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2 dicembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo I. La legge fondamentale. Paragrafo 1. Il rapporto principio della logica. Siamo nella Parte Seconda, La logica dell’astratto. L’astratto consente di determinare qualcosa; per potere determinarlo devo astrarlo da qualche cosa, quindi, devo letteralmente de-terminarlo, come fa il sillogismo. E come fanno in particolar modo i tre principi aristotelici (identità, non contraddizione e terzo escluso), che sono il fondamento di tutto il pensiero. La logica dell’astratto è la logica del pensiero astratto, ossia del pensiero in quanto oggetto a se stesso,… Un pensiero che pensa se stesso si pone in quanto oggetto e, quindi, si astrae dal concreto. …considerato nel momento astratto della sua oggettività, onde rinnova nel pensiero la posizione dell’essere che è puro essere. …la logica comincia propriamente con Socrate, quando l’essere spezza la dura crosta primitiva della immediatezza naturale, in cui s’era fissato nelle concezioni degli Eleati e degli Atomisti, e si media nella forma più elementare possibile del pensiero: identità che sia unità di differenze. L’essere pensabile è la risposta alla domanda socratica: τί έστιν; e però è concetto. Il quale è bensì ciò che si pensa che sia; e quindi, esso stesso, essere; ma essere che è quello che è: essere determinato, avente un certo contenuto. Questo è stato il passo fondamentale del pensiero, dai presocratici a Socrate, dove l’essere diventa un concetto e non più qualcosa di immediato. Posto come immediato, come lo poneva Parmenide, per Gentile è l’impensabile, perché non è in relazione con niente. Se il pensiero non risponde a siffatta domanda, il concetto non c’è; né c’è l’essere che sia pensabile; poiché rimane soltanto quell’assurdo essere di Parmenide, le cui determinazioni sono tutte negative (non nato, non perituro, non discontinuo, non limitato da altro, non mutabile, ecc.); e si riducono infatti a quella sommersione del pensiero nell’essere, che è negazione del pensiero come attività pensante l’essere, e principio di tutte le possibili determinazioni (o categorie) dell’essere. O l’essere è un concetto, e allora lo possiamo pensare perché rinvia a qualche cos’altro, o altrimenti con Parmenide non è pensabile, in quanto non è determinato, non è in relazione con niente; è come se fosse un elemento linguistico in relazione con nulla. È un po’ quello che diceva Hegel rispetto all’essere e al non-essere: l’essere è determinato dal non-essere, in quanto l’essere non è il non-essere: solo così viene determinato; se prendo l’essere da solo, l’essere parmenideo, questo non è in relazione con nulla. La differenza tra l’essere (naturale) e il concetto (essere pensato) è soltanto questa: che il primo si penserebbe se si potesse pensare identico seco stesso; e non si può, essendo che l’identità importa una relazione non attribuibile all’essere naturale nella sua astratta e stecchita unità; laddove il secondo, poiché si pensa, riesce ad essere, ed è effettivamente identico con se stesso. Differenza che si può schematicamente fissare, dicendo che l’essere (naturale) è A, e il concetto, invece, o essere pensato, è A=A; dove ognun vede in che la prima identità differisca da questa seconda, che è la sola vera identità. Nel primo caso essa è desiderata, ma non ottenuta. Nella singola A, che si pone appunto come immanente e irrelata. Il rapporto A=A è il principio della logica, poiché dire logica è dire logo; e dire logo, è dire vero che si oppone al falso; e di vero e di falso non si può parlare finché non ci sia quella che Aristotele dice «sintesi di idee formanti un’unità». Ora la più semplice sintesi che si possa pensare è questo rapporto della identità dell’essere con se medesimo, la quale può realizzarsi soltanto nel pensiero. E cioè quando dico che l’essere non è il