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2-12-2015

 

Stiamo leggendo Derrida, La voce e il fenomeno, non tanto per le obiezioni che fa a Husserl, ma perché riprende la questione del segno in modo interessante partendo da Husserl. Ciò su cui si sofferma Derrida è in fondo lo scacco della fenomenologia husserliana, cioè del tentativo di avere una sorta di presa diretta con la cosa, il fatto che questa relazione con l’oggetto debba essere immediato, appunto non mediato, comporta l’elisione del segno perché finchè c’è un segno c’è un qualche cosa che differisce nel senso di portare oltre. L’operazione che fa Derrida è reintrodurre il segno dicendo che il segno non si può togliere, Husserl ci aveva provato, come avevamo visto precedentemente, immaginando prima un colloquio con un’altra persona che però è sempre vincolata al fatto che devo dire, devo spiegare all’altra persona qualche cosa, c’è l’intenzione quindi di chiarire un concetto di porlo in vario modo, ma quando cerco di fare intendere a un’altra persona ciò che voglio dire mi trovo sempre preso nella necessità di inserire altre cose oltre a quella che devo dire, appunto perché devo spiegarla, con esempi, per esempi, metafore, allegorie, illustrazioni, giri e raggiri. Quindi il problema si può eliminare, secondo Husserl, nel cosiddetto dialogo interiore, nel dialogo interiore io non ho da spiegare niente, so già, e quindi nel dialogo interiore ci sarebbe la possibilità di avere un accesso immediato con la cosa che appare e la percepisco per quella che è, mi dico che è quella cosa lì. L’esempio che fa Husserl e che riporta Derrida “S è P”, io non devo spiegarlo a qualcuno facendo tutti quei giri che dicevamo ma lo colgo immediatamente, questa “verità” tra virgolette la colgo istantaneamente. Per Husserl occorre, per fare questo che questa voce che dice questa cosa, in qualche modo scompaia, anche se l’operazione di farla scomparire è difficile. Ma se non c’è questa voce che dice il concetto non c’è neanche il concetto, questo era già in De Saussure, se non c’è il significante non c’è neanche il significato quindi se rilevo che S è P ci vuole la voce che lo dice e ci vuole il concetto a cui questa voce rinvia, e quindi c’è un rinvio, un rimando cioè c’è una differenza nel senso di “differire” cioè di portare oltre. Derrida usa “differire” in tutti e due i modi, nel senso di non uguaglianza tra due elementi, ma anche nell’accezione latina “de ferre”, portare oltre, o come si dice, differire un incontro, cioè spostarlo, quindi ciò su cui si sofferma è la voce a questo punto perché la voce appare ineliminabile perché ci sia un voler dire, se non c’è un voler dire non c’è niente, se non voglio dire niente taccio) Se la comunicazione o la manifestazione è di essenza indicativa (cioè indica letteralmente, è un operatore deittico) è perché la presenza del vissuto altrui è negata alla nostra intuizione originaria (all’altro non posso mostrare direttamente la cosa perché la sua intuizione non è la mia, è la sua, e quindi l’altro non vedrà la cosa come io gliela sto mostrando in questo istante) ogni volta che la presenza immediata è piena del significato sarà derubata e il significante sarà di natura indicativa (che vuole dire che se io spiego qualcosa a qualcuno la “pienezza del significato” che è per me” non è anche per l’altra persona alla quale sto parlando, quindi è come se questa pienezza, ricordate che per Husserl il significato è la pienezza della visione rispetto alla rappresentazione, la visione è ciò che riempie di significato, ha il significato) perciò la Kundgabe che si traduce con “manifestazione” non manifesta, non rende manifesto nulla, se “manifesto” vuol dire evidente, aperto, offerto. La Kundgabe annuncia e deruba nello stesso tempo ciò di cui essa informa (vuol dire che mostrando qualche cosa, io cerco di mostrare qualche cosa a qualcuno di farglielo vedere, di farglielo capire eccetera nel momento in cui cerco di dare il significato, questo significato di fatto lo sto sottraendo perché ciò che mostro non è quella cosa lì, perché la mostro all’interno di un discorso ampio in cui questa cosa stessa scompare perché non c’è più la manifestazione, io voglio manifestare ma questa manifestazione si sottrae, scompare) l’espressività pura sarà la pura intenzione attiva di un mostrare che anima un discorso il cui contenuto, il significato (Bedeutung) sarà presente, presente non nella natura perché solamente l’indicazione si attua nella natura e nello spazio ma nella coscienza (ciò che presentifico non è mai la cosa in quanto tale ma è esattamente qualche cosa di interno non è qualche cosa di fisico nella