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Parmenide di M. Heidegger

 

 

3-2-2016

 

Il Parmenide di Heidegger è una lettura interessante, ricca di spunti come spesso accade con i testi di Heidegger, questo in particolare, perché lui parte da due parole dell’inizio del poema di Parmenide dove parla della dea Verità, non della verità come una Dea, ma della dea Verità e considera la questione della verità come la questione centrale di tutto il pensiero occidentale. La ἀλήθεια è stata tradotta con “verità”, ma per il greco antico ἀλήθεια non era “verità” così come la intendiamo noi, c’è stato un mutamento, un passaggio dall’ ἀλήθεια, che letteralmente è il “disvelamento” alla nozione latina di “veritas” che significa tutt’altra cosa, come è accaduto questo? Il pensiero occidentale si è fondato su questo concetto di verità romana, e ancora oggi quando si parla di ἀλήθεια in effetti si pensa alla verità nell’accezione romana, come veritas, cioè come correttezza. Heidegger ci condurrà attraverso un’analisi precisa, per quanto è possibile un’analisi precisa di termini che venivano usati 2500 anni fa, e traendo notizie sul modo in cui il greco antico intendeva un certo termine dai poeti greci, dal modo in cui usavano questi vocaboli, dal modo in cui pare, dico “pare” perché quando si parla, dicevo prima, di termini utilizzati duemila e cinquecento anni fa è difficile avere una certezza assoluta. Giunge comunque a delle conclusioni notevoli, in particolare per ciò che a noi interessa e cioè giunge a porre la questione della verità in senso latino come correttezza e come volontà di potenza, né più né meno. La trasformazione dell’ἀλήθεια in veritas è ciò che ha consentito la costruzione di quel discorso su cui si è impiantata la volontà di potenza. L’obiettivo di Heidegger è intendere che cosa il greco antico intendeva con ἀλήθεια, che non ha niente a che fare con la “veritas” latina, e come sia potuto accadere che da ἀλήθεια cioè dal disvelamento, dal disvelarsi di qualcosa si sia passati alla veritas come correttezza: Pag. 34 Il pensare è l’attenzione per l’essenziale e in essa consiste il sapere essenziale. Ciò che solitamente si definisce “sapere” è intendersi di una cosa e dei suoi elementi distintivi, in forza di siffatta conoscenza noi padroneggiamo le cose, questo sapere padroneggiante mira all’ente corrispettivo, alla sua organizzazione, al suo sfruttamento. Tale sapere si impadronisce dell’ente, lo domina e di conseguenza va al di là di esso superandolo di continuo, il sapere essenziale è di tutt’altro genere (cioè non è un sapere che deve dominare l’ente, questo sapere essenziale che è poi il sapere connesso con l’ἀλήθεια, mentre il sapere che domina è il sapere della veritas) esso mira a ciò che l’ente è nel suo fondamento, mira cioè all’essere, il sapere essenziale non padroneggia ciò che intende sapere ma ne è piuttosto toccato. Ogni scienza, per esempio, ma non soltanto essa è un padroneggiamento conoscitivo vale a dire una vittoria schiacciante sull’ente e sul suo superamento se non addirittura una sopraffazione, viceversa il sapere essenziale, l’attenzione è un arretrare di fronte all’essere, un arretrare in cui vediamo e percepiamo essenzialmente di più, vale a dire qualcosa di completamente diverso che nel singolare procedimento della scienza moderna il quale è sempre un’aggressione tecnica nei confronti dell’ente e un intervento finalizzato all’orientamento operativo produttivo attivo e affaristico (qui incomincia a dire di una differenza importante e cioè del modo in cui lui intende affrontare la questione, la intende affrontare appunto puntando all’essenza dell’ἀλήθεια che non intende dominare l’ente, la cosa, quindi anche la parola, la parola è un ente ma lasciarsi toccare, lasciarsi toccare è lasciarsi interrogare, lasciarsi domandare) Pag. 46: I greci, chiamano ἀλήθεια ciò che noi siamo soliti tradurre con la parola verità ma se traduciamo letteralmente la parola greca essa dice Unverborgenheit “svelatezza”, sembrerebbe quindi che il tradurre letteralmente consista soltanto nel riprodurre la parola greca tramite il termine corrispondente della nostra lingua, con ciò comincia o meglio già finisce la trasposizione letterale tuttavia il tradurre non si esaurisce in una simile riproduzione di vocaboli che poi spesso nella nostra lingua risultano artificiosi e sgradevoli, se ci limitiamo a sostituire il termine greco ἀλήθεια con il nostro “svelatezza” non stiamo ancora traducendo, ciò avviene solamente quando la parola che traduce la svelatezza