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3 febbraio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile.

 

Siamo all’inizio del capitolo sul mito dell’apodissi. Gentile non dà una definizione precisa del mito, non dice esattamente che cosa intende con mito. Sappiamo che mito (μύθος) in greco è la parola, il racconto, la narrazione, la favola. Gentile distingue tra mito e filosofia, vedremo man mano in che modo. E poi c’è l’apodissi, πδειξις, parola composta da π e da δειξις. In greco π indica il da dove, come avverbio di luogo; δειξις è l’indicatore, da cui operatore deittico. Quindi, letteralmente, l’apodissi è l’indicazione della provenienza, del da dove, indica da dove viene ciò che affermo. Questa è la dimostrazione, peraltro: indicare da dove viene ciò che dico, questo per il greco antico era importante, e cioè intendere l’origine, l’arché (ρχ), il da dove vengono le cose. L’ρχ non nel senso dell’origine cronologica, ma di ciò che produce le cose, che le fa esistere, che le fa essere quelle che sono. Questa cosa, che fa essere le cose quelle che sono, che le fa sorgere, che le fa germogliare, che le fa produrre, corrisponde in greco a una parola particolare, φο, da cui viene la parola physis (φύσις). Per l’antico greco φύσις non è ciò che oggi noi intendiamo con natura, che è la traduzione che viene fatta oggi, per cui φύσις uguale a natura. Non lo è se intendiamo con natura la totalità degli enti, delle cose, ma è più vicino all’etimo latino di natura. Natura viene da nascor, verbo latino deponente, e il suo participio futuro è natura; quindi, natura, come participio futuro, le cose che stanno per arrivare; quindi, ciò che ancora non è ma sta per essere. Indica, quindi, il sorgere di qualche cosa, il divenire di qualche cosa. Φύσις ci dice anche dell’origine delle cose; φύσις è l’originarsi delle cose. È famoso l’esempio che fa Aristotele dell’albero che cresce da solo, mentre il tavolo deve farlo qualcuno. Ciò che cresce è da intendere come ciò che sta crescendo, e cioè un qualche cosa che è in atto. Ora, la risposta alla domanda del greco “qual è l’origine delle cose? Che cosa le fa originare?” è φύσις, φύσις come ρχ, come origine. Ma questa origine non è l’origine di un particolare fenomeno; ciò che interessava al greco era l’origine delle cose, che cosa origina ogni cosa, che cos’è l’origine di tutto, per cui deve essere qualcosa di universale, che deve quindi valere per tutto. Il fenomeno (φαινόμενον) è ciò che appare; apparendo ha una forma, è delimitato, determinato, è ciò che viene alla luce. Come sappiamo, viene da phaìnesthai (φανεσθαι) che a sua volta viene da φς, luce. Non si tratta, quindi, dell’origine di un fenomeno in quanto tale, ma dell’originarsi delle cose; è qualcosa di universale, cioè, di non determinato, di infinito. Ora, c’è un’altra parola importante che occorre introdurre. Questo indeterminato, questo indefinito, in greco è apèiron (πειρον). È stato Anassimandro a introdurre l’idea che da questo indeterminato si originassero tutte le cose. L’πειρον è l’indefinito, l’illimitato, l’infinito. Questa parola è importante perché qui la φύσις – quindi l’ρχ, l’origine – appare come l’indeterminato. E, allora, abbiamo il φαινόμενον e l’πειρον: il φαινόμενον come il delimitato, il determinato; l’πειρον come l’indeterminato. Ma la cosa interessante per i Greci – non solo per Anassimandro ovviamente, ma anche per Aristotele – è il fatto che l’origine del ϕαινόμενον si trova nella φύσις, perché è la φύσις, l’ρχ, ciò che origina continuamente, in quanto l’originarsi delle cose. Quindi, perché ci sia fenomeno, perché ci siano le cose, occorre che queste cose abbiano un’origine, che vengano da qualcosa; il qualche cosa, da cui originano, da cui tutti i fenomeni, è la φύσις. Quindi, perché ci sia il fenomeno, perché ci sia il determinato, è necessario che ci sia l’indeterminato. Ma se penso l’indeterminato non posso che pensarlo come determinato, cioè come un pensato, direbbe Gentile. Questo potremmo intenderlo come il principio di indeterminazione di Anassimandro, per cui il determinato non c’è senza l’indeterminato, nel senso che il determinato necessita dell’indeterminato perché è la sua origine. Allo stesso tempo non posso pensare l’indeterminato se non come determinato. E, allora, determinato e indeterminato, φαινόμενον e φύσις, πέρας e πειρον, sono come due momenti dello stesso.