manifestazione, ciò che io voglio manifestare, non è qualche cosa di fisico, di concreto ma è qualche cosa di mio, di interiore) dunque presente a sé nella vita di un presente che non è ancora uscito da sé nel mondo, nello spazio, nella natura (dunque una certa cosa è presente a sé prima ancora che la dica perché se io voglio dire qualcosa a qualcuno prima occorre che io abbia in mente questa cosa, sia presente a me. Il problema è che non riesco a renderla presente all’altro alla stessa maniera, qui siamo ancora nel problema del rapporto all’altro, poi ci sarà il problema del rapporto con sé) il rapporto all’altro come non presenza e dunque l’impurità dell’espressione (come non presenza nel senso che non riesco a presentificare all’altro ciò che è presente per me, per ridurre l’indicazione nel linguaggio e riguadagnare infine la pura espressività bisogna dunque sospendere il rapporto all’altro e quindi considerare soltanto il rapporto con me, quella che lui chiama “auto affezione” cioè il cogliersi pensando qualcosa) fin qui abbiamo considerato l’espressione nella funzione comunicativa, questa riposa essenzialmente sul fatto che le espressioni operano come indici (comunicando le espressioni sono come degli indici, operatori deittici mostrano qualche cosa) ma una grande funzione è assegnata anche alle espressioni della vita dell’anima in quanto essa non è impegnata in un rapporto di comunicazione (sarebbe il soliloquio) è chiaro che questa modificazione delle funzioni non tocca ciò che fa sì che le espressioni siano delle espressioni (se sono espressioni rimangono espressioni, sia che ne voglia dire un’altra sia che rimangano a me) esse come prima hanno le loro Bedeutung (significazioni) solo nella collocuzione (cioè nel parlare insieme dice che) la parola cessa di essere parola soltanto se il nostro interesse si dirige esclusivamente verso il sensibile, verso la parola in quanto semplice formazione fonica (una parola cessa di essere quella che è cioè una parola, con tutto quello che comporta soltanto se si dirige esclusivamente verso un oggetto, verso un qualche cosa come se la parola fosse l’indice che indica quella cosa lì, a questo punto dice Husserl non è più una parola ma è un indice) ma quando viviamo nella comprensione della parola (qui ci sarebbe da dire che anche questo indice ovviamente non è esente dal significato, perché se no non indicherei neppure, non avrei niente da indicare, quindi non c’è l’indice puro, e invece per Husserl è proprio la purezza, cerca la purezza assoluta della parola che dice la cosa) quest’ultima esprime ed esprime la stessa cosa sia che venga o no indirizzata a qualcuno (qui c’è già Derrida che dice che questa parola che vive della comprensione, cioè vive di significante e significato, esprime sempre la stessa cosa sia che io la voglia comunicare a qualcuno sia che la stia dicendo a me) Il primo vantaggio di questa riduzione al monologo interiore (che ha fatto Husserl dal dialogo al monologo interiore, quello dovrebbe essere il momento in cui è possibile o dovrebbe essere possibile l’accesso diretto con la cosa, cioè quando non parlo più con qualcuno ma parlo fra me e me, allora non devo spiegare niente) nella misura in cui l’unità della parola, ciò che la fa riconoscere come parola la stessa parola, unità di un complesso fonico e di un senso non può confondersi con la molteplicità degli avvenimenti sensibili della sua utilizzazione né quindi dipenderne lo stesso della parola è ideale, è la possibilità ideale della ripetizione e non perde nulla con la riduzione di alcuno dunque di ogni avvenimento empirico segnato dalla sua apparizione (qui Derrida incomincia a portare una questione, introduce “la stessa”, la stessa parola, cosa è che fa riconoscere una parola come la stessa parola? Cioè questa unità di complesso fonico e di senso “significante/significato” dice Derrida che non può confondersi con gli avvenimenti, non può essere dettata dagli avvenimenti interni o modificata eccetera, perché? Perché questa parola è sempre la stessa, la parola “penna” è sempre la stessa, “penna”, io la riconosco, la uso all’infinito, quindi questa parola è ideale, non è empirica, non è quella cosa che si modifica ogni volta che la dico, perché io posso ripeterla all’infinito e arriverà a dire che proprio perché posso ripeterla all’infinito posso dire che è la stessa, perché se non potessi ripeterla come faccio a sapere che è la stessa, in base a che cosa?) questo “lo stesso” della parola è ideale (è un ideale perché non posso verificarlo, stabilirlo, è l’idea platonica, c’è l’uomo in carne ed ossa e poi c’è l’idea dell’uomo, è l’idea di uomo che è sempre la