemi, delle questioni, che interrogano per potere continuare a parlare. Quindi, ciò che appare più interessante è che tutti i discori che si fanno intorno alla teoria come qualche che dovrebbe aprire, ecc., in realtà appare esattamente il contrario, cioè, la teoria tende a chiudere le questioni, dicendo come stanno le cose o, addirittura, come dovrebbero essere. Nel fare questo la teoria è costretta a pensare che le cose, di cui sta parlando, siano quelle che lei impone che siano necessariamente. A questo punto ci troviamo di fronte a delle considerazioni che ci mostrano la teoria come qualcosa di molto differente da come è sempre apparsa, da come se ne è sempre parlato, e cioè qualcosa di alto, di elevato, che consente di incontrare altre questioni, insomma, un tripudio di apertura. Pare che non sia proprio esattamente così, ma se la teoria fa quello che dice di fare allora il suo compito è chiudere le questioni, mostrando come stanno le cose. Una teoria qualunque dice che le cose potrebbero essere in tutt’altro modo da così come le afferma? Mai trovata una che facesse una cosa del genere. Dicevo prima del linguaggio, sappiamo più o meno come funziona, cioè, costruisce delle sequenze, delle regole, certo, allo scopo di proseguire se stesso, ma per poterlo fare, per potere proseguire, deve costruire queste sequenze in un certo modo. Queste sequenze devono essere tali in modo da poter essere prese in considerazione, cioè, da poter essere obiettivate, è quello che fa quando il linguaggio afferma qualcosa. Ogni volta che il linguaggio afferma delle cose costruisce una teoria, quindi, non possiamo eliminare la teoria, così come non possiamo eliminare la tecnica, perché indicano il modo in cui funziona il linguaggio. Fare teoria non è altro che il mettere in atto, mettere in moto il linguaggio, che di per sé è sempre in moto, non può essere fermato. Certo, abbiamo sempre detto che la cosa che ci importa è sapere queste cose e che questa è l’unica cosa che fa la differenza. Nella tradizione, d’altra parte, la teoria serve a conoscere le cose, è uno strumento di conoscenza: conoscenza, elaborazione, manipolazione dell’ente. La teoria, insieme con la tecnica, appaiono a questo punto sempre più difficile distinguerle, però in ogni caso entrambe le cose sono il modo in cui si mostra, si manifesta, si mette in atto, si pratica, la volontà di potenza. Potremmo dire, senza timori, che la teoria è volontà di potenza; d’altra parte, abbiamo detto che il linguaggio è volontà di potenza, quindi, come potrebbe la teoria non esserlo? Volontà di potenza, cioè, volere che le cose siano così come io dico che sono. Questa è la formulazione più semplice ma più efficace della volontà di potenza. Che cosa meglio di una teoria mette in atto una cosa del genere? Dice che le cose stanno così come io dico che sono.

Intervento: Prima si parlava dell’impossibilità di rinunciare alla teoria…

Non c’è possibilità di rinunciare alla teoria, anche in questo momento, mentre sto parlando, la sto facendo.

Intervento: Questa impossibilità di rinunciare alla teoria indica che c’è l’impossibilità di rinunciare all’idea che le cose debbano stare in un certo modo. L’assunzione è in questo caso che le cose debbano comunque stare in un qualche modo e che si tratta, quindi, di trovare quella descrizione di questo stato di cose che possa reputarsi la migliore.

Sì, ed è anche vero, per un certo verso, nel senso che le cose debbono stare in un certo modo se voglio occuparmi di loro, se voglio parlarne in qualche modo. Sta in questo la volontà di potenza del linguaggio, cioè, la necessità di stabilire che le cose stanno in un certo modo, per cui quella cosa è quella lì, per poterne parlare: conoscenza, elaborazione, manipolazione dell’ente. Non posso non farlo, è questa la questione: se penso, quindi, se parlo, sono costretto a compiere queste operazioni.

Intervento: Di stabilire le cose…

Inesorabilmente.