non-essere. Dunque, questo è il primo passaggio, che appare fondamentale nella storia del pensiero. In effetti, era il problema di Parmenide, anche se Parmenide non è che avesse tutti i torti, perché infatti quando affermo qualche cosa, quel qualche cosa che affermi è quello che è e non è nient’altro che questo. Naturalmente, in Parmenide c’era il problema che era impossibile considerare il movimento, considerare il divenire, in definitiva. Se l’essere non muta, ovviamente non c’è divenire; se non c’è divenire ma c’è soltanto l’essere, tutto il pensare diventa problematico, perché che cosa penso? Se penso, penso attraverso relazioni, connessioni, e quindi non è più l’essere, perché l’essere, per l’appunto, è irrelato. Questo rapporto per altro non è intelligibile se si prenda come l’integrazione secondaria di ciascuno dei suoi termini astratti. Giacché, se già nel pensiero si potesse fermare A non ancora integrato nel rapporto A=A, non sarebbe più vero che questo rapporto è il principio della pensabilità dell’essere, né più sarebbe vero quel che si è detto dell’assurdità dell’essere naturale, col quale ciascuno dei due A, infranta, l’unità della sintesi, coincide. Il rapporto è originario, in modo che A è pensabile soltanto dentro di esso. Cioè: non è possibile pensare la A senza un rapporto, senza una relazione. Gentile riprende i tre principi di Aristotele. Non è che ci dica nulla di nuovo, propriamente. Per esempio, il principio di identità al Paragrafo 4. Il principio di identità (affermazione dell’essere). L’essere dunque oggetto del pensiero, è l’essere identico a se stesso. Questa la legge fondamentale della logica dell’astratto: il principio d’identità. Dunque, L’essere dunque oggetto del pensiero: io penso qualche cosa e questo qualche cosa è; infatti, se penso, penso a qualche cosa, ovviamente, sennò non penso. Dice che questo che penso è l’essere identico a se stesso: questo è il principio di identità. Ma se questo essere è identico a se stesso, vuol dire che rifugge da ogni differenza, cioè, non differisce, non differisce da nulla. Non differendo non è neanche in relazione, perché differire è porsi in relazione. Quindi, Gentile deve compiere qui un’operazione, e cioè si chiede: che cos’è affermare? Io affermo A – A diventa l’oggetto del mio pensiero – e questa A, come ci ha appena detto, è l’essere che è identico a se stesso. Certo, ma, come potete immaginare, qui la cosa si complica, perché se io dico che l’essere è identico a se stesso vuol dire che non differisce, e se non differisce allora non è. E, allora, come la mettiamo? Si chiede, allora: Ma che significa affermare? C’è un’affermazione soggettiva, che è l’atto con cui il soggetto pone il proprio oggetto; e c’è un’affermazione propria dello stesso oggetto, e designante la sua struttura. Se noi diciamo A=A, l’enunciazione di questo rapporto è affermazione nostra; ma, enunciando questo rapporto, noi opponiamo a noi, attività affermante, l’oggetto dell’affermazione, che non è il semplice A, ma appunto questa affermazione A=A: questo pensiero che è un’idea, un giudizio, un sistema, una scienza, un contenuto qualsiasi del nostro pensiero, opposto a questo pensiero. La proposizione A=A non vale se non come la concretezza del nome (A) che, nella sua astrattezza immediata, era puro essere naturale, e non pensato. È lo stesso A, ma pensato; quindi non affermazione affermante, ma affermazione affermata. Gentile pone qui una questione interessante che ci porta direttamente al funzionamento del linguaggio. Dicendo pongo qualcosa, ma per poterlo porre occorre che questo porre abbia un posto, un qualcosa che è posto. Il che è lo stesso che dire: se penso, penso qualcosa. Quindi, c’è un ponente e un posto. Il ponente è semplicemente l’atto del porre, ma questo atto soltanto nel posto diventa l’atto di porre, perché senza il posto non c’è nemmeno il porre. Ecco, quindi, che