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3 gennaio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Siamo arrivati al Capitolo Quinto, che è il penultimo della Seconda Sezione della Prima parte. Temporalità e storicità. A pag. 441. L’Esserci è stato assunto come tema solo nel suo esistere per così dire “in avanti”, trascurando tutto ciò che esso era stato “anteriormente”. Ma, oltre all’essere iniziale, rimase trascurata anche, e in primo luogo, l’estensione dell’Esserci fra la nascita e la morte. non si è esaminata proprio quella “continuità della vita” in cui l’Esserci, in qualche modo, si mantiene costantemente. In effetti, non aveva ancora parlato di questo, di questa estensione dell’Esserci dal momento in cui nasce, in cui incomincia, al momento in cui cessa, perché lui ha considerato soltanto il progetto, la progettualità, la gettatezza. Nulla sembra “più facile” di una caratterizzazione della “continuità della vita” fra la nascita e la morte. Essa consiste in una successione di esperienze vissute “nel tempo”. Ma se questa definizione della continuità della vita viene considerata più a fondo, particolarmente nella sua precognizione ontologica, ne risulta qualcosa di strano. In questa successione di esperienze vissute risulta “autenticamente reale” solo l’esperienza vissuta in “ciascun istante”. Le esperienze vissute passate o ancora da venire risultano invece o non più o non ancora “reali”. L’Esserci abbraccia l’intervallo di tempo concessogli fra i due limiti in un modo del tutto singolare: essendo sempre “reale” solo nell’ora, esso percorre per così dire saltellando la successione di istanti che costituisce il suo “tempo”. Se ne deduce che l’Esserci è “temporale”, e si sostiene che, attraverso questo continuo mutare di esperienze vissute, il se-Stesso conserva una certa identità. Sta affrontando la questione della storicità, quindi, del tempo, e incomincia a domandarsi delle esperienze, in questo arco di vita ci sono delle esperienze, ma lui dice, non a torto, che queste esperienze non sono propriamente reali, perché reale è ciò che ciascuno vive nell’attimo, questo è reale, immanente. Infatti, a pag. 442 prosegue L’Esserci non esiste come somma di realtà momentanee quali le esperienze vissute che si succedono e dispaiono. Questa successione non forma nemmeno poco a poco una cornice. Come potrebbe infatti formarla quando è sempre “reale” solo l’esperienza vissuta “attuale” e quando gli estremi della cornice, nascita e morte, mancano di realtà, essendo l’uno già passato e l’altro ancora da venire? In fondo, anche la concezione ordinaria della “continuità della vita” non vede in essa una cornice tesa “all’esterno” dell’Esserci, quasi a racchiuderlo, ma la cerca, e giustamente, nell’Esserci stesso. Tuttavia la tacita posizione ontologica di questo ente come una semplice-presenza “nel tempo”, condanna al fallimento ogni tentativo di determinazione ontologica dell’essere “fra” la nascita e la morte. Considera questo problema dicendo che l’Esserci non è una somma di realtà, di momenti, ma questa successione è soltanto l’ambito entro cui avvengono delle cose, però, reale è soltanto ciò che accade nell’attimo, in questo istante. Non è che l’Esserci, attraverso la successione delle sue realtà momentanee, percorra un cammino precostituito o un corso “della vita”; al contrario, l’Esserci estende se stesso in modo tale che fin da principio il suo stesso essere è costituito come estensione. Introduce questo termine “estensione”, l’Esserci si estende. Stabilito che non è la somma di momenti successivi, allora questo Esserci non può che essere un’estensione, in cui non c’è propriamente un prima, un durante e un dopo ma, come dicevamo, c’è una simultaneità. Il “fra” che congiunge la nascita con la morte è già insito nell’essere stesso dell’Esserci. Questa estensione che c’è tra la nascita e la morte è già presente nell’Esserci stesso, come dire che non è una progressione verso qualche cosa ma è già tutto presente. Mai l’Esserci “è” reale in un determinato punto del tempo e “circondato” dalla non realtà della sua nascita e della sua morte. Considerata esistenzialmente, la nascita non è e non è mai qualcosa