ci tra-duce nell’ambito e nella modalità di esperienza da cui la grecità nel nostro caso il pensatore iniziale Parmenide proferisce la parola ἀλήθεια, rimane dunque un futile gioco di vocaboli se, come ultimamente di moda nel caso della parola ἀλήθεια, rendiamo sì ἀλήθεια con svelatezza ma al tempo stesso al termine svelatezza che ora deve sostituire la parola verità attribuiamo un qualche significato che proviene a noi direttamente dal successivo uso corrente della parola verità oppure ci si offre qualche ragguaglio fornito da un pensiero posteriore (anche se diciamo “svelatezza” continuiamo a pensare verità come la pensa la metafisica) in tal modo quel che è nominato dalla parola svelatezza, vale a dire ciò che pensando adeguatamente dobbiamo pensare nel nome ἀλήθεια, non viene ancora esperito e tanto meno custodito in un pensiero rigoroso, è possibile che la parola Entbergun “svelamento” da noi appositamente coniata, si approssimi all’essenza dell’ἀλήθεια greca più che l’espressione Unverborgheneit che è svelatezza quale e non di meno e per diverse ragioni appare in un primo momento adatta quale parola guida per la meditazione sull’essenza dell’ἀλήθεια, si ponga però attenzione al fatto che in seguito il vertere su Unverborgheneit e Verbergung “svelatezza” è velamento mentre l’ovvia espressione Unferbergung non velamento non verrà evitata nonostante fornisca la traduzione più letterale (sono accortezze) ogni tentativo di tradurre alla lettera parole fondamentali come verità, essere, parvenza eccetera rientra ben presto nell’ambito di un progetto che va essenzialmente oltre l’abile allestimento di formazione adatte in termini letterali// la poesia di un poeta, la trattazione di un pensatore stanno nella loro parola propria che è unica e singolare esse ci costringono a percepire sempre tale parola come se la udissimo per la prima volta, (questo è il domandare per Heidegger “udire ciascuna volta la parola come se fosse la prima volta” cioè domandare non è chiedere che cosa significa, che altri significati eccetera, no, non solo, non ancora, ma soprattutto il porsi di fronte alla parola come se fosse la prima volta, come se fosse una parola iniziale) queste primizie della parola ci tra-ducono ogni volta su una nuova sponda, il così detto tradurre e perifrasare è sempre solo successivo al tradurre nella nostra intera essenza nell’ambito di una verità mutata /…/ Per essere nella condizione di tradurci nell’ambito della parola greca ἀλήθεια e quindi di poter d’ora innanzi dire tale parola pensandola dobbiamo prima risvegliarci e seguire le indicazioni forniteci anzi tutto dalla parola che traduce “svelatezza” /…/ Pag. 62: Domanderemo anzi tutto come suona la parola che coglie l’opposizione essenziale all’ἀλήθεια, (perché ἀλήθεια ha una particolarità dice lui è composta da un alfa privativo che è la negazione, però si accorge che i greci non usano per dire “falso” la ἀ-λήθεια senza la ἀ, usano un’altra parola) tὸ ληθές si traduce con il vero, (λήθεια verità) conformemente all’interpretazione dell’ἀλήθεια come svelatezza essa significa lo svelato eppure finché rimane oscuro in che senso vada pensata la svelatezza anche la traduzione di ληθές con svelato va presa con cautela essenziale, quanto al nome l’opposto dello svelato cioè il velato risulta facilmente se solo rimuoviamo l’alfa privativum togliendo nel contempo l’eliminazione del velato per lasciare sussistere appunto il velato (togliamo la a e svelato rimane velato, noi togliamo la s)letteralmente la cancellazione dell’alfa privativo conduce al ληθές, tuttavia non troviamo mai tale parola come ciò che nomina il falso che i greci chiamano piuttosto “tὸ ψεῦδος”, questo termine ha tutt’altra origine e radici diverse quindi anche un differente significato fondamentale che non è direttamente determinabile. Nella radice λθ - è contenuto il velare mentre “ψεῦδος” non dice niente di simile, in ogni caso non immediatamente, siamo tentati di far notare che anche nella nostra lingua la parola opposta Gegenwor” a verità vale a dire falsità possiede un carattere diverso ma forse gli opposti greci λήθεια - ψεῦδος sono più vicini fra loro che non le nostre parole corrispondenti verità e falsità (d’altra parte anche la parola italiana “falsità” non ha niente in comune). Potrebbe darsi che lo ψεῦδος sia pensabile in termini più adeguati solo a partire dall’λήθεια però è anche possibile che a fornirci indicazioni su come esperire l’ λήθεια stessa sia proprio  ἀλήθεια in quanto parola correntemente opposta a ἀλήθεια, in verità a guidarci