questo porre si pone rispetto al principio di identità come ciò che deve essere necessariamente se stesso, cioè il porre deve essere un porre, ma per essere un porre deve avere un posto, un qualcosa che si pone. È chiaro che qui i tre principi si fondono insieme, perché il principio di non contraddizione ci dice che non è possibile contraddirsi, ma a questo punto che cos’è il contraddirsi? È il dire che sto ponendo qualcosa senza un posto, cioè l’atto di porre è senza il posto. Ma a questo punto, se non c’è il posto, io non sto ponendo niente, e questa è la contraddizione.  È come dire che sto affermando qualcosa ma senza affermare niente. Cosa che non posso fare, perché per dire che non sto affermando niente devo affermare. È in questo senso che non c’è contraddizione nel linguaggio. Il linguaggio non può contraddirsi, non può dire di sé, p. es., di non esistere, perché deve dirlo. Di questo in qualche modo Gentile si è accorto: nell’atto c’è sia il ponente che il posto. Il che ci porta naturalmente all’ultimo principio di Aristotele, il terzo escluso, e cioè che non posso porre qualche cosa senza il posto, questo è il principio di non contraddizione, mentre il terzo escluso dice che o pongo qualche cosa, e allora c’è anche un posto, oppure se non c’è il posto allora non pongo niente: o lo pongo oppure niente; o il porre ha un posto oppure non è un porre; o è o non è; non c’è una via di mezzo.

Intervento: Non è come il dire e il detto?

Se vogliamo rifarci alla semiotica di de Saussure, sì, in un certo senso. Il dire ovviamente porta a un posto, che in questo caso è il detto. E qui, che cosa accade? Ci dice L’affermazione oggettiva dell’essere, come essere pensato, è, possiamo dire, non solo affermazione dell’essere pensato, ma insieme negazione dell’essere naturale. Se io affermo qualche cosa, questo qualche cosa che affermo è in quanto relazione, perché c’è una relazione tra il porre e il posto. L’essere naturale, che sarebbe soltanto nel porre, a questo punto non è pensato, e se non è pensato non è, semplicemente. Quindi, la questione che si pone adesso è questa: ponendo io costruisco, creo il posto, perché il posto non esiste prima; così come potremmo anche dire che l’atto del porre non esiste prima del posto, perché è il posto che fa esistere il porre, e questo Hegel lo spiegava bene rispetto all’in sé e il per sé. Quindi, nell’atto del porre, cioè del dire, io creo qualcosa, lo creo sotto forma di opposto, un qualcosa che si oppone al mio porre. Cos’è che si oppone al mio porre? Il posto, che non è il porre, è altro. Quindi, senza il posto, che è l’opposto del porre, non c’è il porre. Pertanto, il porre è fatto del suo opposto. È soltanto il posto che, per dirla alla Hegel, tornando al porre fa esistere il porre. Ma a questo punto questo porre, questo dire, non è più il dire, il porre di prima, perché è un porre che è stato “determinato”, stabilito dal posto, quindi, è un altro; il quale, a sua volta, quale porre, ha un altro posto. Questo è il motivo per cui gli umani non possono cessare di parlare. Dal momento in cui incominciano a parlare, non possono più smettere, perché ogni volta che si dice qualche cosa, questo qualche cosa immediatamente crea un qualche cosa, il posto, lo crea letteralmente. È ciò che Gentile chiama autoctisi, autoproduzione. Questo porre crea il posto, lo crea nel senso che questo posto è ciò che gli si oppone, ma è ciò di cui non può fare a meno per essere quello che è. Quindi, crea il suo opposto per potere essere quello che è, e una volta che l’ha creato, questo posto c’è, esiste. E, allora, siccome come questo posto c’è, chiaramente tornando sul porre lo modifica, e allora devo tornare a costruire un altro porre, che è lo stesso ma anche mutato; quindi, questo porre pone un altro posto. A quel punto mi trovo a non riuscire mai a stabilire un porre che ponga in modo