di passato nel senso di non più presente, allo stesso modo che la morte non ha il modo di essere della “mancanza” di qualcosa non ancora presente ma che sarà tale. L’Esserci effettivo esiste come essente nato e, in quanto tale, muore nel senso dell’essere-per-la-morte. Ambedue le “fini” e il loro “fra” sono fintanto che l’Esserci effettivamente esiste, e lo sono su quell’unico fondamento che è reso possibile dall’essere dell’Esserci in quanto Cura. Qui appare chiaro il modo con cui lui pone la questione della storicità. Una storicità, come dicevo prima, non come una progressione ma come un qualcosa che è comunque presente. Riprendiamo l’esempio fatto tante volte: io sono tutto ciò che sono stato, ma lo sono adesso. Non è che non sono più quelle cose che sono stato, ma lo sono adesso, in questo momento, è questa la storicità. A pag. 443. La totalità della costituzione della Cura ha però il fondamento possibile della sua unità nella temporalità. È la temporalità che costituisce l’unità. La temporalità, cioè, l’essere in avanti, il progetto; il passato, cioè la gettatezza, ciò che è sempre stato, e il presente che è costituito dalla simultaneità di queste due cose. È questa l’unità che c’è nella temporalità. La chiarificazione ontologica e della “continuità della vita”, cioè dell’estensione, della motilità e della persistenza proprie dell’Esserci, deve perciò essere posta nell’orizzonte della costituzione temporale di questo ente. La motilità dell’esistenza non è il movimento di una semplice-presenza, ma si determina in base all’estensione dell’Esserci. La motilità, che noi vediamo nell’Esserci, nell’esistente, si determina in base all’estensione dell’Esserci, non in una fase progressiva, in una successione di eventi, come, per esempio, nella concezione tradizionale del tempo che lo definisce come una successione di stati. Qui non c’è propriamente la successione ma c’è un’estensione, cioè l’Esserci è qualcosa che si estende fra la nascita e la morte, ma in quel momento che l’Esserci c’è, c’è già tutto, c’è già la sua nascita e c’è già la sua morte, come possibilità e non come un evento che dovrà accadere e la possibilità è presente qui e adesso. La motilità specificamente propria dell’autoestendersi esteso, noi la chiamiamo l’accadere dell’Esserci. Questa questione dell’accadere e dell’evento, che articolerà poi negli anni successivi come Ereignis, appunto come evento, al punto che parlerà sempre meno di Esserci e sempre più di evento, qualcosa che accade, qualcosa che si dà. Il problema della “continuità” dell’Esserci è il problema ontologico del suo accadere. Lo scoprimento della struttura dell’accadere e delle sue condizioni di possibilità temporali-esistenziali, equivale al raggiungimento di una comprensione ontologica della storicità. La storicità, come la pone Heidegger, non è altro che la struttura dell’accadere. Dicendo questo ci sta dicendo che la storicità dell’essere ha a che fare con qualche cosa che è lì nell’Esserci, è lì presente tutto nell’Esserci. E torniamo all’esempio di prima: tutto ciò che io sono stato lo sono qui in questo momento. Il fenomeno fondamentale della storia, che precede e fonda ogni tematizzazione storiografica possibile, va in tal modo irrimediabilmente perduto. Come la storia possa costituire un oggetto possibile della storiografia, può essere desunto solo dal modo di essere di ciò che è storico, dalla storicità e dal suo radicarsi nella temporalità. Aveva criticato la questione storiografica che pone la storia come l’oggetto d’indagine. Dice che la storia non l’oggetto, la storia è questo estendersi dell’Esserci. L’esserci non è altro che questa estensione tra l’inizio e la fine, un’estensione che, torno a dire, non è il prodotto di una progressione ma è ciò che è sempre presente, che è sempre stato presente nel momento in cui esiste. È la stessa cosa che dicevamo tempo fa rispetto al linguaggio. Il linguaggio, nel momento in cui c’è, c’è sempre stato, non possiamo pensare a un momento in cui il linguaggio non c’era, non è pensabile. Quindi, quando si avvia il linguaggio, da quel momento c’è sempre stato. A pag. 444. Nella determinazione dei concetti ordinari di storia, la