stessa, gli uomini poi sono intercambiabili, ma l’idea di uomo rimane) ed è questo stesso la possibilità ideale della ripetizione e non perde nulla con la riduzione di alcuno (cioè non perde nulla, quando dico “penna” che sia questo, che sia quell’altra la penna è sempre la stessa, non perde nulla appunto “di ogni avvenimento empirico segnato dalla sua apparizione” possono apparire varie penne ma “penna” è sempre la stessa parola, che indica sempre la stessa idea da qui l’idealità,) mentre ciò che deve servirci da indice (segno distintivo) deve essere percepito da noi come esistente, l’unità della parola non deve nulla alla sua esistenza (mentre il segno distintivo che è il significante, l’aspetto empirico, l’aspetto fisico, la parola) devo sentire la parola “penna” (devo sentirla, deve esistere) invece l’unità della parola non deve nulla alla sua esistenza (l’unità in quanto ideale non deve nulla alla sua esistenza perché è un’idea) la sua espressività che non ha bisogno del corpo empirico ma soltanto della forma ideale, identica di questo corpo in quanto essa è animata da un voler dire, non deve nulla a nessuna esistenza mondana, empirica, nella vita solitaria dell’anima l’unità pura dell’espressione in quanto tale dovrebbe dunque essermi finalmente restituita, (questo è il progetto di Husserl, qui Derrida riprende Husserl, come dire che l’esecuzione della parola “penna” “p-e-n-n-a” chiaramente può modificarsi, perché se lo dico io o lo dice Beatrice ha un suono diverso, ma quando io penso alla penna, quando mi dico “penna” e non devo dirlo a qualcuno, la parola che io mi dico sembra coincidere con l’idea e quindi avrei raggiunto a questo punto, nel soliloquio, cioè nel colloquio interiore, avrei raggiunto l’identità per così dire tra il significante e il significato, infatti poco più avanti) la riduzione a monologo è proprio un mettere tra parentesi l’esistenza mondana empirica (“mettere tra parentesi” vuol dire “sospendere” il fatto che la parola “penna” è diversa se la dico io o se la dice Beatrice, questo viene sospeso perché me lo dico da me quindi è sempre la stessa cosa) nella vita solitaria dell’anima non ci serviamo più di parole reali ma soltanto di parole rappresentate (Vorgestell) cioè nella vita solitaria non ci serviamo più di parole reali “penna” quando lo dico, non lo dico con la “mia” voce, per così dire, è una parola che è rappresentata, una parola immaginata ma che non si dice fisicamente. Questo per Husserl era fondamentale, cioè togliere al significante ogni empiricità, solo a questa condizione sarebbe riuscito a farlo collimare con il significato) e il vissuto di cui ci si domandava se non fosse indicato da stesse al soggetto parlante non deve essere così indicato è immediatamente certo e presente a sé (quando mi dico la parola “penna” questa cosa è immediatamente presente e certa senza bisogno di nessuna mediazione, ecco che si sarebbe raggiunto l’obiettivo di Husserl) mentre nella comunicazione reale dei segni esistenti indicano altri esistenti che sono soltanto probabili e immediatamente evocati (nella comunicazione effettiva tra persone) nel monologo quando l’espressione è piena dei segni non esistenti mostrano dei significati (perché il segno non esistente è il significante che di fatto però non c’è, perché non viene pronunciato, cioè non esiste fisicamente, è irreale, me lo dico immaginariamente però questo segno di fatto non esiste, tuttavia mostra un significato, dice “dei segni non esistenti mostrano dei significati ideali” dunque non esistenti perché è un’idea ma certi perché presenti nell’intuizione “penna” se lo dico fra me e me il significante è come se non esistesse perché non c’è fisicamente e anche il significato non c’è fisicamente, è un’idea. Infatti:) quanto la certezza dell’esistenza interiore essa non ha bisogno, pensa Husserl, di essere significata, essa è immediatamente presente a sé, essa è la coscienza vivente (la certezza dell’esistenza interiore di questo concetto per esempio, non ha bisogno dice Husserl di essere significata in qualche modo, di essere dimostrata, perché è immediatamente presente a sé, è la coscienza vivente, è la stessa coscienza, ecco perché per Husserl non ha bisogno di essere provata, dimostrata. Nel monologo interiore la parola sarebbe dunque soltanto rappresentata, non c’è più la φωνή, non c’è più l’aspetto fisico della parola) Il suo luogo può essere l’immaginario, fantasie, ci accontentiamo di immaginare la parola la cui esistenza è così neutralizzata (questo è fondamentale per Husserl, l’esistenza della parola, del suono della parola che è la φωνή è neutralizzata, perché io dicendomi “penna” tra me e me