definitivo, perché il porre ponendo il posto si modifica, diventa un altro porre, che ha un altro posto. Questo mostra la struttura semiotica della volontà di potenza, perché mentre parlo creo, perché ciò che dico, ciò che sto ponendo, pone qualcosa, lo crea. Questa cosa creandosi, crea anche un problema, nel senso che, come dicevo, questo posto modifica il porre: tornando sul porre lo fa diventare un’altra cosa, perché a questo punto il porre ha il suo negativo come condizione della sua esistenza. Il che è logicamente un po’ problematico, però non può in nessun modo evitarlo. Quindi, la volontà di potenza si trova a venire depotenziata nell’attimo stesso in cui si esercita. In questo aveva ragione Nietzsche, il superpotenziamento non solo è inevitabile, ma deve essere continuo, incessante, ininterrotto, e il superpotenziamento non è altro che il porsi continuamente di altri posti, di altre cose che vengono poste, e che modificano ciascuna volta il porre. Quindi, il dire crea ciò che dice, ma, nel momento in cui lo crea, questo creato dilegua: si crea e scompare. Ecco perché il superpotenziamento non può fermarsi mai: perché nel momento in cui crea ciò che ha creato scompare. Ogni arresto del superpotenziamento, e questo lo aveva colto bene Nietzsche, è immediatamente un depotenziamento, perché ciò che ha posto non c’è più.

Intervento: …

È l’autoctisi di cui parla Gentile, e cioè il porre qualcosa crea un posto. Questo creare il posto è esattamente ciò che gli umani hanno sempre pensato fosse operazione di Dio, e cioè il creare dal nulla le cose. Aveva intuito bene Hegel: portare Dio qui, perché Dio sono io, sono io che faccio quella cosa lì.

Intervento: …

Per questo pensavo che il termine di Nietzsche, la volontà di potenza… Volontà è un termine problematico: volontà di chi? Nietzsche pensava effettivamente a qualcuno, però a questo punto non è più qualcuno, è il linguaggio stesso, non è tizio o caio che vuole questo; no, è la struttura del linguaggio che impone questo, e cioè la struttura del linguaggio agendo fa questo.

Intervento: …

Esatto. Principio di identità e principio di non contraddizione. Il principio di identità, cioè è il porre è identico a sé, è il porre e basta. Però, non basta il principio di identità… Lo diceva qui, non basta la A da sola per creare un principio di identità: come so che A è identica a se stessa? Non lo so, devo dire A=A. Solo che facendo questa operazione, sì, stabilisco che A=A, ma al tempo stesso la altero e, quindi, la nego. È ciò che Hegel chiamava la prima negazione.

Intervento: …

Sì, la volontà di potenza deve creare altro, sennò si depotenzia istantaneamente. Così, se A è A, l’essere di A consiste tanto nell’essere (identico ad A) quanto nel non essere non-A (non identico ad A). E quindi la legge fondamentale del pensiero studiato dalla logica dell’astratto, oltre la forma del principio d’identità, ha quella del principio di non contraddizione, che si può formulare schematicamente così: «A non è non-A». C’è un’altra questione che andrebbe articolata meglio, perché in effetti se non si tiene conto che tutto questo processo non è altro che il funzionamento del linguaggio, ma si antropomorfizza il linguaggio, allora ciò che deve rispondere, cioè il posto che deve rispondere al porre per fare diventare il porre quello che è, può non essere più considerato un elemento linguistico, ma qualcuno. Ecco che allora io dico qualche cosa, pongo qualche cosa, e mi aspetto dall’altro, in questo caso l’interlocutore, che situo nella posizione del posto, una conferma di quello che dico, cioè di fare esistere quello che dico per quello che è. Come dire che o colgo il funzionamento del linguaggio, e allora non mi aspetto dall’interlocutore nulla, ma mi aspetto dal linguaggio semplicemente che funzioni; se questo non accade allora può accadere di immaginare che il posto, quella determinazione che