Intervento: È interessante come fenomeno sia legato a φς, luce…

È ciò che viene alla luce. Il φανεσθαι è il venire in luce, il farsi vedere. Sono concetti importanti perché da questi concetti è sorto, è germogliato il pensiero attuale; ciò che pensiamo oggi è figlio di queste cose. La nozione di φύσις per il greco antico non ha molto a che fare con ciò che intendiamo con natura; neanche con τα φυσικά, gli enti della fisica, gli enti naturali; no, φύσις è l’autogenerarsi delle cose. È qualcosa di vicino a ciò che Gentile chiama autoctisi. C’è un altro aspetto importante, perché se l’apodissi, la dimostrazione – abbiamo visto che l’apodissi, la dimostrazione, indica il da dove viene ciò che affermo – indica da dove vengono le cose non può che indicare la φύσις, cioè, l’πειρον, l’indeterminato, e cioè che le cose vengono dall’indeterminato. Potremmo dire, usando in parte i termini di Hegel ma soprattutto di Gentile, che il determinato, cioè l’astratto, necessita del concreto, necessita del linguaggio. Quindi, l’apodissi affonda le sue radici nell’indeterminato, nel concreto. Naturalmente, è necessario che ci sia l’astratto, anche perché se penso il concreto lo penso come astratto: se penso l’indeterminato lo penso come determinato, perché lo sto pensando e, quindi, è un pensato. Questo ci induce a pensare che le fondamenta o il principio di ogni dimostrazione è l’indeterminato. Il che ha naturalmente dei risvolti. Tutto questo discorso che vi ho fatto Gentile non lo fa, lo sto facendo io, ma c’è un aspetto interessante a cui giunge, e cioè quando parla della fede, dell’atto di fede. Se la dimostrazione ha come sua ρχ, come sua origine, l’indeterminato, allora qualunque fenomeno io incontri, perché questo fenomeno possa essere ciò che mi appare, occorre la fede, perché se io volessi dimostrare che quella cosa è quella che è, mi troverei di fronte l’πειρον, l’indeterminato, mi troverei di fronte la φύσις. Quindi, la fede è ciò che fa sì che ciascun elemento sia quello che è. Naturalmente, non c’è solo la fede, ma la fede “corregge” il difetto fondamentale del linguaggio, e cioè che per dire una cosa devo dirne un’altra. E, allora, soltanto se ho fede questa cosa è quella cosa: è l’atto di fede.

Intervento: Il dare un significato è allora un atto di fede?

Il quale significato, sì, certo. Tuttavia, il significato è un rinvio, il rinviare di una cosa a un’altra. Il significato è più vicino a ciò che prima indicavo come l’πειρον, come l’indefinito. Infatti, potremmo riportare, almeno in buona parte, tutto ciò rispetto al significante e al significato. Il significante, come abbiamo detto tante volte, è l’immanente, è il fenomeno, ciò che mi appare; ciò che non appare è il significato, non lo vedo, mentre il significante lo sento quanto meno, lo percepisco, e in questo senso è immanente, il significato no.