non uso la voce, almeno apparentemente, è una voce interiore, e questa voce interiore non è fisica, non è reale nel senso della parola parlata) Nell’immaginazione non è implicata l’esistenza della parola così anche a titolo di senso intenzionale allora esiste soltanto l’immaginazione della parola che essa è assolutamente certa e presente a sé in quanto vissuta e il reale non c’è tuttavia esiste assolutamente in quanto coscienza. Tuttavia non dovremo confondere le rappresentazioni dell’immaginazione, fantasie e ancora meno i contenuti dell’immaginazione che ne sono il fondamento con gli oggetti immaginati (dice Derrida che bisogna fare molta attenzione a non confondere le rappresentazioni dell’immaginazione con gli oggetti immaginati, che sono due cose diverse) Il contenuto dell’immaginazione sono il fondamento (il contenuto dell’immaginazione è l’idea di penna, che non è un oggetto immaginario, io posso immaginarmi una penna, non è questo dice Husserl, perché il noema della rappresentazione è questa idea che ho di penna, non quella che posso immaginarmi quando parlo) dunque non soltanto l’immaginazione della parola che non è la parola immaginata non esiste, ma il contenuto, il noema appunto esiste ancora meno dell’atto, entrambe le cose significante e significato non sono reali, non essendo reali non sono vincolati a mutazioni ma appartengono a una sorta di idealità che può essere pensata come identica, come immobile (appunto a saldare il significante con il significato, se nessuno dei due è reale non cambia niente, sono solo idee) la funzione pura dell’espressione e del voler dire (l’espressione è il significante, voler dire è il significato) non è quella di comunicare di informare, di manifestare cioè di indicare ora la vita solitaria dell’anima proverebbe che una tale espressione senza indicazione è possibile (un’espressione qualunque è possibile che io la pensi senza indicare nulla propriamente anzi, nel soliloquio in genere non ci sono indicazioni) nel discorso solitario il soggetto non impara nulla su se stesso, non manifesta nulla su se stesso, per sostenere questa dimostrazione le cui conseguenze saranno illimitate nella fenomenologia Husserl fa appello a due tipi di argomenti (quindi sta dicendo Husserl che nel soliloquio non imparo nulla da me, su di me, non manifesto nulla, semplicemente ho delle percezioni, ho una coscienza di percezione, nel discorso interiore non comunico nulla a me stesso, non mi indico nulla, poi che sia così o no questo è un altro discorso, qui stiamo parlando di Husserl, posso tutt’al più immaginare di farlo, posso soltanto rappresentarmi mentre manifesto qualcosa a me stesso, però dice Husserl questa non è che una rappresentazione, e un’immaginazione, ma appunto non comunico nulla a me stesso, non mi arricchisco parlando tra me e me; torno a dire, che sia così o no questo è un altro discorso) Nel discorso interiore non comunico nulla a me stesso e posso soltanto fingere ciò “perché non ne ho bisogno” sottolineato (non comunico nulla a me stesso perché non ho bisogno di comunicare, se parlo fra me e me, cosa mi comunico? So già) Una tale operazione la comunicazione di sé a sé non può attuarsi perché non avrebbe senso alcuno, perché non avrebbe senso alcuno perché non avrebbe alcuna finalità, l’esistenza degli atti psichici non deve essere indicata perché è immediatamente presente al soggetto nell’istante presente (sta dicendo che non c’è bisogno di indicare nulla perché è tutto presente alla mia coscienza, non ho bisogno di indicarmi il luogo in cui sono nato è già presente, tutto ciò che so è già tutto presente) Consideriamo innanzi tutto il primo argomento nel monologo non si comunica nulla ci si rappresenta come soggetti parlanti e comunicanti, Husserl dunque sembra qui applicare al linguaggio la distinzione fondamentale esistente tra la realtà e la rappresentazione (Husserl distingue tra realtà e la sua rappresentazione, quando parlo fra me e me a proposito del linguaggio, perché qui sta parlando del linguaggio) applicare al linguaggio la distinzione tra e realtà e rappresentazione (stiamo parlando del linguaggio come realtà e linguaggio come rappresentazione) tra la comunicazione effettiva e la comunicazione rappresentata ci sarebbe una differenza di essenza, un’esteriorità semplice (esteriorità semplice vuol dire che non è riducibile ulteriormente, quindi incomincia a dire Derrida che c’è una differenza di essenza tra la comunicazione effettiva, reale, e quella rappresentata) per di più per accedere al linguaggio interiore (nel senso della comunicazione) come pura rappresentazione bisognerebbe passare attraverso la finzione cioè attraverso