dovrebbe garantire il mio porre, sia l’altro, sia l’interlocutore. Occorre pensarci meglio; detta così così è ancora abbastanza problematica, però potrebbe accadere come fantasia, appunto se si antropomorfizza il linguaggio. Paragrafo 8. Negatività dell’affermazione, e immanenza della non contraddizione nell’identità. Egli è che il pensiero può ritrovarsi nell’essere come concetto, e non può ritrovarsi nell’essere naturale, perché il pensiero in realtà non conosce mai altro che se stesso:… L’essere naturale, come diceva prima, esclude il pensiero perché non è relazione. …stesso: il suo conoscere, come sappiamo, non è altro che acquistare coscienza di sé e idealizzarsi. Il mio conoscere non è mai conoscere qualcosa ma soltanto conoscere il mio pensiero. Questa è una delle dichiarazioni principali del pensiero di Gentile: tutto ciò che conosco non è altro che il mio pensiero; non sono le cose, le cose sono costruzioni del mio pensiero. Orbene, la logica dell’astratto è quella che prescinde bensì dalla coscienza della soggettività dell’oggetto; ma l’oggetto resta per lei quel che è, idea in quanto idea della realtà. La quale non sarà più il soggetto stesso del pensiero, ma l’essere, esso stesso, oggettivo, ossia il soggetto come oggetto a se medesimo, ancora inconsapevole della propria soggettività: il soggetto che si vede dall’esterno, come concetto che è risoluzione di un essere immediato, in quanto questa risoluzione, pel fatto che già pensiamo qualche cosa, è avvenuta. Ma è avvenuto quel che è avvenuto: negazione dell’immediato, che, se non si mediasse, sarebbe la negazione della mediazione, in cui consiste il concetto. Questo perciò, in quanto pensiero, ci si presenta, sia pure oggettivamente, improntato della sua marca di fabbrica: identità realizzata attraverso la negazione della negazione dell’identità: ovvero, attraverso la negazione della contraddizione. Questo è ciò che accade nella logica dell’astratto. Chiaramente, nella logica dell’astratto non c’è ancora l’unità, l’Aufhebung, che avviene nel concreto. Quindi, il soggetto si pone come l’oggetto, ma non c’è ancora la consapevolezza del fatto che soggetto e oggetto sono lo stesso. Ecco perché la logica dell’astratto è quella che consente alla scienza di operare, perché è quella che dice “io non sono quella cosa lì”; quindi, quella cosa lì sta buona, tranquilla e io soggetto sto da un’altra parte, e a questo punto posso prenderla in considerazione. Nella logica del concreto questo non può avvenire. Paragrafo 9. Il principio del terzo escluso, come unità dei principii di identità e di non contraddizione. Sicché l’unità del principio d’identità e di non contraddizione non importa soltanto che A è A e che A non è non-A; ma importa pure che A o è A, o è non-A; dove l’o-o esprime l’esclusione reciproca dei due opposti come tali, A e non-A. Terza forma della legge fondamentale del pensiero pensato, o principio del terzo (o del medio) escluso, per cui si stringono insieme e unificano i due principii precedenti, in quanto l’uno non può stare senza l’altro, e attinge dall’altro la forza del proprio valore logico. Come dicevo prima, il principio di non contraddizione dice che se pongo qualche cosa, questo qualche cosa che pongo ha un posto, e non può darsi che non ci sia il posto: o c’è il posto, e allora pongo qualcosa, o sennò non pongo niente. Vedete però che lui, parlando del logo astratto, chiaramente parla del pensiero pensato; non può non farlo, perché il pensiero pensato è l’astrazione e, quindi, l’unico modo per pensare il pensiero pensante: se penso il pensiero pensante lo penso necessariamente come pensiero pensato. Paragrafo 11. L’interpretazione del principio del terzo escluso, che attribuisce al falso un valore positivo. E se vero è quel che si pensa, che s’impone al pensiero, sarà anche vero che A sia non-A. Sarà, cioè sarebbe, se fosse possibile pensare