Intervento: … è una cosa data a priori.

Sì, perché si considera che le cose siano quello che sono per virtù propria, soprattutto dopo Cartesio, dopo l’invenzione del soggetto e dell’oggetto. In effetti, la questione interessante e fondamentale, che ci ha posta Heidegger, è che se questo ci dell’Esserci indica il qui e anche il là, perché io sono qui ma preso in tutte queste cose, quindi, sono anche queste cose necessariamente e lo sono perché mi sto rivolgendo a queste cose, perché, come direbbe lui, ho cura di queste cose, mi occupo di queste cose. Quindi, questa cosa qui è quella che è per me in questo momento, perché presa nel mio essere qui, con tutto ciò che questo comporta e, quindi, in nessun modo posso, questo lo dice Heidegger, allontanarmi da questa cosa, perché io sono anche questa cosa nel momento in cui me ne occupo. E ancora, non posso distogliermi in nessun modo, staccarmi, allontanarmi da questa cosa. Infatti, parla continuamente di dis-allontanamento, che è il prendersi cura delle cose, niente altro che questo. Non posso non prendermi cura delle cose perché le cose che mi circondano sono poi quelle che determinano il mio “qui”, io sono qui in relazione a un “là”, Heidegger sta dicendo questo, che è notevole perché indica che non c’è la possibilità di uscire da questo essere continuamente in relazione con le cose e che le cose sono quelle che sono perché prese in una relazione, che è poi quello che diceva in un altro modo anche la semiotica, forse in modo meno deciso di quanto lo sia in Heidegger però lo diceva. La considerazione da fare a questo punto è che, trovandocisi presi in questa relazione ininterrotta con le cose, quella che poi dà il significato alle cose, allora a questo punto non posso fare una teoria sopra queste cose, non posso fare una teoria nel senso di costruire un discorso che si fondi sulla necessità che questo oggetto sia al di fuori di me, ma allo stesso tempo, per potere parlare di questa cosa, devo porla come un oggetto che è quello che è, se voglio anche solo riferirmi a questo oggetto. Posta così sembra un paradosso, nel senso che posso occuparmi di qualche cosa a condizione di non potermi occupare di quella cosa, cioè, posso occuparmi di questa cosa, quindi, obiettivarla ma a condizione di non poterlo fare, e non lo posso fare perché io sono questa cosa, come dire che, per obiettivarla, prima occorre che questa cosa, usiamo le parole di Heidegger, sia nel mondo, cioè, sia nell’Esserci. Solo a questa condizione posso pensare di obiettivarla, quindi, posso obiettivarla a condizione che sia obiettivabile, e cioè che sia nel mondo: Mi rendo conto che la questione non è semplicissima però ciò che dice Heidegger va in questa direzione e che mi pare sia di notevole interesse perché, in effetti, mostra il funzionamento del linguaggio così come lo ponevamo tempo fa anche partendo da de Saussure, cioè, un elemento linguistico, un significante, è quello che è in una relazione differenziale con tutti gli altri, per essere quello che è occorre che non sia tutti gli altri ma allo stesso tempo è anche tutti questi altri, perché se non ci fossero tutti questi altri non ci sarebbe neanche lui. Quindi, non è individuabile, diceva de Saussure, ma al tempo stesso è necessario che come significante sia individuato perché, se non fosse individuato non avrebbe un significato, perché il significato si riferisce al significante, e se non c’è il significante che significato è? Questa struttura con cui funzione il linguaggio che, come diceva Sini, non ha soluzione. Il fatto è che funziona così, non è che non ci sia la soluzione nel senso che non si può trovare un discorso che metta d’accordo il fatto che qualcosa non può essere individuato con un altro discorso che dice che invece deve essere individuato. La questione è più semplice se si tiene conto del funzionamento del linguaggio, che funziona a condizione che qualcosa sia individuato ma come lo individua? È vero che non è individuabile, diciamo ontologicamente, come essere, ma è individuabile per una decisione, perché io decido che una certa cosa è così.