Intervento: Attribuire un significato è un atto di potenza…

Questo sicuramente. Ora, questo ci conduce a un’altra questione interessante, e cioè che la φύσις non appare, ciò che appare è il fenomeno. Se la φύσις apparisse sarebbe fenomeno e non più φύσις. La φύσις è ciò che non appare e, infatti, che cosa dice Eraclito nel suo celeberrimo detto? Physis kryptesthai philei (φύσις κρπτεσθαι φλει), la natura ama nascondersi. Il termine natura è da intendersi nell’accezione che indicavo prima. “Ama” nel senso che è il suo proprio, la sua proprietà è quella di essere nascosta, di non essere fenomeno, cioè di non venire in luce. Questa è la φύσις, è ciò che molti secoli dopo de Saussure indicherà come significato. Il significato non appare ma deve esserci, deve esserci perché il significante sia un significante. Il fatto che la φύσις sia nascosta – kryptesthai κρπτεσθαι, da κρπτω, nascondere – allude a una questione importante, e cioè la presenza dell’ignoto. Tendenzialmente, si pensa che il passaggio sia dal noto all’ignoto per renderlo noto, tenendo separato l’ignoto dal noto. Ma a partire da ciò che dicevo rispetto all’indeterminato e al determinato, potremmo dire con Gentile che l’ignoto e il noto non sono due figure, ma sono due momenti. L’ignoto non sta da un’altra parte e devo andare a cercarlo; no, l’ignoto sta nel noto, e cioè l’ignoto non è altro che la presenza inesorabile e ineliminabile dell’indeterminato nel determinato. Per questo volevo leggervi alcune cose, saltando un po’ di pagine, ma poi le riprenderemo, nel Capitolo II, L’ignoto, Paragrafo 2. Necessità dell’ignoto. Ma conoscere è conoscere con certezza, e si dubita di ciò che non si conosce, o di cui non si conosce quel tanto, che è per l’appunto materia di dubbio. Si dubita di Dio nel senso che se ne conosce l’essenza, ma non l’esistenza: si sa che cosa dovrebbe essere, se fosse; ma che sia, non si riesce a sapere, non si conosce. Si dubita del valore obbiettivo delle cognizioni umane, non perché siano ignote, esse stesse, queste cognizioni: il loro essere e contenuto è anzi il dato da cui nasce il problema; ma s’ignora quel rapporto tra il contenuto di esse e il contenuto di una presunta realtà esterna, a cui pur le cognizioni dovrebbero corrispondere; e questo che s’ignora è oggetto del dubbio. Cosa che ciascuno può considerare: vede qualche cosa, percepisce qualche cosa, e può domandarsi: ma è proprio così? Dov’è un problema è un dubbio, e la certezza è nella soluzione per cui il problema cessa d’esser tale. Il dubbio si stende per tutta la sfera dell’ignoto conosciuto come tale: noumeno, di là dal fenomeno. C’è il fenomeno e poi c’è l’idea che interviene. Ignoto, del quale nessuna filosofia, per gnostica che sia, può fare a meno, se non per insufficiente critica della posizione intellettuale che essa presuppone o costituisce. Così come nessuna filosofia può sopprimere il tempo, per quanto lo neghi, o lo spazio, o la natura, o l’esperienza, che son pure oggetti sui quali s’è così spesso esercitata la negatività della dialettica filosofica. Esiste o non esiste il tempo? Però, intanto, per poterlo domandare è già lì. Anche noi abbiamo negato il tempo e lo spazio e la natura e tutto il logo astratto, in cui cotesti miti trovano il modo di formarsi e affermarsi. Ma negando il logo astratto, non abbiamo inteso di sopprimerlo, sì di risolverlo nella concretezza del pensiero pensante, dentro al quale esso si ritrova come il passato dentro il presente, inattuale, l’attualità spettando al presente del pensiero, che, pensando, si sottrae alla vicissitudine del tempo. E neghiamo l’ignoto, poiché non altra realtà riconosciamo se non quella che si attua nel conoscere che è autocoscienza. Ma dobbiamo pur conservarlo, come inattuale, poiché il nostro conoscere non è un immediato, ma un divenire. Sicché l’ignoto è tanto necessario al pensiero quanto il conoscere, come l’ombra è necessaria alla luce. Qui sta incominciando a dire come l’ignoto sia necessario. L’ignoto è la base su cui lavora e costruisce il pensiero, la tenebra rotta dal lampo del conoscere, e che è prima e dopo del lampo: il non-essere del pensiero così oscuro come l’essere: il termine da cui