l’essere non pensato, o pensare senza il concetto. E poiché questo è impossibile, tale impossibilità si esprime pure in questa forma, che se potesse non pensarsi A = A, bisognerebbe pensare che A è non-A;… Perché a questo punto, se non posso pensare che A=A, se non posso pensare questa relazione, questa mediazione, allora devo pensare solo A, ma se questa A non è in relazione con se stessa allora è in relazione con il suo opposto, cioè non-A, e quindi, dice, a questo punto A sarebbe non-A. …e se non fosse necessario questo A = A, se ciò non fosse vero, vero sarebbe, e dovrebbe pensarsi, che l’essere sia la negazione del pensiero. Che è la verità infatti di tutta la filosofia naturalistica, sia essa del tipo monistico parmenideo o del tipo atomistico democriteo: per cui, in ogni caso, l’essere è la negazione del pensiero. Come abbiamo visto prima, l’essere immanente, l’essere parmenideo, è la negazione del pensiero. Se l’essere è relazione, il pensiero parmenideo non è relazione, è l’immediato. O essere, o pensiero: l’essere è la negazione del pensiero, come il pensiero è la negazione dell’essere. È interessante se si pensa a ciò che accade parlando. Parlando ciascuno immagina di dire che questa cosa è così, ma se fosse così allora non sarebbe pensabile. Vale a dire, posso affermare che qualcosa è qualcosa solo perché non è quella cosa, e questa è la condizione, sennò non potrei pensarla. E siamo di nuovo al punto precedente, cioè, se non fosse in relazione con altro, con il suo opposto, allora questa cosa non sarebbe pensiero, perché il pensiero è relazione. È l’autoctisi, cioè la creazione del porre e del posto, del porre che crea il posto, cioè il suo opponente. Ma ciò non può voler dire che sia dato scegliere indifferentemente tra l’uno e l’altro, pur che si rinunzii all’essere, scelto il pensiero, e viceversa. La logica nasce, lo abbiamo visto, quando l’essere è l’essere del pensiero: e il non-A c’è, sì, ma come posto da A che lo nega. Qui siamo in pieno Hegel. E non-A perciò non può esser vero se non nel senso di un’ipotesi irreale, incompatibile con l’essere del pensiero. Sta dicendo che in questo caso il non-A sarebbe il non pensato, il non detto, che però qui è nel senso di ciò che non si sta dicendo. È la questione, cui accennavo prima, rispetto all’impossibilità che il linguaggio possa contraddire se stesso. Non lo può fare. Il linguaggio crea, sì, la contraddizione, nelle sue varie configurazioni, formulazioni, ecc., anzi, tutto ciò che il linguaggio crea incontraddittoriamente, perché il linguaggio è incontraddittorio, tutto ciò che crea è autocontraddittorio, perché per crearlo il linguaggio è costretto a porre qualche cosa che ha un suo opposto come opponente e come condizione del porre. La condizione del porre qualche cosa è che questo qualche cosa che ho posto si opponga al porre, sia altro, e che quindi il porre sia ciò che è ma anche ciò che non è. Quindi, tutto ciò che il linguaggio costruisce è autocontraddittorio, ma il linguaggio no, non può contraddirsi, cioè non può affermare di sé di non essere, perché se non fosse non potrebbe affermarlo né negarlo, non potrebbe fare niente. Quindi, quando si afferma qualche cosa o si vuole affermare che qualcosa è così, in realtà si sta mentendo, perché non è così o è così a condizione di essere non così, o, se volete dirla in modo molto spiccio, affermare che questo è quell’altro non significa assolutamente niente, è un atto di fede. Allora sì, come atto di fede funziona; ogni affermazione appare strutturata come atto di fede. Hegel aveva intuita la cosa quando parlava del sillogismo formale. Ricordate i tre momenti del sillogismo: la deduzione, l’induzione e l’analogia. L’analogia è un atto di fede. A fondamento di ogni affermazione c’è l’atto di fede: io ho fede che questa cosa, siccome assomiglia a quell’altra, valga come quell’altra. È un atto di fede.