Intervento: Perché possa diventare un utilizzabile…

Bravissimo. Perché una cosa diventi un utilizzabile occorre che io lo ponga come tale e che, quindi, sia qualcosa di funzionale alla volontà di potenza, che è il motivo per cui si parla. Se non ci fosse la volontà di potenza, abbiamo già detto altre volte, non ci sarebbe nessun motivo per dire alcunché, assolutamente nessuno, e cioè questa esigenza da parte del linguaggio di stabilire come stanno le cose, di stabilirlo per poterle utilizzare, perché siano degli utilizzabili altrimenti non posso utilizzare niente. È come nel gioco delle carte: stabilisco che questo è un re di fiori altrimenti non lo posso utilizzare come re di fiori e, quindi, non posso giocare.

Intervento: …

Per Heidegger la semplice presenza è una cosa irrealizzabile. In effetti, funziona come semplice presenza nella mitologia scientifica, nel discorso comune, ma quale cosa potrebbe essere una semplice presenza, cioè, un qualche cosa che è fuori del mondo?

Intervento: Sia il discorso scientifico sia quello comune fa tutto questo per una volontà di potenza…

Assolutamente sì.

Intervento: La cosa è nel mio mondo ma devo poi obiettivarla per renderla funzionale alla volontà di potenza…