nel tentativo di rintracciare i significati fondamentali dei vocaboli e delle parole sono non di rado le idee inadeguate che ci facciamo del linguaggio in generale da cui poi nascono le abitudini e i giudizi errati in merito alle indagini dei significati fondamentali. /…/ Queste concezioni fuorvianti che ancora oggi dominano la linguistica hanno origine dal fatto che la prima riflessione sulla lingua della grammatica greca seguendo il filo conduttore della logica cioè della dottrina dell’asserzione si è sviluppata come teoria della proposizione e di conseguenza le proposizioni si compongono di vocaboli e i vocaboli indicano concetti e sono questi ultimi che determinano ciò che in generale si rappresenta nella parola, il nostro domandare tuttavia allorché pensiamo in direzione del significato fondamentale ci guida in una concezione della parola e del linguaggio totalmente diversa, il ritenere che ci limiteremmo qui a praticare una sorta di filosofia basata su parole che ricava tutto cavillando unicamente sui loro significati è senz’altro un’opinione assai comoda ma anche talmente superficiale da non poter essere qualificata nemmeno come falsa (sta dicendo che non si tratta di trovare dei significati che sono più veri o più falsi, significati più autentici no, si tratta di ripensare tutto dall’inizio, ripensare l’λήθεια nei termini in cui era “pensata” o meglio ancora da cui il greco antico si lasciava interrogare, si lasciava domandare) Quello che chiamiamo significato fondamentale dei vocaboli è quanto essi hanno di iniziale ciò che appare non al principio bensì alla fine e che pure allora non si dà mai come un prodotto derivato e preconfezionato che potremmo pensare a sé stante, il così detto significato fondamentale domina di nascosto in tutto le accezioni delle parole corrispettive allora la parola opposta a “svelato” “vero” ληθές suona ben diversamente ψεῦδος noi traduciamo tὸ ψεῦδος con “falso” senza sapere esattamente che cosa significhi qui “falso” e soprattutto come vada pensato nel senso del significato greco comunque anche in questo caso dovrebbe essere finalmente giunto il tempo di riflettere una buona volta sul fatto che l’opposto di ληθές non è come sarebbe ovvio ληθς  o λθς o un termine simile bensì ψεῦδος ma con ciò non abbiamo ancora mostrato compiutamente il carattere enigmatico di tali connessioni per la parola ψεῦδος in quanto termine che significa il falso, esiste in effetti ciò che viceversa non troviamo nel caso di ληθές vale a dire il significato privativo derivante dalla medesima radice tὸ ἀ-ληθές ovvero il “non falso” (c’è l’alfa privativa quindi nega il falso che non è il vero, cioè ἀ-ληθές con la alfa privativa davanti, questo “falso” non diventa il vero, diventa il “non falso” che è un’altra cosa) tuttavia questo è ciò che è “senza falso” ed è quindi il vero /…/ Se la velatezza domina l’essenza della svelatezza ne deriva il fatto enigmatico che nel senso greco l’essenza della verità viene caratterizzata dall’essenza della falsità (nel senso che la verità λήθεια procede da ληθές cioè dal velato perché è una negazione dell’essere velato in essere svelato) ciò potrebbe in effetti sembrare completamente assurdo perché il positivo non può mai scaturire dal negativo ma tutt’al più può accadere il contrario, noi sappiamo però che già il nome greco dell’essenza della verità esprime il fatto enigmatico secondo cui in tale essenza sono decisivi la velatezza e il conflitto con essa (quindi parla di un conflitto tra la velatezza e la svelatezza, adesso vediamo di che conflitto si tratta) proprio per questo sarebbe ovvio intendersi che anche nella parola opposta a svelatezza venga nominata altrettanto chiaramente la velatezza sentiamo parlare invece di ψεῦδος, le parole opposte ad λήθεια che hanno origine dalla radice laz sembrano scomparse eppure le cose stanno così solo in apparenza soprattutto visto che traduciamo la nota parola greca di radice λθ - a cui appartiene λήθεια e cioè λανθνομαι coprendone completamente l’aspetto essenziale, secondo il vocabolario λανθνομαι significa “dimenticare” un termine di cui chiunque comprende il significato, tutti quotidianamente fanno esperienza di dimenticare ma di che cosa si tratta? Che cosa pensano i greci quando con λανθνεσθαι enunciano ciò che noi chiamiamo il “dimenticare” anzitutto è necessario una chiarificazione di λανθνειν, λανθνω significa sono velato, sono nascosto il participio aoristo del verbo è λαθν. Qui abbiamo l’opposto di ληθές che cercavamo, λαθν è l’essere velato “lastra” significa il modo velato