Intervento: …

Propriamente, sono io che voglio che assomigli. E, allora, questo discorso che fa Gentile ci porta a considerare che ogni affermazione si regge su un atto di fede, perché ogni affermazione procede dal logo astratto, cioè procede da una determinazione, e una determinazione procede sillogisticamente, attraverso certamente i tre principi aristotelici, ma procede sillogisticamente, e quindi ha nell’analogia, quindi nell’atto di fede, il suo fondamento. Questo non è indifferente nel discorso comune, e cioè il pensare che ogni affermazione che si fa, rispetto al logo astratto… ma d’altra parte un’affermazione non può propriamente appartenere al concreto, muove dal concreto, ha come condizione l’esistenza del concreto, cioè del linguaggio. Non posso dire l’atto di parola perché io sono l’atto di parola. Posso analizzarlo, ma a questo punto, analizzandolo, lo pongo immediatamente come un oggetto di pura astrazione, qui nella accezione peggiore del termine, cioè lo pongo come un oggetto inventato. Ed è così, in effetti: un oggetto costruito ad hoc per sostenere la mia fede. Che cos’è la fede? La volontà di potenza, ovviamente. Come diceva Severino, la fede come volontà che le cose stiano come io voglio che stiano, per cui non posso dimostrare che siamo qui in questo momento, ma ho fede che sia così. Non posso dimostrarlo, non c’è il modo di dimostrarlo. Dovrei poi dimostrare la dimostrazione, ecc. Ma ho fede che sia così. Come quando uscendo di qui, aprite la porta e arrivate in strada, prima di arrivarci avete fede che la strada ci sia, ma è una fede, non è una certezza assoluta, logica. E, allora, con ogni affermazione che ciascuno fa afferma la sua fede, la afferma e conferma; trae immediatamente conferme tramite l’analogia. Qualunque affermazione afferma soltanto, attesta della mia fede. Quale fede, propriamente? Qui, in Gentile, nel fatto che nihil est sine ratione, come dicevano i medioevali: nulla è senza una ragione. E, allora, prende spunto da Leibniz, che è il primo che ha formalizzato il principio di ragione: se qualcosa accade c’è un motivo. Abbiamo già visto questa questione in Hegel: se c’è la causa c’è l’effetto, se non ci fosse la causa non ci sarebbe l’effetto, ma viceversa senza l’effetto non c’è la causa. Perché? Perché li ho creati assieme. Qui, poco più avanti, fa un bel esempio: non posso pensare a un triangolo che domani, anziché tre angoli, ne abbia sette. Perché io lo ho creato così, è sempre stato così, lo penso così; pensando al triangolo penso a tre angoli, come dice la parola stessa; per cui escludo che il triangolo possa prendersi queste iniziative per conto suo, perché non ha una vita propria, non è un ente di natura, ma io ho pensato il triangolo in questo modo e continuo a pensarlo in quel modo. Siamo a Capitolo II. Il principio di ragion sufficiente. Paragrafo 1. Il principio di ragion sufficiente in Leibniz e nella filosofia precedente. Dalla legge fondamentale del pensiero logico in tutte le sue forme, di principio d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso, il Leibniz distinse un’altra legge che a lui, e a molti dopo di lui, sembrò egualmente fondamentale; e che egli chiamò principio di ragione, o di ragione sufficiente o determinante. «La certezza oggettiva o determinazione», dice egli nella Teodicea, «non importa già la necessità della verità determinata. Tutti i filosofi lo riconoscono, ammettendo che la verità dei futuri contingenti è determinata e che non per questo essi cessano di essere contingenti. Elementi contingenti non si contraddicono fra di loro. Io posso pensare che domani pioverà oppure non pioverà, non mi sto contraddicendo, perché mi sto riferendo a elementi contingenti. Non ci sarebbe infatti nessuna contraddizione, se