Sì. La semplice presenza è l’oggetto così come ne parla Cartesio, che è quello che è per virtù propria, ha in sé l’ατία e l’ρχή, la causa e il principio. E questa è la condizione per poterlo manipolare, conoscere, ecc. La conoscenza è questo, è manipolazione, è elaborazione dell’ente, è volontà di potenza, la conoscenza è volontà di potenza. La teoria è uno strumento della conoscenza, anzi, è ritenuto essere il più alto, il più efficace strumento di conoscenza, perché dice come stanno le cose. A questo punto, che cosa si impone? È come se la volontà di potenza estendesse il suo dominio su tutto lo scibile, su tutto il comprensibile, su tutto il dicibile. È un altro modo ancora per dire che il linguaggio è volontà di potenza. Il linguaggio, cioè, la tecnica. Ogni cosa viene fatta attraverso la tecnica, la tecnica è il fare le cose. Lo diceva già Heidegger quando parlava degli antichi, del loro modo di pensare la τέχνη, che non è propriamente la ποίησις. La τέχνη è qualcosa che viene fatto per qualche cosa. Ricordate in Heidegger il “per”, essere “per” qualche cosa, per avere un utilizzo, un utilizzo per la volontà di potenza, ovviamente. La ποίησις è la produzione, certo, che non evita la τέχνη, ma si è considerato che la ποίησις, da cui la poesia, fosse una costruzione che fosse fine a se stessa. Questa è una contraddizione in termini, perché nulla è fine a se stesso, cioè, non c’è un qualche cosa che si costruisce che non sia fatto per qualche cosa, la stessa poesia è fatta per qualche cosa, per il diletto del poeta, perché lui vuole dilettare altri o, come si suole dire, perché ha in sé il demone, ecc., ma è sempre per qualche cosa. La τέχνη è il fare qualcosa in vista di qualcos’altro, che è esattamente la tecnica, il produrre strumenti in vista di scopi, Heidegger la definisce così, che non solo mi sembra il modo più corretto ma anche più interessante. E il linguaggio fa questo: costruisce strumenti, proposizioni, in vista di fini, soluzioni ai problemi. Quali sono i problemi che incontra il linguaggio? Il problema fondamentale che incontra il linguaggio è il problema della verità, cioè, il sapere se ciò che si afferma è vero oppure no, problema che si è poi trasposto nella logica, che ha fatto di questo il proprio principio fondamentale oltre che fondante, cioè, stabilire un criterio per trovare la verità, di che cosa possiamo dire che è vero, e questo è il problema che incontra il linguaggio. Quindi, la tecnica, in quanto linguaggio, non è altro che la costruzione di proposizioni per risolvere problemi, cioè, per trovare la verità. Siamo in piena volontà di potenza. In effetti, tutti i problemi che sorgono nel linguaggio da quando esiste, cioè, da sempre, vertono dritti su questo: la questione della verità. Che cosa è vero, che cosa è quello che è? Come il linguaggio risolve questo problema? Attraverso l’unico modo che può fare, cioè, costruire altre proposizioni, costruire proposizioni e criteri di verità. Qual è l’intoppo del linguaggio e della stessa tecnica? Che è poi probabilmente il motivo per cui la tecnica è costretta a costruire problemi all’infinito e, quindi, strumenti per risolverli. Il fatto è che questa verità si sposta continuamente, nel senso che tutto ciò che io poso dire della verità, essendo preso nel linguaggio, non è mai esaustivo. L’esempio che faceva Sini, mi sembra tratto da Peirce: Cesare dice qualche cosa, qualunque cosa sia, e io chiedo a Cesare “ma cosa hai voluto dire, esattamente?”. Cesare, siccome è persona gentile ed educata, mi risponde dicendo che cosa aveva voluto dire, ma a questo punto io posso nuovamente domandare a Cesare, se sono una persona particolarmente indisponente, che cosa vuol dire con ciò che ha detto per spiegare che cosa voleva dire e, pertanto, Cesare si trova costretto ad aggiungere altre cose. Quando arriverà finalmente a dire che cosa voleva dire? Ecco, questo procedere infinito, questa infinitizzazione, che non è molto lontana da ciò che Peirce indicava come semiosi infinita… il problema che incontra il linguaggio e, quindi, la tecnica, è il problema della verità, cioè, il problema dell’arresto, che peraltro si incontrò anche nell’informatica, ne parla Turing, che si chiedeva a che punto arrestarsi nella risoluzione di un problema, che può diventare infinito. Era il problema che aveva già incontrato Tommaso con le sue cinque vie: quando ci fermiamo nella regressio ad infinitum? Quando pare a me, ovviamente. Ecco, allora, che il problema che incontra il linguaggio è quello della verità e che non può risolvere, non può risolvere per il motivo che dicevamo, e cioè che, essendo posto dal linguaggio e “risolto” attraverso il linguaggio, non può che trovare rinvii all’infinito. Essendo un problema irrisolvibile si è trovato nell’impasse totale. Pensate alla crisi dei fondamenti, alla crisi dei valori, tutto quello che vi pare, tutte le crisi possibili e immaginabili, è come se sorgessero da lì, dall’impossibilità del linguaggio di risolvere il suo problema, che è poi quello antico: il linguaggio, la parola, dice la cosa? Problema già posto da Aristotele.

Intervento: In effetti, la verità dovrebbe stabilire come stanno le cose.

È la sua funzione, se no a che cosa serve?

Intervento: Il fatto è che queste cose sono parole.

Eh già, parole che per essere dette, cioè, per essere quelle che sono, richiedono altre parole, le quali altre parole richiederanno altre parole.

Intervento: Il problema fondamentale è quello di arrestare il rinvio.

La verità dovrebbe avere questa funzione, quella di dire l’ultima parola, dopo la quale non c’è più niente. Che è un paradosso: se è l’ultima parola allora vuol dire che dopo non c’è più niente, quindi, non c’è più il linguaggio, ma se non c’è più neanche il linguaggio a questo punto non ce ne facciamo più niente neanche della verità, che cosa stiamo qui a fare? E questo, dicevo, ci mostra la questione della tecnica, il fatto che la tecnica continua inesorabilmente a inventare, a costruire dei fini, relativamente ai quali poi costruire degli strumenti per assolvere a questa cosa. Fa esattamente ciò che fa il linguaggio. Qual è il “problema” della tecnica, anche se la tecnica non se lo pone minimamente? Che dovrebbe risolvere ogni problema, inventarsi l’aggeggio che risolve ogni problema per sempre, il che è paradossale perché sarebbe la fine della tecnica. Come dire che il fine della tecnica è, in un certo senso, la fine della tecnica.