ricerca troverà l’orientamento iniziale per valutare i momenti che generalmente sono assunti come essenziali per la storia. Si deve così giungere a chiarire ciò che è considerato originariamente come storico. In tal modo sarà stabilito il punto di partenza per l’esposizione del problema ontologico della storicità. Partiamo da ciò che generalmente si intende con “storico”, poi da lì vediamo se è possibile darne una definizione ontologica, uno statuto ontologico. Il filo conduttore per la costruzione esistenziale della storicità… Costruzione esistenziale della storicità, vale a dire, che appartiene a ciascuno, l’uomo. …è offerto dall’interpretazione che abbiamo data del poter-essere-un-tutto autentico da parte dell’Esserci e dalla successiva analisi della Cura come temporalità. Sappiamo che il poter essere un tutto autentico da parte dell’Esserci è la temporalità dell’Esserci in quanto, per poter essere un tutto, l’Esserci deve essere posto come progetto, gettatezza e presente, questo è il tutto. Il progetto esistenziale della storicità dell’Esserci non fa che svelare ciò che è già incluso nella temporalizzazione della temporalità. La storicità dell’Esserci che cosa ci svela? Ciò che è già da sempre lì nell’Esserci, ciò che non può essere “dentro” l’Esserci. In corrispondenza con il radicarsi della storicità nella Cura, l’Esserci esiste sempre come autenticamente o inautenticamente storico. Ciò che, sotto la designazione di quotidianità, costituiva l’orizzonte immediato dell’analitica esistenziale dell’Esserci, si rivela come la storicità inautentica dell’Esserci. Sappiamo che la quotidianità è ciò che riguarda l’inautentico, il Si, il si dice, il si fa, il si pensa, ecc. Quindi, è chiaro che c’è una storicità anche nell’inautentico, questo è ovvio, anche perché, come sappiamo, è dall’inautentico che si parte, è nella chiacchiera che ciascuno nasce. A pag. 445. L’analisi della storicità dell’Esserci tenta di mostrare che questo ente (l’Esserci) non è “temporale” perché “sta nella storia”, ma che, al contrario, esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere. Questo ente, l’Esserci, sta nella storia perché è temporale, cioè perché è un tutto, un tutto fatto di progetto, di gettatezza e presente. È su questo che si impianta, per Heidegger, la storicità dell’Esserci, come se, in assenza di temporalità dell’Esserci, non fosse neppure pensabile una storicità, perché è nel progetto che io immagino il futuro, così come nella gettatezza io rivengo all’Esserci che è sempre stato. In un altro modo ancora, posso pensare a ciò che sono stato, nell’accezione più comune del termine, perché io sono già da sempre stato ciò che sono adesso, e cioè gettatezza. È questo che mi consente di pensare, secondo Heidegger, il passato, così come è comunemente inteso, e cioè come ciò che è stato e non è più, solo che l’errore è di considerare il passato, appunto come quello che è stato e non è più, mentre ciò che è stato è sempre qui presente, adesso e in questo momento, mentre ne parlo. Passiamo, a pag. 446, al § 73 – La comprensione ordinaria della storia e l’accadere dell’Esserci. Qui incomincia a intervenire il termine accadere. L’accadere dell’Esserci è l’evento per definizione, per Heidegger. Lo scopo immediato è quello di trovare il punto di partenza per il problema originario dell’essenza della storia, cioè per la costruzione esistenziale della storicità. Si chiede: da dove partiamo per intendere correttamente la questione della storia? Questo punto viene determinato in base a ciò che è originariamente storico. La trattazione incomincia perciò con la determinazione di ciò che, nell’interpretazione ordinaria dell’Esserci, si intende con le espressioni “storia” e “storico”. E, quindi, fa una serie di esempi. Fra i significati del termine “storia” che non denotano né la scienza della storia né il suo oggetto, ma questo ente stesso non necessariamente oggettivato, ce n’è uno che pretende un rango privilegiato: questo significato sta nell’espressione: quello in cui l’ente “storico” è inteso come passato. Incontriamo questo significato nell’espressione: questa o quella cosa appartiene già alla storia. “Passato” qui vuol dire non