eccetera, λαθν indica ciò che rimane velato, ciò che si mantiene nascosto eppure λαθν l’essente velato non è la parola opposta ad ληθές “svelato” perlomeno fintanto che per l’opposto dello svelato si intende il falso, il velato infatti è senz’altro il falso anche se viceversa t ψεῦδος il “falso” nella sua essenza rimane presumibilmente sempre una modalità di velato o del velare, forse dobbiamo comunque comprendere che lo ψεῦδος partendo dal velare, dall’essere velato soprattutto se le parole della famiglia velare e velato possiedono una forza semantica /…/ pag. 69 Sia nel modo in cui l’uso linguistico greco dice in generale il λανθνειν che è “l’essere velato” (tutte parole che ricordano ἀλήθεια) l’essere nascosto in quanto verbo reggente se nella spiegazione dell’essenza del dimenticare in quanto appunto accadere del velamento (ricordate prima il “dimenticare” qui come essenza e assenza del velamento, quindi “dimenticare” ancora come uno svelare) si mostra in modo già abbastanza chiaro che nell’esserci della grecità cioè nel suo stare all’interno nel mezzo dell’ente come tale domina essenzialmente l’essenza del velamento, da ciò possiamo immaginare già più facilmente perché la verità venga esperita pensata nel senso della svelatezza ma in base al procedimento manifesto del velamento quindi al velamento, non dovrebbe forse venire determinato allora anche l’essenza dell’opposizione alla verità maggiormente nota cioè l’essenza della falsità dunque tὸ ψεῦδος, sebbene nel suono di tale parola la radice λθ - non risuoni?  Pag. 77 Ciò che ψεῦδος significa nella parola “pseudonimo” non viene colto con precisione se lo traduciamo con falso, infatti ha a che fare qui con un coprire che al tempo stesso e sia pure in modo sottointeso scopre qualcosa di recondito viceversa nemmeno il falso nome dell’impostore è in effetti semplicemente scorretto ma copre, dovendo nel contempo rendere visibile qualcosa di molto evidente che suscita grande impressione (vedete come c’è sempre questo oscillare tra il velato e lo svelare, anche lo ψεῦδος non è semplicemente il falso cioè qualche cosa che viene eliminato ma è qualche cosa che vela in qualche modo) Pag. 83 Per i greci e ancora in Aristotele ἀλήθεια è il carattere dell’ente e non soltanto un carattere del percepire l’ente e del formulare asserzioni su di esso (quindi dice è un carattere del percepire l’ente non di stabilire se è vero o falso, ma di percepirlo) che cos’è dunque originariamente disvelante (ληθές)? Il dire λγειν? l’ente “on”? oppure nessuno dei due? Prima di rispondere a queste domande che mirano al cuore nell’ambito essenziale dell’λήθεια dobbiamo anzitutto definire l’ampiezza di tale ambito, significa che dobbiamo pensare in modo ancora più approfondito l’essenza del velamento intesa nel senso dello ψεῦδος concepito come occultare il falso è un velare (il falso è un velare) ogni velatezza ha in sé falsità per un occultare? Ogni velatezza è già in sé falsità? Perché ci sia possibile prendere qui una decisione l’ambito essenziale del velamento deve dapprima esserci venuto più vicino tuttavia prima di gettare uno sguardo più ampio nell’ambito essenziale dello svelamento dobbiamo fornire ancora una delucidazione che fino adesso abbiamo tenuto da parte poiché essa diviene comprensibile soltanto dopo aver chiarito l’essenza greca dello ψεῦδος, sono necessarie sia una spiegazione di quello che dice la parola “falso” sia una breve chiarificazione di che cosa significa la preminenza del falso entro la determinazione essenziale del “non vero” /…/ Presso i greci tὸ ψεῦδος si presenta fin dal principio chiaramente e decisamente e quindi ovunque nella forma del contrario di ληθές (il vero) ma il fatto qui davvero singolare è proprio che dallo ψεῦδος inteso come il manifesto contrario di ληθές il vero cioè dello svelato non ci si aspetta affatto il riferimento all’ambito semantico del velare e non velare, (perché no? dice, perché da un lato perché in generale già da lungo tempo non si pensa più ληθές come lo svelato cioè non si esperisce né si è più in grado di esperire la svelatezza perché ormai si è nella veritas romana al contrario l’ληθές è inteso come il verum, il certum) poiché si ritiene che quanto si è in grado di comprendere sia anche quasi da sé vero e certo, dall’altro lato però non ci si sorprende affatto dell’enigma, in verità inquietante, della contrapposizione greca tra ληθές e ψεῦδος perché da un tempo altrettanto lungo si è abituati ad intendere lo ψεῦδος come il falso, eppure già una riflessione superficiale ci permette