Intervento: Anche il linguaggio si comporta così.

Sì. Sono la stessa cosa, funzionano allo stesso modo. Lo dicevamo prima: la verità è l’ultimo elemento, dopo il quale non c’è più nulla da dire, non c’è più linguaggio, e se non c’è più linguaggio non si pone più nemmeno il problema della verità, non si pone più niente e, quindi, è chiuso il discorso. L’ultima parola cancellerebbe tutte le parole, toglierebbe il linguaggio di mezzo. Non avviene ma l’idea è questa. Il problema del linguaggio è il problema della verità e per la tecnica, intesa come la si pensa oggi, non come la intendevano gli antichi, il problema è trovare l’ultima macchina che risolve ogni problema. C’è una storiella, raccontata da Asimov, in cui ci sono un gruppo di scienziati, davanti al loro mega computer, al quale computer questi scienziati hanno posto una domanda, una sola: Dio esiste? Chiaramente, avevano immesso nel computer tutte le informazioni possibili e immaginabili, tutte quelle che si possono raccogliere da quando esistono gli umani. Fatto questo, sono pronti a dare l’invio per avere la risposta e il computer risponde alla domanda “Dio esiste?”, risposta: “Adesso sì”. Adesso sì, adesso mi avete creato. Mi avete creato e ci credete così tanto che adesso esisto davvero. In effetti, è l’unica cosa cui può aspirare la tecnica, che si creda, e ogni volta si crede in effetti, ogni aggeggio che viene fuori si crede di avere raggiunto il massimo della potenza, anche se ciascuno sa in cuor suo che non è così, soprattutto negli ultimi tempi in cui la tecnica ha uno sviluppo velocissimo. Heidegger diceva “la dissennata furia della tecnica”, dissennata perché si muove senza sapere ciò che sta facendo, va avanti come un pazzo, senza rendersi conto che il problema della tecnica, cioè, della sua fine, è che non può trovare l’ultima parola, così come avviene nel linguaggio, non può trovare l’ultima parola, cioè, la verità, che è stata pensata come l’ultima parola.

Intervento: Ogni sviluppo tecnologico risolve dei problemi ma ne pone di nuovi. Risolvo un problema ma a quel punto mi si apre qualcos’altro, altre possibilità, quindi, altri problemi.