più presente oppure ancora presente ma senza “efficacia” sul “presente”. Questo è il modo con cui generalmente si intende il passato: ciò che non c’è più o che comunque non ha più influenza su ciò che c’è adesso. D’altra parte la storia in quanto passato ha anche il significato opposto, quando diciamo: non ci si può sottrarre alla storia. Qui la stori significa, sì, il passato, ma nel senso di ciò che è tuttora efficace. In ogni caso, ciò che è storico nel senso di ciò che è passato è sempre inteso in un rapporto di influenza positiva o privativa sul “presente”, inteso nel senso dell’“ora” e dell’“oggi”. Passato ha qui inoltre un doppio significato importante. Il passato appartiene irrevocabilmente ai tempi trascorsi, fa parte di eventi trascorsi; tuttavia può essere ancora presente “ora”, come ad esempio i resti di un tempio greco. In essi è “presente” un “frammento del passato”. … Storia significa inoltre la totalità dell’ente che muta “nel tempo”… Storia, in questo caso, non significa tato il modo di essere, l’accadere, quanto piuttosto la regione dell’ente che, in base alla determinazione dell’esistenza dell’uomo come “spirito” e “cultura”, è distinta dalla natura, benché, in qualche modo, anche la natura appartenga alla storia così intesa. Infine per “storico” si intende il tramandato come tale, sia esso storiograficamente riconosciuto oppure assunto come “evidente”, pur restandone oscura l’origine. Se vogliamo unificare i quattro significati suddetti, ne risulta: la storia è lo specifico accadere nel tempo dell’Esserci esistente, in modo tale che a valere come storia in senso eminente è quell’accadere che, nell’essere-assieme, è “passato” ma tuttavia “tramandato” e tuttora ininfluente. (pagg. 446-447) Questa è la definizione di storia che per Heidegger è più interessante. Infatti, dice I quattro significati hanno così in comune la connessione con l’uomo come “soggetto” degli eventi. Ciò che hanno in comune queste definizioni di storia è l’uomo, ché è l’uomo che si è inventato questi concetti, non è che vengano da chissà dove. L’uomo è l’Esserci, se non c’è l’uomo non c’è l’Esserci, se non c’è l’Esserci non c’è temporalità e se non c’è temporalità non c’è la storia. La storia, così come l’uomo la pone, è sempre un qualcosa che lo riguarda, che fa parte del suo racconto, la storia di fatto non è altro che una narrazione di cose come se fosse un mito. Ora, sta all’uomo, all’Esserci, avere un approccio autentico con questo racconto oppure no. Certo, nel caso della chiacchiera, della deiezione, può subirla, nel seno che si prende per buono tutto quanto. In un approccio autentico, però, con la storia, questo, almeno in teoria, non dovrebbe avvenire. O invece l’essere stesso dell’Esserci è costituito dall’accadere, cosicché, soltanto perché l’Esserci è storico nel suo essere, sono possibili circostanze, eventi e destini? (pagg. 447-448) Lui la pone come domanda ma possiamo porla benissimo come un’affermazione. Perché, nella caratterizzazione “temporale” dell’Esserci che accade “nel tempo”, proprio il passato svolge un ruolo particolare? Se la storia appartiene all’essere dell’Esserci…  È un’affermazione importante, come dire che non c’è una storia senza l’Esserci, non c’è una storia come successione di eventi senza l’Esserci, cioè senza l’uomo. Come dire, ancora: senza l’uomo, senza il linguaggio, non succede niente, non è mai successo niente. Se la storia appartiene all’essere dell’Esserci, e se questo essere si fonda nella temporalità, sarà opportuno iniziare l’analisi esistenziale della storicità con quei caratteri di ciò che è storico che hanno un chiaro senso temporale. A tal fine una più precisa definizione del singolare primato che il “passato” vanta nel concetto di storia varrà a introdurre l’esposizione della costituzione fondamentale della storicità. Poi, fa vari esempio, quello delle antichità nei musei, cose passate che però sono ancora presenti, per dire appunto che queste cose, pur essendo passate, vincolano il presente. Che cosa è passato? Nient’altro che il mondo all’interno del quale esse, appartenendo a un insieme di utilizzabili, erano incontrate come tali ed erano usate da un Esserci essente-nel-mondo