di riconoscere che ciò che in modo così diretto e massiccio chiamiamo il “falso” reca in sé una ricchezza essenziale affatto peculiare. // Giove viene detto σλματα φανον, colui che fa apparire i segni, segno è ciò che apparendo nel suo mostrare fa con ciò apparire qualcosa precisamente in maniera tale che esso non pone questo apparente sul piano di manifesta evidenza quello in cui compare il segno stesso ma nel contempo lo trattiene cioè lo vela, il mostrare è appunto siffatto svelare esso stesso apparente che nuovamente ritraendosi vela, solo laddove domina un far apparire cioè uno svelare ed è essenzialmente un lasco (uno spazio) per la possibilità dello ψεῦδος cioè del mostrare che al tempo stesso copre e trattiene, l’essenza dello ψεῦδος consiste in un velante porre in mostra cioè in un porre occultante (qui c’è la questione del segno, dice il segno mostra occultando che è esattamente quello che diceva Derrida in un altro modo che il segno mostra qualche cosa, qualche cosa è segno di qualche cos’altro, mostra qualche cos’altro nascondendolo, nascondendolo dietro alla sua rappresentazione. Quando Derrida diceva che il segno è segno di un altro segno stava dicendo questo, cioè che il segno di volta in volta fa apparire nel momento stesso in cui qualcosa appare la sottrae al suo apparire, che è esattamente ciò che sta dicendo qui rispetto al falso, però, allo ψεῦδος cioè un porre occultante “il segno pone occultando”. Dice che i romani hanno trasformato l’ἀλήθεια in veritas dando a questo concetto di ἀλήθεια un qualche cosa che in λήθεια non c’è affatto per esempio la certezza, la sicurezza, sono totalmente assenti nella parola greca) E nemmeno la romanizzazione della grecità da parte dei romani si estende soltanto quantitativamente tutto ciò che da essi è stato assimilato decisivo resta il fatto che la romanizzazione intacca l’essenziale dell’ambito storico greco romano, intervenendo come un mutamento dell’essenza della verità e quindi dell’essere (cioè sostituendo queste parole ἀλήθεια con “veritas” dice Heidegger è stato compiuto un mutamento dell’essenza stessa della verità, di conseguenza dell’essere, cioè la verità è diventata un’altra cosa, è diventata qualche cosa che serviva all’impero romano mentre il concetto di λήθεια così come era pensato dal greco antico era totalmente inutilizzabile dall’impero romano) Tale mutamento è caratterizzato dal fatto di restare nella latenza e di determinare non di meno tutto in anticipo, il mutamento dell’essenza della verità dell’essere è l’evento autentico nella storia (è questo che ha determinato la storia sta dicendo Heidegger cioè questo mutamento dal pensiero greco dell’ἀλήθεια al pensiero romano della veritas, cioè non è stata una cosa semplicemente così senza effetti che hanno tradotto semplicemente ἀλήθεια con veritas, non è così semplice la cosa) tuttavia l’imperiale inteso in quanto modo di essere dell’umanità storica non è il fondamento del mutamento essenziale dell’λήθεια in veritas come “rectitudo” ma ne è piuttosto la conseguenza e solo in questo senso può essere inteso quale possibile causa e occasione del dispiegarsi del vero nel senso del corretto (il vero nel senso del corretto era un concetto totalmente estraneo al greco) parlare di mutamento dell’essenza della verità è ovviamente un espediente poiché in tal modo ci si riferisce alla verità ancora in termini oggettuali (i greci non avevano il concetto di oggetto, non c’era, così anche di soggetto, non esisteva presso i greci il soggetto) e non si considera la maniera in cui essa stessa è essenzialmente. Al tempo stesso il mutamento essenziale della verità reca con sé ciò su cui si fondano nessi e influenze storiograficamente comprensibili della storia occidentale /…/ Ancora oggi vediamo la grecità con occhi romani e cioè non soltanto in seno alla ricerca storiografica che studia il mondo greco bensì ed è questo l’unico aspetto decisivo nel confronto metafisico e storico del mondo moderno con quello antico, la metafisica di Nietzsche che viene spesso ritenuto colui che nel moderno riscopre la grecità vede il mondo greco in modo assolutamente romano il che significa al tempo stesso moderno e non greco, analogamente noi pensiamo la polis greca e il politico in modo totalmente non greco vale a dire in termini romani cioè imperiali, l’essenza della polis greca non può mai essere compresa nell’orizzonte del politico romanamente inteso (che è il modo in cui lo intendiamo noi oggi, poi nella ricapitolazione:) Stiamo meditando sull’essenza dello ψεῦδος inteso