È esattamente quello che succede quando vuole definire una parola. La definizione del dizionario, vuole definirla che meglio non si può, cosa incontra alla fine? Incontra una infinitizzazione, perché l’ultima parola, per quanto sia pensata come ultima, richiama un’altra parola, e così via. Questo è esattamente ciò che lei diceva rispetto alla tecnica. La tecnica non ha fine perché non c’è l‘ultima parola e ogni parola che si ponga come l’ultima richiama un’altra parola; ogni soluzione che la tecnica propone richiama immediatamente altri problemi. Cosa che si vede ultimamente, è qualcosa di ridicolo, come quando i media dicono a gran voce “Ah, risolto questo problema…” e poi non è affatto così, è in tutt’altra maniera, è un continuo. Il che sarebbe risibile, e di fatto lo è, se non fosse che tutto questo, data la posizione che occupa la scienza, più che la tecnica, come una religione, tutto ciò che a scienza dice è vero, qualunque idiozia dica è vera, per definizione. La scienza, come sappiamo bene, muove da assunzioni, muove dalla metafisica, la scienza è metafisica, non si pone il problema però, di fatto, il suo limite è quello di essere una metafisica, e cioè di non interrogarsi su quello che sta facendo ma assume semplicemente che le cose siano così come pensa che siano e, quindi, di stabilirne tutte le proprietà. È quello che Heidegger diceva rispetto alla differenza tra categoriale e esistenziale. Categoriale è l’elenco delle proprietà di una certa cosa; per potere cogliere tutte le proprietà di questa cosa devo individuare questa cosa, cioè, devo coglierla per quella che è per potere dire che è rotonda, che è fatta in un certo modo, ecc. L’esistenziale, invece, riguarda l’esistenza, l’Esserci, che è l’unico ente che è in grado di pensare se stesso. Ciò che fa la scienza è fermarsi al categoriale, cercare di individuare tutte le proprietà e cercare quelle leggi che regolino le relazioni tra queste proprietà. Quello che, invece, ci dice Heidegger è che questa cosa possiamo “anche” considerarla sotto l’aspetto categoriale ma soprattutto possiamo considerarla sotto l’aspetto esistenziale, nel senso che “esiste” all’interno del mio progetto. Considerarla come qualcosa fuori dal mio progetto è un artificio che fa la scienza, attraverso il quale può fare le cose che fa, ma rimane un artificio, rimane una finzione, una finzione che peraltro, e questo è l’intoppo che incontra la fisica, non può dimostrare che le cose siano così come dice che sono. Non lo può fare, non può dimostrare che una certa cosa è quella che è, è un assunto: poniamo che sia quello che è. Il fatto è che crede che sia quello che è, non lo prende come un artificio, la logica lo fa in alcuni casi, costruisce arbitrariamente che un certo assioma unicamente perché gli serve per dimostrare qualcosa. Sa benissimo che questo assioma non significa niente, è soltanto vero in quanto assioma ed è vero per tutte le variabili, per tutte le condizioni di verità attribuite alle variabili, ma non significa niente. Se io scrivo “se B allora A”, cosa vuole dire questa cosa? Non significa niente, è un assioma che è sempre vero, qualunque valore di verità si attribuisca alla A e alla B, per i criteri stabiliti dalla logica sarà sempre vero. Ma anche questi criteri stabiliti dalla logica… la logica immagina che la A sia la A altrimenti non potrebbe costruire le sue proposizioni, quindi, assume che sia così. Era questa la critica che faceva Heidegger alla logica e a tutta la scienza, non solo ma, potremmo dire, all’intero discorso comune. Il pensiero comune pensa così, che le cose siano quelle che sono per virtù propria.

La questione “drammatica” è che tutta la teoria psicoanalitica è costruita così, su assunzioni, cioè, tutti i vari elementi che pone Freud, i concetti fondamentali, di cui parla Lacan, sono posti come oggetti metafisici. Se avviene un processo, che Freud chiama rimozione, questo processo è al di fuori del mondo, non tiene conto di ciò che sta avvenendo nell’Esserci, direbbe Heidegger, ma lo considera come un qualche cosa che è quello che è e che sarà sempre così, il processo di rimozione avverrà sempre così, sarà sempre quello, cioè fuori del mondo, fuori del linguaggio, non mi appartiene, diciamola così. Come faccio a pensare che qualche cosa influisca su di me se questa cosa non mi appartiene in qualche modo? Questa è un’obiezione che si potrebbe fare, che è un po' quello che fa Heidegger rispetto alla psicoanalisi: sono concetti ma questi concetti io li pongo fuori del mondo e come che queste cose, poste fuori del mondo, influiscono su di me, in che modo lo farebbero? Se lo fanno è perché sono nel mondo, intendendo “mondo” sempre nell’accezione di Heidegger, se sono nel mondo allora sono storicizzate, dipendono da ciò che io sono in questo momento, non sono enti semplicemente presenti. Tutte le categorie della psicoanalisi sono enti posti come semplicemente presenti, oggetti cartesianamente intesi. Lacan, infatti, parla di soggetto e di oggetto, grande o piccolo a seconda degli umori del momento, ma è sempre una contrapposizione tra soggetto e oggetto. Poi, addirittura, la psicologia parla di un buono o cattivo adattamento all’oggetto, cioè, della realtà oggettuale, e lì siamo in pieno delirio.

Stasera abbiamo ripercorso un po' le cose essenziali per quanto ci riguarda e anche per intendere meglio ciò che stiamo per affrontare.