passa come il termine a cui passa il pensiero, che è questo passare da un termine all’altro. Che cosa è di qua dal passare? Come chiedersi: che cosa c’è al di qua del divenire? Il soggetto che ancora non pensa e non è soggetto. Che cosa di là? L’oggetto che è pensato, e non più si pensa, e non è più oggetto. In un caso e nell’altro la tenebra, che resta quando la luce si spenga. E il pensiero è luce che s’accende, ma anche si spegne; pone sé come negazione del proprio non-essere e si ritrova innanzi a se stesso come negazione del proprio essere. Io e non-Io. Quindi il noumeno,… Il noumeno è l’atto intellettivo, il pensiero …che non è fuori del pensiero, e non è perciò accidentale rispetto al pensiero, ma gli è dentro come quell’oggetto che egli pone in quanto si nega in una realtà che stima antecedente e conseguente a se stesso. Curiosa legge questa dello spirito, la quale affligge ed accora chi non sappia tenersi ben fermo sul punto, nel quale si regge in bilico la verità. Perché il pensiero astrae da sé e spegne la luce che è la sua vita? Perché il vivente corre così oltre la vita? Perché, insomma, la morte? Bisogna bene por mente alla legge fondamentale del logo concreto in cui il soggetto non è se stesso, ma realizza se stesso… Badate bene, questa distinzione che fa Gentile è fondamentale: il soggetto non è se stesso, ma si realizza. È in fondo quello che anche Heidegger diceva: l’esserci propriamente non è, ma è in quanto è progetto-gettato. …dicendo: Io sono non-Io. Il suo essere è questo realizzarsi, questa sintesi. Spezzate la sintesi, e avrete l’Io da una parte, e dall’altra il non-Io. Due termini, che nella loro astratta differenza coincidono, poiché tanto l’Io quanto il non-Io non sono quell’Io che consiste nella sintesi. I due elementi della relazione sono altro dalla relazione, che peraltro fa di questi elementi due elementi. E se nessuno dei due è Io, ognun dei due come non-Io è la negazione del conoscere che è Io, sintesi, o piuttosto autosintesi. L’autosintesi essendo sintesi assolutamente a priori, fuori del conoscere non si può andare. L’atto è conoscenza; e niente di attuale può essere perciò negazione di conoscenza, ignoto. Ripeto: niente di attuale può essere perciò negazione di conoscenza, ignoto. Come dire che l’atto è il tutto, è l’atto di parola come tutto, non c’è l’ignoto nel tutto. L’ignoto è necessario, come un momento insieme a ciò che è noto; così come ciò che dilegua nell’atto in cui si dice. Questo è l’ignoto: il dileguarsi di ciò che si dice mentre sto dicendo. Ignoto perché non lo posso carpire, non lo posso conservare. Gentile lo dice già nel titolo del paragrafo che l’ignoto è necessario, non può togliersi. L’ignoto come negazione del noto, così come il non-Io è negazione dell’Io. Quindi, ecco che ci troviamo in una situazione interessante; vale a dire che ancora più di prima è chiaro come il determinato e l’indeterminato non siano la stessa cosa, siano due distinti, ma non possono darsi l’uno senza l’altro, cosa che Gentile continua a ripeterci a ogni pagina. Tornando al mito, perché parlava del mito dell’apodissi, del mito della dimostrazione, potremmo dire che a questo punto il mito non è altro che tenere separato l’Io dal non-Io. Separando questi due momenti, ciascuno dei due diventa mito, diventa – citando Borges – un animale fantastico. L’animale fantastico di per sé non c’è, è in questo senso che si può intendere mito, nel senso di favola, di racconto che non ha fondamento logico. Tra l’altro, nemmeno la dimostrazione, come abbiamo visto, ce l’ha. Ma perché rimangono miti questi elementi? Perché sono separati, cessano di essere un mito nel momento in cui c’è l’integrazione dell’astratto e del concreto. Allora, e solo allora, il mito trova, diciamo così, la sua soluzione, anche se il termine soluzione non è appropriato. Ciò che qui a noi interessa di più e che il mito a questo punto, posto nel modo in cui lo sta ponendo Gentile, è tutto, cioè, qualunque fenomeno è mito se tengo il fenomeno separato dall’indeterminato, dalla φύσις, dall’πειρον. Ma anche questi, la φύσις, l’πειρον, l’indeterminato, sono miti se separati dal fenomeno. È questa la questione centrale in Gentile, per