e prendentesi cura di esse. Il mondo non è più, ma ciò che di intramondano sussisteva in quel mondo è ancora presente. Soltanto come utensile che ha fatto parte di un mondo, la “cosa”, ora ancora presente, può, nonostante tutto, appartenere al “passato”. Ma che significa il non-esser-più di un mondo? Un mondo è soltanto nel modo dell’Esserci esistente, il quale, effettivamente, è come essere-nel-mondo. Questa è la domanda fondamentale che si pone Heidegger: che cos’è il passato? Quando parliamo di passato, di che cosa stiamo parlando? È un mondo all’interno del quale delle cose appartenevano a un insieme di utilizzabili che erano incontrate come tali, cioè come utilizzabili. Quindi, il passato è quell’insieme di utilizzabili che hanno fatto parte di un mondo. Se non avessero mai fatto parte di un mondo non sarebbero nemmeno stati degli utilizzabili. Dice, quel mondo non è più ma ciò che di intramondano sussisteva il quel mondo è ancora presente, cioè gli utilizzabili; tutto ciò che ha determinato quel mondo è ancora presente. Il che significa ancora che tutto ciò che ha determinato, tutti gli eventi che mi sono accaduti, tutte queste cose intramondane di questo mondo che è passato sono però ancora qui. Ma che significa il non-esser-più di un mondo? Abbiamo parlato di un mondo che non è più, ci sono ancora degli utilizzabili presenti, quindi, questo mondo è ancora presente, ma che cosa vuol dire che un mondo non è più? Un mondo è soltanto nel modo dell’Esserci esistente, il quale, effettivamente, è come essere-nel-mondo. E adesso precisa. Il carattere storico delle antichità ancora conservate si fonda pertanto nel “passato” dell’Esserci al cui mondo esse appartennero. Di conseguenza sarebbe storico solo l’Esserci “passato” e non quello “presente”. È possibile una distinzione netta tra il mondo passato e il mondo presente? Questa è la domanda. Ma è possibile che l’Esserci sia passato, se si definisce “passato” il “non essere più, ora, semplicemente-presente e utilizzabile? Questa è una bella domanda. Che cosa vuol dire che il mondo è passato se abbiamo definito il passato il non essere più ora ma semplicemente-presente e utilizzabile? Il che non vuol dire che non c’è più, semplicemente non c’è più la semplice presenza. Evidentemente l’Esserci non può mai esser passato: non perché non passi, ma perché per essenza non può mai essere una semplice-presenza, dato che il suo essere è l’esistenza. Ci sta dicendo che l’Esserci, inteso nel senso che intende lui ovviamente, come progetto, gettatezza, ecc., non può mai propriamente essere passato, perché l’essere passato di qualche cosa ha a che fare con una semplice presenza, appunto la suppellettile, l’aggeggio, che non c’è più, ma se, come dice lui, l’Esserci è l’esistenza allora, se esiste, non è passato ma esiste, qui, adesso. Infatti, precisa ancora In senso strettamente ontologico, un Esserci che non esista più non è passato ma un essente-ci-stato. È il modo con cui riesce a coniugare il passato con il presente, l’Esserci e l’essente-ci-stato, ma è essente, adesso. È chiaro che ha dovuto ricorrere a giri di parole incredibili, anche per questo non ha scritto la seconda parte perché, diceva, gli mancavano le parole per dirla. Essente-ci-stato sembra una diavoleria, però, in qualche modo rende conto del passato ma che è presente qui e adesso; in questo essente-ci-stato c’è questo, c’è il passato presente adesso, che è qui, in questo momento. Ma l’Esserci è-stato solo nel senso dell’essente-ci-stato, oppure è stato in quanto presentante-adveniente, cioè nella temporalizzazione della sua temporalità? È una domanda che solo Heidegger si sarebbe potuto porre, ché non sarebbe venuta in mente a chiunque. La domanda è questa: l’Esserci è stato solo nel senso che dicevamo prima, in quanto è stato ma è presente qui e adesso, oppure è stato in quanto presentante-adveniente, in quanto è un qualcosa che è, sì, presentante-adveniente ma nella temporalizzazione della sua temporalità, cioè, posto comunque come un passato. Questo passato è veramente ancora qui presente oppure lo indichiamo come qualcosa che ha a che fare, sì, con il passato ma come gettatezza? Quindi, la domanda