abitualmente come il falso tuttavia posto che qui in genere ci si stia occupando di qualcosa, a che scopo ci stiamo appunto occupando del falso? Non vogliamo forse la verità? E non fatichiamo già abbastanza per trovarla e conservarla? Noi vogliamo il positivo, che senso ha rimuginare sul negativo? Ottime domande eppure non si può nemmeno dire che nella nostra meditazione rincorriamo il falso poiché stiamo riflettendo “soltanto” sull’essenza del falso, ma l’essenza del falso non è in sé qualcosa di falso anzi è talmente lontana dall’esserlo che forse l’essenza del falso è addirittura l’elemento più essenziale nell’essenza del vero. Potrebbe darsi infatti che noi attingiamo il vero così difficilmente e quindi così raramente proprio perché non sappiamo né vogliamo sapere nulla dell’essenza del falso, potrebbe darsi che ritenendo l’essenza stessa del negativo qualcosa di negativo ci si trovi a vagare in una inquietante cecità (è negativo quindi tanto basta, Heidegger dice che l’essenza del negativo, del falso, non è falso, non è negativo, ma è la sua essenza) A chi non sa nulla dell’essenza della morte manca ogni traccia di un sapere circa l’essenza della vita l’essenza della morte non è una “non essenza” (la morte sarebbe il “non essere più” ma non per questo l’essenza della morte è la non essenza, è un’essenza, se è essenza) la differenza tra positivo e negativo è inadeguata a comprendere quell’essenziale a cui appartiene anche il non essenziale (sta dicendo che insomma l’essenza del falso non è qualcosa di falso) pensato in modo greco t ψεῦδος abitualmente tradotto con il falso è l’occultante (questo è la traduzione di Heidegger del greco t ψεῦδος “l’occultante”) L’occultamento fa sì che ciò che esso colloca e mette in piedi appaia diversamente da com’è in verità, nel “diversamente da …” riposa il “non così come …” e esperito in base alla dissimulazione e alla svelatezza attua un velamento, tuttavia anche l’occultamento vela ed è quindi una modalità dello svelare (quindi vedete la prossimità per il greco antico tra quelle cose che oggi chiamiamo “vero” e “falso”, Heidegger dice che anche l’occultamento svela) ed è quindi una modalità dello svelare nella misura in cui non si limita a porre davanti qualche cos’altro e precisamente davanti a ciò che va rappresentato ma lascia apparire qualcosa diversamente da com’è in verità se lo ψεῦδος fosse del tutto privo di questo tratto fondamentale del dissimulare e del dis-simulare quindi del velare, non potrebbe mai affermarsi come l’opposizione essenziale dell’λήθεια cioè la svelatezza, il tratto fondamentale del falso nel senso dei greci è il velamento (quindi sì l’λήθεια è uno svelamento, un disvelare, ma Heidegger giunge a considerare che ψεῦδος cioè ciò che noi traduciamo falso di fatto è un velare, cioè il contrario di ἀλήθεια) per comprendere in modo inequivocabile l’esperienza greca essenziale dello ψεῦδος può essere utile fare chiarezza su come al di fuori della grecità e quindi dopo la sua epoca storica sia stata demarcata l’essenza del falso. Falsch che è una parola che deriva dal “falsum” romano, participio del verbo “fallere” alla stessa radice appartengono il tedesco “fallen” “cadere” l’espressione zu Fall bringen “far cadere” e il verbo greco σφλλω, se traduciamo quest’ultimo con “ingannare” non dobbiamo dimenticare che l’ingannare in senso greco si determina in base allo ψεῦδος cioè all’occultare, al porre davanti, al dissimulare pensato in modo greco il verbo σφλλω “io inganno” nomina una conseguenza essenziale dello ψεῦδος, pensato in termini romani il fondamento essenziale dello ψεῦδοςfallere” “far cadere” (qui da una parte c’è il dissimulare dall’altra il far cadere) su che cosa si fonda la preminenza del fallere nella caratterizzazione romana dell’opposizione essenziale alla verità? Si fonda sul fatto che il rapporto fondamentale con l’ente in generale è in ambito romano completamente dominato dall’Imperium. Imperium” significa im-parare, instaurare, prendere provvedimenti e il præ-cipere cioè l’occupare in anticipo qualcosa e mediante tale occupazione dare ordini al suo interno avendo così ciò che si è occupato come territorio. Imperium è l’ordine, il comando nel medesimo ambito iniziale dell’imperiale cioè da ciò che è retto dall’ordine e conforme all’ordine statuisce il diritto romano ius iubeo, che significa “io comando”, il comando è il fondamento essenziale del potere, ed è per questo che in modo più adeguato e chiarificatore traduciamo Imperium con “Oberbefehl “comando superiore” l’essere sopra è proprio