cui l’astratto è un mito, un mito che si pone come mito, ma “esce” dal mito nel momento in cui tiene conto del concreto, nel momento in cui tiene conto che questo determinato, la cosa, il fenomeno, è quella che è per via di un indeterminato, per via dell’πειρον, per riprendere il principio di indeterminazione di Anassimandro. Anche lui ha fatto un principio di indeterminazione: qualunque cosa, per essere determinata, deve muovere dall’indeterminato, perché è l’indeterminato la sua ρχ, la sua origine. Ma se penso all’indeterminato lo penso come determinato perché lo penso in quanto pensato. Tornando al Capitolo I, Il mito dell’apodissi, Paragrafo 1. Il mito. Tutto il filosofare presocratico, in quanto materialistico è mito;… Tutto il filosofare, se posto così è mito, come qualunque altra cosa. …ed è filosofia in quanto nel suo costante processo di purificazione del mito il pensiero tende a liberarsene. In Platone poi mito non è soltanto l’Iperuranio del Fedro, l’anamnèsi del Menone, il Demiurgo del Timeo e simili altre rappresentazioni fantastiche; in cui mal fu detto da Hegel che si scorga l’impotenza della ragione non ancor capace di dar forma concettuale alla verità; poiché è incredibile che tali rappresentazioni Platone intendesse prendere alla lettera, mentre al suo genio poetico nessuna filosofia poteva far divieto di adoprare forme corpulente ad esprimere astratti concetti razionali, la cui energia, quando l’immagine usata è espressiva, suole agire sulle menti anche più vigorosamente delle forme astratte. Il mito è in tutte le sue dottrine più speculative. Anche la dialettica, poniamo, di cui si parla nella Repubblica, come arte di connettere il vario nell’uno, e quindi raccogliere tutte quante le idee sotto quella del Bene, non è forse mitica in quanto fa splendere innanzi agli occhi del filosofo questo firmamento delle idee che è sopra il suo capo: tutta una moltitudine che si possa raccogliere in uno sguardo solo? È un mito, ma qui in Gentile mito non è chiarissimo, perché sembra che delle volte ponga il mito come qualcosa di cui in fondo è preferibile sbarazzarsi; altre volte, invece, come qualche cosa che appare necessario, come l’ignoto. A me sembra più probabile questa seconda posizione, e cioè il mito come l’astratto dell’astratto. Il mito, se preso come tale, se isolato dal concreto, è preso come astratto dell’astratto, e quindi diventa, potremmo dire così, il mitologico. In genere il filosofare platonico è mitico in quanto, nonostante ogni sforzo che esso faccia per smaterializzare il mondo dell’uomo volgare e sublimarlo nel pensiero, questo pensiero concepisce materialisticamente come un assoluto opposto dell’Io, e il mondo gli resta perciò affatto materiale e incapace di sfavillare in un solo lampo di libertà spirituale. Sempre quando vengono separati gli elementi: lì c’è il mito. A questo punto l’astratto è per forza il mito. Poi, naturalmente, se mitizzo il mito, allora faccio l’astratto dell’astratto, e immagino il mito come quel racconto favoloso e infondato, di cui parlavano gli antichi. Ma non è proprio così, ciascun fenomeno è mito se io lo separo dal concreto. Ma il mito non muore: e mitica rimane, malgrado tutto il travaglio delle discussioni teologiche miranti alla spiritualità di Dio che è l’Essere, la dommatica dei rapporti tra questo Dio e l’uomo; mitica la creazione; mitica l’immortalità dell’anima; mitici il principio e la fine; mitico il nostro essere spirituale, che non contiene il corpo e la natura, ma dualisticamente vi si oppone in un sistema in cui l’anima è dove è pure il corpo. Quindi mitica la Chiesa docente contrapposta alla discente: e mitico lo Stato soprastante e intercedente tra i membri del popolo. Mitico il maestro, che è in faccia e al di sopra dell’alunno. Mitica la famiglia, la patria, l’umanità, il prossimo, ogni ideale. L’ideale non è l’anima stessa e l’essenza più intima e riposta dell’individuo reale, ma il suo Cielo, per definizione irraggiungibile. Concludendo, la filosofia è il pensamento del logo astratto nel concreto; e il mito è il pensamento del logo concreto nell’astratto. Dove convien ripetere l’osservazione già fatta a proposito dei momenti