è: questo Esserci è stato nel senso che è ancora qui presente ciò che è stato oppure non lo è più? Da questa analisi provvisoria dell’utensile ancora presente, e tuttavia in qualche modo “passato” e appartenente alla storia, risulta che tale ente è storico solo sul fondamento della sua appartenenza a un mondo. Ma il mondo ha il modo di essere della storicità perché costituisce una determinazione ontologica dell’Esserci. Un ente, un qualunque utensile, è ancora presente ma in quanto appartiene a un mondo; non è presente perché c’è qui e adesso come cosa ma perché appartiene al mondo che io sono. Anche se non lo vedo più, appartiene a mondo che io sono, ed è solo a questa condizione che quell’utensile posso dire che è storico. Vediamo, inoltre, che la determinazione temporale del “passato” manca di chiarezza e si distingue evidentemente dall’esser-stato che, come abbiamo appreso, è un costitutivo dell’unità estatica della temporalità dell’Esserci. … Primariamente storico, noi affermiamo, è l’Esserci. Secondariamente storico è ciò che si incontra nel mondo; non solo il mezzo utilizzabile in senso larghissimo, ma anche l’ambiente naturale in quanto “terreno storico”. C’è una storicità primaria, dice lui, che è l’Esserci. L’Esserci è fondamentalmente storico perché temporale, perché la sua unità è data dalla simultaneità fra progetto, gettatezza e presente, e questa è la storicità primaria dell’Esserci. Poi, c’è quella secondaria, che è ciò che si incontra nel mondo, cioè i vari utilizzabili, nel senso più ampio, anche il terreno storico. Chiamiamo l’ente difforme dall’Esserci, l’ente che è strico sul fondamento della sua appartenenza al mondo, il mondanamente-storico. Si può mostrare che il concetto ordinario di “storia universale (del mondo)” nasce nell’orizzonte di questo concetto secondario di storicità. Il mondanamente-storico non è storico in base a un’oggettivazione storiografica, ma in quanto è quell’ente che, incontrato nel mondo è storico in se stesso. (pagg. 449-450) Se io incontro un ente nel mondo questo ente è storico, necessariamente. Per non essere storico dovrebbe essere fuori dl mondo. Dire che un ente è storico se lo incontro nel mondo vuol dire semplicemente che io posso incontrare qualcosa soltanto se questo qualcosa è in vista di qualche cos’altro, solo a questa condizione io incontro qualcosa, lo incontro sempre in vista di, e cioè nel progetto, nella gettatezza e nel presente. Quindi, potremmo dire che la sua storicità è costituita dal fatto di appartenere al mondo. § 74 – La condizione fondamentale della storicità. L’Esserci ha sempre effettivamente la sua “storia”, e può averla perché l’essere di questo ente è costituito dalla storicità. È questa la tesi che dobbiamo giustificare in vista dell’esposizione del problema ontologico della storia in quanto problema esistenziale. Sappiamo che l’essere dell’Esserci è stato definito come Cura e che la Cura si fonda nella temporalità. Si fonda nella temporalità perché la Cura, essendo l’essere dell’Esserci, non è altro che il progetto, la gettatezza e il presente, è all’interno di questo che l’Esserci si muove e incontra le cose, l’Esserci è questo movimento. È dunque nell’ambito di quest’ultima che dobbiamo cercare un accadere che determina l’esistenza come storica. … Questa fu dapprima svelata in relazione alla modalità dell’esistere autentico, che caratterizzata come decisione anticipatrice. In qual senso è qui insito un accadere autentico dell’Esserci? La decisione anticipatrice, qualunque decisione è sempre un’estasi, riguarda sempre un’estasi, un essere progettato, un esser fuori. La decisione fu definita come il tacito e angoscioso autoprogettarsi sul proprio essere colpevole. Essa perviene alla propria autenticità come decisione anticipatrice. La decisione è sempre anticipatrice, qualunque cosa io decida è sempre proiettata in avanti, anticipa qualcosa. In questa, l’Esserci si comprende quanto al suo poter-essere, sì da porsi di fronte alla morte in modo tale da assumere integralmente, nel suo esser-gettato, l’ente che esso stesso è. Qui stiamo parlando ovviamente della posizione autentica, cioè si progetta e, progettandosi, qual è