l’effetto non seguisse; e in ciò consiste la contingenza. Per intender meglio questo punto, bisogna considerare che ci sono due grandi principii dei nostri ragionamenti: uno è il principio di contraddizione, per cui di due proposizioni contraddittorie, l’una è vera e l’altra è falsa; l’altro principio è quello della ragione determinante: ossia che niente mai accade senza che ci sia una causa o almeno una ragione determinante, cioè qualche cosa che possa servire a render ragione a priori perché sia così piuttosto che altrimenti». E nella Monadologia: «I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi principii, quello di contraddizione, pel quale giudichiamo falso tutto ciò che implica contraddizione, e vero ciò che è opposto o contradittorio al falso; e quello della ragion sufficiente pel quale riteniamo che nessun fatto potrà trovarsi vero o esistente, nessuna enunciazione vera, senza che ci sia una ragion sufficiente, per la quale sia così e non altrimenti». Come potete facilmente immaginare, questo piace poco a Gentile, e cioè il fatto che ci sia dato qualche cosa prima, la ragion sufficiente, e quindi è prima del pensiero, e che da lì dall’esterno fornisca le leggi del pensare. Cosa che poi fece Boole, ma questa è un’altra storia. Paragrafo 3. Motivo della dottrina leibniziana. Invece, Leibniz sostiene che nel regno della verità di ragione, o della necessità, assoluta, non ci sono altro che possibili. E dal possibile al reale, secondo lui, c’è un salto, come dalla necessità assoluta alla necessità ipotetica: ossia a una necessità subordinata a un principio esterno alla necessità propria del reale come possibile, puramente pensato. E questo principio è appunto la volontà, che presupporrà bensì il meglio, come suo fine, ma lo farà valere come principio produttivo di realtà, e quindi integratore della mera possibilità. Qui è come se Leibniz anticipasse Nietzsche. Dice Leibniz che fra tutte le possibilità, che sono infinite, il saggio, che cosa fa? Sceglie quella più opportuna. Ma più opportuna per cosa? Per la sua volontà di potenza, per quella che si confà meglio alla volontà di potenza. Paragrafo 5. Esposizione del principio di ragione come principio di causalità. La causalità empirica… Qui Gentile incomincia a muovere delle critiche alla causalità empirica, cioè il fatto che con l’esperienza io colgo delle cause, vedo che una certa cosa ne causa un’altra, e quindi immagino che questa causa sia fuori di me. La causalità empirica poggia sul presupposto del cangiamento dell’oggetto dell’esperienza, intuito come molteplicità di stati successivi, in cui lo stato B succede allo stato A, in quanto lo stato A non è lo stato B, né questo è quello. E appunto perché essi sono così diversi, io posso avere innanzi l’uno senza l’altro: posso avere il solo B come un problema da risolvere, cioè come qualcosa di per se stesso impensabile, o pensabile come un pensiero che non è tutto e richiede d’esser compiuto. Di B solo infatti nell’esperienza non ci si rende ragione: ex nihilo nihil; cioè nihil sine causa. E Cicerone dirà contro Epicuro: Nihil turpius physico, quam fieri quicquam sine causa dicere ( non c’è nulla di più folle in natura che dire che qualcosa accade senza motivo). E ciò perché quando diciamo che A e B e C, ecc. sono un molteplice, noi non possiamo intendere soltanto che B, p. es., non sia A, così che possa stare anche senza A; ma altresì che, oltre a non essere A, sia pure in qualche modo A; perché senza una identità, tra A e B non vi sarebbe relazione; né senza relazione sarebbe concepibile la diversità richiesta dalla molteplicità. Quindi, o c’è la relazione, e allora sì possiamo accogliere la molteplicità, perché l’uno non è l’altro; oppure, se non poniamo la relazione, non c’è più niente.