della categoria. Il mito è tale in quanto vien superato nella filosofia che giudica: nel suo attuarsi è filosofia. E il passaggio dal mito alla filosofia è dovuto alla negatività della dialettica spirituale, che, tendendo alla sua concretezza filosofica, nega sempre le proprie forme attuali come non adeguate alla filosofia.Lo spirito piuttosto lavora a dissolvere il mito, il quale, come tutto ciò che ha realtà spirituale, rinasce nell’atto stesso che par finito, ed è quasi la cote, sulla quale il pensiero affila il suo taglio. Non è chiarissima la posizione di Gentile relativamente al mito. Dice che è qualcosa che si deve superare. Sì, certo, se io separo il mito dal concreto, dalla filosofia, allora sì; ma lui stesso poi si trova a dire che anche la filosofia è mito, anche l’idea è mito, tutto è mito se lo tengo separato, quindi, se io lo penso ma, allora, potremmo dire, che anche il pensato è mito. A questo punto ci troviamo di fronte alla situazione tale per cui il pensiero pensante non può darsi senza il pensato, perché se lo penso diventa un pensato, cioè diventa mito. Ciò che lui chiama pensiero pensante, in quanto pensato, diventa mito: in questo non può togliersi il mito. Dice che il mito non muore. È vero, non muore perché non può togliersi, perché il mito non è altro che ciò che lui chiamava il pensiero pensato, e questo è il mito, cioè quella cosa che non è fondabile, e non è fondabile perché non c’è il principio, l’ρχ. Già i Greci avevano considerato molto bene la cosa. Nella Fisica Aristotele parla del movimento e dello spazio, parla soprattutto del movimento degli enti, ma qui si tratterebbe di rileggere la Fisica e il primo capitolo della Metafisica, per vedere se è proprio così, se Aristotele ignora totalmente quanto sto per dire io adesso oppure se in qualche modo lo intravede, e cioè il fatto che il movimento è movimento dialettico; non è il movimento delle cose che si agitano, queste cose si agitano e vanno di qua e di là perché c’è un movimento dialettico, cioè, perché c’è il pensiero, sennò non vanno da nessuna parte. Si tratterebbe, quindi, di vedere se c’è nella Fisica di Aristotele questa indicazione rispetto al fatto che il movimento sia originariamente movimento dialettico, e quindi movimento del linguaggio, in definitiva: movimento tra significante e significato, movimento del dire e del detto, movimento che comporta il rinviare di ciò che dico continuamente ad altro. È perché c’è questo movimento che la fisica contemporanea può immaginare miticamente il movimento tra corpi, celesti o di qualunque altro genere. Viene difficile da pensare che Aristotele, con tutto l’acume di cui ha dato prova in tutti i suoi testi, abbia mancata una cosa del genere. Probabilmente non l’ha colta, però che non l’abbia neanche intravista mi pare strano. Paragrafo 2. Carattere dommatico del pensiero nella logica analitica. Questi chiarimenti intorno al concetto del mito qui era necessario premettere per potere (riprendendo un argomento già toccato di volo) giudicare del valore di un ideale della vecchia logica aristotelica, che è poi sempre rimasto un ideale del pensiero scientifico, e che non ha avuto nessuna soddisfazione nella nostra logica, anzi è stato ripetutamente combattuto. Nella logica di Gentile non si tratta della logica aristotelica o di quella logica aristotelica, perché bisognerebbe vedere se è proprio così o se non è solo quello. Certamente, c’è il sillogismo, che è il pilastro della logica aristotelica, ma la domanda che mi ponevo era se c’era solo questo, se Aristotele intravedeva qualcosa in più. L’ideale dell’apodissi, o dimostrazione: dell’apodissi, com’è intesa, nella logica analitica. Questa logica è identica nel principio, non nello svolgimento, alla logica dell’astratto da noi esposta. La logica del sillogismo è la logica dell’astratto: la logica matematica, logica formale. La nostra logica dell’astratto potrebbe definirsi la logica dell’analisi della sintesi e dirsi quindi logica sintetica; e quella aristotelica come la logica dell’analisi: e perciò essa è logica puramente analitica. Gentile dice: la mia logica è analisi della sintesi, cioè, prende, sì, certo, la logica dell’analisi, ma