l’angoscia, la colpa? Il trovarsi di fronte alla nullità del fondamento. Quindi, comprende il suo poter-essere come pura possibilità, non il poter-essere questo o quell’altro ma come pura possibilità. L’Esserci gettato è certamente abbandonato a se stesso e al suo poter-essere, tuttavia come essere-nel-mondo. L’Esserci gettato è assegnato a un “mondo” ed esiste effettivamente con gli altri. Assegnato a un mondo. Qui inizia a porre la questione del destino, che pone in modo totalmente differente da quello di Severino, destino come un’assegnazione, un mandato, nel senso che la storicità, il mio essere storico, con tutto ciò che è presente in questo momento, è ciò che mi destina a qualche cosa, è ciò come assegna, come un “compito”. A qualunque decisione che io prenda, autentica o inautentica che sia, io sono assegnato e destinato dalla mia stessa storicità. Ogni decisione che prendo è storica, nel senso che è il prodotto di ciò che io sono stato e sono. La decisione, in cui l’Esserci ritorna a se stesso, apre le rispettive possibilità effettive di un esistere autentico a partire dall’eredità che essa, in quanto gettata, assume. Qual è l’eredità di una decisione? Quella di trovarsi nient’altro che un poter essere, questo è ciò che eredita dal suo passato, eredita, cioè, ciò che è sempre stato: gettatezza, una pura possibilità. Questo è ciò che accade, dice Heidegger, nel progettarsi autentico. La finitudine (l’essere per la morte), una vota afferrata, sottrae l’esistenza alla molteplicità infinita delle possibilità che si offrono immediatamente (i comodi, le frivolezze e le superficialità) e porta l’Esserci in cospetto della semplicità del suo destino. Tutto ciò che io sono ha come destino, cioè come mandato, il mio accogliere la morte come possibilità, come possibilità più autentica fra tutte le possibilità, e quella più autentica è la morte. Per questo parla di semplicità del destino: il destino più semplice è quello in cui tutti i mortali muoiono. Con questo termine designiamo l’accadere originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica e in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta. Questo è ciò a cui la storicità dell’Esserci destina l’uomo, l’Esserci stesso, nel senso che lo tramanda in una possibilità che è ereditata dal suo passato, passato che è sempre presente, passato, non dimentichiamoci, ha a che fare con la possibilità. Dice “tuttavia scelta”. Certo, perché se pongo la morte come qualcosa che accade, che si sa che accade, senza sapere quando, non mi ci confronterò mai con la morte in quanto possibilità presente adesso. A pag. 453. Se l’Esserci, anticipando la morte (l’unico modo per anticipare la morte è porla come possibilità) la erige a padrona di sé, allora, libero per essa, si comprende nella ultrapotenza della sua libertà finita e in quest’ultima, che “consiste” sempre soltanto nell’aver-scelto la scelta, può assumere su di sé l’impotenza dell’abbandono a se stesso e venire in chiaro delle circostanze della situazione aperta. Se io anticipo la morte sono libero - ma libero da che cosa? Dalla deiezione, dalla chiacchiera – dice si comprende nella ultrapotenza della sua libertà finita. Cosa vuol dire questo? Che si comprende, cioè, si apre, per Heidegger la comprensione è sempre un’apertura, nella ultrapotenza, nel senso di farsi carico di sé, l’Esserci che riviene a se stesso. Quindi, ultrapotenza della sua libertà finita, è una libertà finita perché finisce con la possibilità della morte, però per Heidegger è l’unica libertà. L’assumere la morte come possibilità è la condizione per non essere travolti dalla chiacchiera. Solo un ente che nel suo essere sia essenzialmente AD-VENIENTE, cosicché, libero per la propria morte, possa, infrangendosi in essa, lasciarsi rigettare sul proprio Ci effettivo… Rendendosi conto che questa possibilità non è oltrepassabile, allora in questo modo si lascia rigettare, cioè, torna sul proprio Ci effettivo, sul qui. … cioè, solo un ente che, in quanto ad-veniente, sia cooriginariamente ESSENTE-STATO, può, tramandando a se stesso la possibilità ereditata, assumere il proprio esser-gettato ed essere, NELL’ATTIMO, per “il suo tempo”. Insomma, l’unico