del potere ed è possibile solo in virtù del costante rimanere sopra nella modalità del costante sopraelevarsi, quest’ultimo è l’actus autentico dell’azione imperiale (stare al di sopra, vedere tutto, controllare tutti) nell’essenza del costante sopraelevarsi è implicito come fra montagna e vallata il tenere in basso e il far cadere, il semplice abbattere nel senso del “gettare a terra” è bensì la modalità imperiale il far cadere più rozza, ma non è né quella autentica, né quella essenziale, il tratto essenziale più intimo e grandioso del potere essenziale non consiste nel fatto che i dominati vengono repressi o addirittura soltanto disprezzati ma nel fatto che essi all’interno del territorio sottoposto all’ordine possono offrire i loro servigi per assicurare la stabilità del potere (qui sta lavorando sui termine “fallere” cioè su come il falso si sia evoluto e si mostri nella lingua latina, che non è lo ψεῦδος greco, non c’è nulla di tutto ciò di cui sta parlando nel termine greco “falso”) Il “far cadere” mira a far sì che coloro che cadono in un certo qual modo rimangano in piedi ma non stiano in alto, il “far cadere” imperiale, il “fallere” è quindi quell’aggirare e prendere alle spalle che lascia stare in piedi, per la romanità l’essenza dell’inganno, dello sviamento e dell’occultamento quindi dello ψεῦδος si determina in base al fallere, al far cadere, lo “sviante” diventa il falsum, ora posto che la differenza fra lo ψεῦδος greco e il falsum romano provenga da altri ambiti, abbia un'altra portata rispetto alla differenza nello stile delle pentole e delle punte di lancia greche romane, posto cioè che accada qui un mutamento nel fondamento essenziale della storicità di ogni storia dovremo pensare in modo più attento e approfondito la trasformazione della grecità operata dalla romanità, il fatto che ancora oggi, anzi oggi in modo più deciso che mai l’occidente pensi il mondo greco in termini romani e quindi in latini cristiani, romanici e moderni europei costituisce un evento che riguarda il cuore stesso della nostra esistenza storica, il politico che a suo tempo in quanto “politicon” è scaturito dall’essenza della polis greca viene inteso in senso romano a partire dall’età dell’Imperium la parola greca “politico” significa qualcosa di romano, di greco viene essa soltanto il mero suono verbale /…/ Eravamo arrivati alla domanda “come stanno le cose circa l’essenza del “falso” del “falsum” romano? Una considerazione più accurata del processo mediante il quale la romanità ha accolto in sé il poetare, il pensare, il parlare, il raffigurare greci mostra che il “falsum” “facente cadere” ha trasformato a suo modo lo ψεῦδος, l’occultante, lo ha assimilato a sé e con ciò lo ha soppresso. Da allora l’occidente conosce lo ψεῦδος ormai soltanto nella forma del falso. (quando uno studente nella traduzione greca trova ψεῦδος traduce con falso) per noi l’opposto del vero è il falso, tuttavia con la Romanità non solo si fonda la preminenza del falso in quanto interpretazione decisiva dell’essenza della non verità, in occidente anche il consolidamento di tale preminenza di falso rispetto allo ψεῦδος nonché la stabilizzazione di questo consolidamento sono opera dei romani ma ciò che ora agisce effettivamente in questa opera non è più l’Imperium statale bensì l’Imperium ecclesiastico cioè il sacerdozio, l’imperiale viene ad assumere la forma del curiale, della curia del Papa romano il cui potere si forma anch’esso sul comando, il carattere imperativo riposa sull’essenza del dogma ecclesiastico ed è perciò che questo fa i conti allo stesso modo sia con il vero dell’ortodosso sia con il falso dell’eretico e del miscredente, l’inquisizione spagnola è una forma dell’Imperium curiale romano, è con la romanità imperiale statale, imperiale ecclesiastica che per noi in occidente lo ψεῦδος greco è diventato il falso di conseguenza il vero assume il carattere del non falso, il non falso si determina tanto quanto il falso in base all’ambito essenziale del “fallere” imperiale detto in termini romani il non falso è il verum, (ciò che non è caduto è il verum, che è ciò che sta dritto in piedi, è il certo) dopo avere delucidato le parole ληθές “svelato” e “svelante” ψεῦδος occultante, “falsum” “facente cadere” e con ciò anche la parola “falso” lungo il cammino finora percorso della chiarificazione preparatoria dell’essenza dell’ἀλήθεια cioè dell’essenza della verità esperita in modo greco abbiamo le condizioni principali per sapere come stanno le cose circa la parola romana che sta per ληθές cioè “verum” ma soprattutto circa i termini tedeschi che stanno per ἀλήθεια come Wahrheit “verità” e wahr “vero”. Dal momento che wahr è parola opposta a falsch e che quest’ultima deriva dal romano “falsum”, la parola “verum”, la parola romana opposta a falsum, deve senz’altro appartenere con il “falsum” al medesimo ambito essenziale e di conseguenza deve fare rientrare in essa anche il wahr il “vero” a tale riguardo si presuppone ovviamente che tra var e verum sussista una relazione il che è anche corretto in quanto il wahr tedesco venne determinato anticamente dal verum romano cristiano, questo processo ha una sua profondità e una grande portata al momento che nella predicazione del cristianesimo fra i germani i termini “veritas” “verum” non rappresentano certo parole romane qualsiasi, la fede cristiana viene diffusa infatti come quella totalità che essa è, e cioè come la “veritas” il “verum” il Vero poiché Cristo dice di se stesso “ego sum via, et veritas, et vita” in queste parole di greco è rimasto ormai soltanto la lettera perciò poterono passare immediatamente nel latino della vulgata “ego sum via, veritas et vita” (io sono la via, la verità la vita). I termini tedeschi Wahrheit e wahr rientrano nel campo semantico delle parole “verum” e “veritas” che dominano in virtù del latino ecclesiastico, se a margine di ciò o più originariamente il tedesco wahr avesse anche un suo proprio significato fondamentale non determinato in base al “verum” cioè al “falsum” è cosa controversa perché oscura ed è oscura perché non c’è luogo in cui un’altra essenza di wahr e di Wahrheit venga alla luce pervenendo così alla unicità della storia tedesca. Ma che cosa significa il “verum” latino? La radice linguistica “ver” è indogermanica come la radice “fall” per σφλλω da cui “fallere” (latino) fallen (tedesco), la radice “ver” si mostra chiaramente nella parola tedesca wehren “difendere” “di ver” “la difesa” dasWehr “la barriera” in ciò consiste il movimento del contro, dell’opposizione das Wehr ossia “lo sbarramento contro” in osco “la porta” ciò che sbarra il passaggio, l’ingresso, “vero stabulum” “vestibulum” vale a dire lo spazio che sta davanti all’effettivo ingresso chiudente al “ver” lo spazio davanti alla porta, il vestibolo, se non che nel “ver” non riposa soltanto ciò che si oppone altrimenti la parola “ab ver” “difesa da” sarebbe una mera tautologia, “ ver” non è in sé già e sempre wher-gegen” “gegen” “difesa contro” da cui Gegestand l’oggetto ciò che sta contro. Nel Parsifal il termine “ver” non significa Abwehr “difesa da” bensì difendersi, affermarsi wehrfü “difesa per” “ver” significa allora “tenere la posizione” “restare al proprio posto”, situazione a cui ovviamente appartiene sempre in un certo qual modo l’opposizione che però a sua volta può avvenire sempre e solo in base a una stabilità, “ver” significa quindi “stare in posizione” “restare al proprio posto” ma anche “stare in piedi” “restare in piedi” cioè “non cadere” non c’è “falsum” “restare in alto” “affermarsi” “essere il capo” “comandare” ciò che si afferma è che sta “diritto”, l’ “eretto”, il vero ha ottenuto il suo significato di ciò che sta saldamente diritto in quanto opposto al falso, dall’essenziale ambito imperiale. (Vedete come sta giocando con i termini e come l’uso della traduzione della parola ἀλήθεια come veritas non è del tutto casuale, perché questa parola è stata essenziale all’Imperium, essenziale al comando, essenziale alla volontà di potenza, cosa che secondo Heidegger non c’è nell’ἀλήθεια, poi vedremo se è proprio così, però sicuramente nella parola latina “verum” che secondo questa sua ricostruzione, occorre sempre tenere conto che le ricostruzioni etimologiche sono sempre incerte, però diciamo che se fosse così in effetti il “ver” di “verum” sarebbe ciò che sta dritto in piedi, sta contro, ciò che si oppone, ma si oppone a che cosa? Al falso, cioè si oppone a ciò che è stato fatto cadere. Con la costruzione latina dell’oggetto, che non c’è in greco, l’oggetto è πργμα, è la cosa ma è anche la ricchezza, è tante cose ma non c’è l’idea dell’oggetto come ob-jectum, ciò che si getta contro, non esiste perché per il greco non c’è qualche cosa che si getta contro ma è un venire incontro, un lasciarsi toccare come diceva prima Heidegger, dalla cosa, lasciarsi domandare dalla cosa. I romani hanno trasformato il pensiero greco intorno all’essenza della verità, quindi dell’essere, nella metafisica, cioè nella necessità di avere l’oggetto su cui imperare, su cui regnare, cosa che era assente nel pensiero greco.