all’interno della sintesi. Come dire che questa analisi si risolve nel senso dell’Aufhebung, si integra nella sintesi. Nella logica aristotelica questo non accade, rimane un’analisi dell’analisi, un’analisi del sillogismo, per dirla in modo esplicito. La quale non sintetizza ciò che analizza:… Non sintetizza il sillogismo, come farà molti secoli dopo Hegel con il sillogismo compiuto. Lì c’è la sintesi del sillogismo, la sintesi dell’analisi. …ma poiché ha analizzato il nucleo del pensiero, che è sintesi governata dalla legge d’identità, non-contraddizione e terzo escluso, senza avvertire che quell’analisi è l’analisi di un rapporto sintetico inscindibile, fissa i termini del rapporto; come se ciascun d’essi si potesse pensare da sé, o avesse una sua esistenza ed entità logica indipendenti dall’altro termine. Così, posto nella sua astrattezza, il termine si configura a sua volta logicamente come sintesi suscettibile d’analisi; sicché l’analisi può procedere trascendendo quel rapporto primitivo, che noi abbiamo dimostrato non potersi logicamente concepire se non come un circolo chiuso. Questa analisi che fa la logica aristotelica è qualche cosa che, comportando unicamente il sillogismo senza giungere alla sintesi del sillogismo, compie un circolo. Come diceva nelle pagine precedenti, ciò che il sillogismo dimostra era già contenuto nella premessa. Concetti diversi si rannodano per coordinazione o subordinazione; diversi giudizi si connettono per inferenze mediate o immediate in sillogismi; i quali parimenti si congiungono insieme e formano serie polisillogistiche, nel cui incatenamento è la dimostrazione, onde si conferisce valore apodittico, cioè propriamente logico, ai sillogismi, ai giudizi, ai concetti: al tutto e alle parti del pensiero. Pensiero incatenato è pensiero saldo, catafratto, dimostrato perché fermo nella sua verità. È quello che vorrebbe fare il sillogismo, e lo fa naturalmente; solo che non esce da se stesso. È questo il senso della circolarità del sillogismo. Come dicevamo forse la volta scorsa, il sillogismo dimostra l’assoluta correttezza di se stesso, fuori non va. In questo procedimento analitico, per cui o si scende di conseguenza in conseguenza… Deduzione. …o si sale di premessa in premessa… è l’induzione. …c’è un punto di partenza e un punto d’arrivo. Il punto d’arrivo è la verità che si dimostra; quello di partenza, la verità ultima da cui bisogna rifarsi per la dimostrazione. Poiché il processo all’infinito è assurdo; e dimostrazione non se ne avrebbe, e la ricerca della verità si smarrirebbe in una vertiginosa caccia dell’irraggiungibile, se di termine medio in termine medio la dimostrazione non giungesse all’immediato che è il principio della dimostrazione. Il principio della dimostrazione è un principio che deve essere evidente per se stesso, deve essere autoevidente. I principii saranno evidenti per se stessi e quindi indimostrabili perché la loro verità non è di quelle che abbiano bisogno di dimostrazioni. E si diranno assiomi. O saranno indimostrabili quantunque non evidenti, ma neppure contraddittorii, e assumibili quindi come postulati del pensiero, il quale, ammessi quei principii, avrà modo di procedere nella costruzione di una scienza. In ogni caso, chi dice dimostrazione, dice principio, limite del processo apodittico. La dimostrazione è dimostrazione ma anche limite di se stessa. Di guisa che al termine del processo dimostrativo il pensiero si ritrova tal quale come al cominciamento. Quell’immediatezza, che mercé l’analisi si credeva di superare, è intatta. Tutto il valore logico dell’ultima conseguenza è nel principio: e la verità del principio è verità immediata, identica a quella di cui si voleva dare la dimostrazione. Donde il dilemma che si indicò a suo luogo come proprio della logica analitica: o la verità è immediata, e il processo dimostrativo è inutile; o la verità è mediata, e non si vede come ci possa essere un principio. Per via di una regressio ad infinitum. La verità immediata è quella verità che non è mediata da niente. Non essendo mediata, è fuori del pensiero, che è mediazione, che è rinvio, mediatezza. Se fosse veramente immediata non sarebbe pensabile. Quindi, la