modo per Heidegger per essere nel proprio tempo, cioè, per essere nell’attimo, per essere presente qui e adesso, soprattutto accogliendo anche l’essente stato… questo consente di accogliere la possibilità ereditata. Certo, ereditata storicamente ma ereditata nel senso che non l’ho inventata io ma è presente in tutto ciò che di storico c’è in me. E conclude Solo la temporalità autentica, che è nel contempo finita, rende possibile qualcosa come un destino, cioè la storicità autentica. Questa conclusione è importante. Dice che solo la temporalità autentica, cioè quella finita, quella che assume su di sé la morte come possibilità, soltanto questa temporalità autentica rende possibile qualcosa come un destino, cioè soltanto se io mi accolgo come storicità, come un ente storicamente determinato, avviene qualcosa come una storicità autentica. Possiamo intendere la storicità autentica come l’accogliere ciò che io sono sempre stato, e cioè come progetto, come gettatezza, come essere quel qualche cosa che è quello che è perché è sempre in vista di. Ora, accogliere la propria storicità, cioè accogliere che tutto ciò che io sono stato io lo sono adesso, è qualcosa di importante anche in ambito psicanalitico. Ogni decisione che io prendo, ogni fantasia che mi viene in mente, ogni cosa che voglio fare, ecc., è qualcosa di storicamente determinato, determinato, per esempio, da altre fantasie, da paure, da aspettative, da fantasie che poggiano su altre fantasie, che poggiano su altre fantasie ancora. Questo è ciò che dà la storicità autentica volgendo il discorso verso la psicoanalisi, cioè la storicità autentica muove soltanto dalla consapevolezza del fatto che tutto ciò che io faccio in questo momento è determinato da fantasie, come dicevo prima sorrette da altre fantasie, e che io non ho nessun modo di tornare indietro, di trovare un fondamento a queste fantasie. Queste fantasie non sono altro che racconti che si snodano, che si articolano, che si raccontano all’infinito, una fantasia è un racconto, dopo tutto. Quindi, sono storicamente autentico solo nel momento in cui mi rendo conto che ciò che io sono in questo momento è il prodotto, diciamola così, di una serie notevolissima di fantasie cioè di racconti, di racconti che per me hanno avuto più importanza di altri, e qui Freud ha indicato alcune direzioni. Le ha indicate, però, fino a un certo punto perché, in effetti, queste fantasie non sono casuali ma sono pilotate, sono determinate dalla fantasia di potenza. È questo che mi fa accogliere una fantasia anziché un’altra, perché questa fantasia mi serve per avere potere, per avere potenza, per avere ragione. Se sì, allora l’accolgo, se no l’abbandono, oppure la ripesco più avanti quando sono cambiate le situazioni, ma in ogni caso è sempre questo ciò che motiva le fantasie. Freud non era arrivato a questo punto; infatti, non aveva letto Nietzsche, non voleva leggerlo, peggio per lui, ha perso un’occasione. È questo che determina le fantasie. Sì, certo, la questione sessuale, le fantasie sessuali infantili, va tutto bene ma fino a un certo punto, non c’è nulla che spieghi il perché una certa fantasia debba costituire un problema, se non perché urta con altre fantasie. Soprattutto, una fantasia sessuale infantile comporta come risultato, per esempio, l’abbandono, comporta l’essere distrutto, comporta, quindi, la perdita totale di potere, di controllo su qualunque cosa, è per questo che sono così efficaci le fantasie sessuali infantili. Il problema sta nel fatto che queste fantasie comportano come effetto, sempre nella fantasia ovviamente, la perdita totale di controllo; è per questo che vengono bandite con tanta forza, sennò non ci sarebbe motivo. Edipo ha giaciuto con la madre, e allora? Qual è il problema? Non c’è, se non fosse che intervengono dei risvolti tali per cui, se succede una certa cosa, allora succede una catastrofe, per cui io sono completamente allo sbaraglio, allo sbando, e non controllo più niente, sennò di per sé il fatto che abbia giaciuto con la mamma non importa niente a nessuno, in teoria neanche a lui. Ha ammazzato il papà, certo, questo va contro il codice penale, ma forse non era questa la questione.