verità immediata non è una verità, non è niente, è qualcosa di impensabile, qualcosa di inutilizzabile, perché se la penso, la penso attraverso mediazioni, cioè attraverso rinvii, attraverso segni, e quindi non è più immediata. È per questo che l’immediatezza non è coglibile dal pensiero, perché il pensiero non è altro che continuo rinvio. Se togliete il rinvio togliete anche il pensiero. Donde gli scolastici ebbero buon giuoco a cingere la scienza, che è tutta dimostrativa, di fede, che è tutta immediatezza. Nisi credidero, dice a ragione Anselmo, non intelligam (Se non avrò creduto non capirò). Infatti non è possibile intendere senza aver creduto, se intendere è dimostrare, e dimostrare è trascendere il pensiero, e il pensiero che si trascende; e il pensiero che si trascendesse all’infinito non sarebbe mai pensato. Questo è il problema della φύσις, qualcosa che si trascende all’infinito essendo l’πειρον, essendo l’indeterminato, perché se fosse determinato sarebbe il fenomeno; e se fosse fenomeno dovrebbe avere la sua ragione in qualche cosa che è fuori di sé, e quindi occorrerebbe cercarla al di fuori; e poi questo elemento dovrebbe avere a sua volta un altro che gli fornisca l’ρχ, e così via all’infinito. Questo è il pensiero che già gli antichi avevano inteso molto bene: se questa ρχ deve essere tale, deve avere a che fare con l’indeterminato, perché se la determino non è più principio. Ma se la scienza è condizionata dalla fede, la scienza logicamente non ha modo di distinguersene. Perché la verità della conseguenza è la verità stessa delle premesse: e se la prima premessa è fede, tutta la verità della dimostrazione, da cima in fondo, è verità di fede. Qui ci starebbe bene la dimostrazione di Mendelson. Tutta la verità è fondata sulla fede, sull’analogia, diceva Hegel: ho fede che se questa cosa è simile a quell’altra, allora anche per questa varranno gli stessi principi che valgono per quell’altra. Non è impossibile, ma dal non essere impossibile a essere certi c’è molta differenza. Quindi, tutta la dimostrazione è sorretta dall’atto di fede. Tutta la scienza è fede. E chi più intende, più crede: chi più ha fede in una scienza siffatta, più conculca la libertà della ragione e la sottomette all’arbitrio della fede. Chi ha fede vuole ricondurre tutti alla sua fede. La quale potrà avere i suoi principii evidenti così nei più astratti rapporti tra termini meramente intelligibili laboriosamente escogitati dalla ragione, primi in sé ma, come avvertiva Aristotele, ultimi rispetto a noi, e potrà averli nei dati dell’esperienza immediata: nei così detti fatti. Tant’è che i fatti possono essere utilizzati per qualunque cosa e il suo contrario. Gli uni e gli altri a rigore sono concetti immediatamente affermati. E secondo che si sia portati a percorrere la medesima via in un senso o nell’altro, si potrà, ragionando nell’identico modo, o negare i fatti perché non rientrano nelle nostre teorie, cioè contraddicono ai principi delle nostre astratte teorie, o negare i principi perché contraddicono ai fatti della nostra esperienza. Bisogna tenere conto che i fatti sono sempre fatti della nostra esperienza. Perciò non potrà illudersi di sottrarre la scienza alla fede chi si appella ai fatti, a quella immediata esperienza, dalla quale ogni legittimo concetto dovrebbe dedursi. Fede la scienza a priori, che muove dai principi ideali; fede la scienza a posteriori, che muove dai fatti. Se fede è consentire in verità indimostrate,… Questa è la definizione che dà di fede: consentire in verità indimostrate …il pensiero di chi non conosca altra dimostrazione da quella che importa il superamento del concetto da dimostrare, sarà sempre irrimediabilmente, fatalmente, fede. Questo il carattere dommatico d’ogni filosofia governata dalla logica dell’astratto come logica analitica. La logica dell’astratto è la logica della fede; cioè, deve avere fede nell’apodissi, nella dimostrazione; devo avere fede che ciò da cui si parte, la mia esperienza, mi dia la verità. Questo se è a priori, ma se è a posteriori allora sono le mie deduzioni, i miei ragionamenti che devono essere veri. Ma per essere veri devono partire da qualcosa di vero.