un tipo particolare di rappresentazione, rappresentazione immaginaria che Husserl definirà più tardi come rappresentazione neutralizzante (dice Derrida che oltre a questo, cioè a questa differenza che occorrerebbe stabilire tra linguaggio reale e quello rappresentato) occorrerebbe accedere al linguaggio interiore come una pura rappresentazione però per farlo occorrerebbe passare attraverso la finzione (perché io so che non è reale ma è una rappresentazione, quindi passo attraverso una finzione fingendo cioè attraverso un tipo particolare di rappresentazione, e cioè la rappresentazione immaginaria e si chiede Derrida “si può applicare al linguaggio questo sistema di distinzioni?” bisognerebbe prima di tutto supporre che nella comunicazione, nella pratica detta “effettiva” del linguaggio, nel parlare) la rappresentazione non sia essenziale e costituente che sia solamente un accidente che si aggiunge eventualmente alla pratica del discorso (qui incomincia la questione importante, e cioè per potere fare questa distinzione fra i due tipi di linguaggi, quello interiore e quello effettivo “occorrerebbe che la rappresentazione non sia essenziale e costituente” cioè che non sia strutturale, occorre pensare alla rappresentazione come qualcosa che può esserci o non esserci, cioè come un accidente, cioè qualcosa che capita o non capita, cosa che costituirà immediatamente un problema, come dire “è possibile parlare senza rappresentazione” cosa significa “parlare senza rappresentazione”? Qui affronterà la questione, perché come ri-presentare qualche cosa comporta che ci sia un qualche cosa di identico che viene riconosciuto come identico nel suo differire, e cioè nello spostarsi sull’altra cosa che ri presento, senza questa ri-presentazione non c’è neanche la presentazione, “una cosa che sia eventualmente un accidente che si aggiunge a qualche discorso …”) ora c’è proprio motivo di credere che nel linguaggio la rappresentazione e la realtà non si aggiungano qui o là per la semplice ragione che originariamente è impossibile distinguerle rigorosamente (incomincia a dire che è complicato distinguere la realtà dalla rappresentazione) e non si deve certo dire che ciò si produce nel linguaggio (è la difficoltà perché dice “il linguaggio in generale è questo” è l’impossibilità di distinguere fra linguaggio e rappresentazione, detta in modo spiccio) Un segno che avesse luogo soltanto una volta non sarebbe un segno (questo per dire che il segno non è qualcosa che avviene o può non avvenire, perché se fosse così un segno potrebbe anche accadere una volta nella vita, ma dice che un segno non è mai un avvenimento) se avvenimento vuol dire unicità empirica e insostituibile e irreversibile (diciamo che il segno non è mai un qualche cosa che accade come unico in sé e irripetibile, la caratteristica del segno è di essere ripetibile. Il discorso che fa qui Derrida si appunta su una questione in particolare, e cioè il fatto che per potere riprodurre un qualche cosa di ideale e quindi sempre lo stesso, devo riprodurlo, se non riproducessi questa cosa, se non la riproducessi mai questa cosa non sarebbe neanche quella cosa che è, come dire che è quella che è in una sua riproduzione, cioè in un suo spostamento, è in questa riproduzione che io posso dire che questa cosa è la stessa di quell’altra, cioè in un paragone) Un segno puramente idiomatico non sarebbe un segno (idiomatico, che appartiene all’idioma cioè una cosa mia personalissima che non sa nessuno, so solo io, è un segno? no dice lui) un significante in generale deve essere riconoscibile nella sua forma nonostante e attraverso diversità di caratteri empirici che possono modificarlo, (il significante “albero” è riconoscibile da tutti come suono) esso (il significante) deve restare “lo stesso” sottolineato e poter essere ripetuto come tale nonostante e attraverso le deformazioni che ciò che si chiama l’“avvenimento empirico” gli fa necessariamente subire (che “albero” lo dica io o lo dica Cesare il suono sarà diverso ma sarà sempre “albero”, riconoscibile da tutti come la stessa parola, anche se empiricamente è differente) Un fonema o un grafema (il fonema è il suono, il grafema il segno scritto) è sempre necessariamente altro in una certa misura ogni volta che si presenta in una operazione o una percezione ma può funzionare come segno è linguaggio in generale soltanto se un’identità formale permette di riprenderlo e di riconoscerlo (la “a” che faccio io è diversa da quella che fa Beatrice, ciò non di meno Cesare riconosce che entrambe sono “a”, quindi sono diverse) È sempre necessariamente altro un fonema o un grafema in quanto si ripete e ripetendosi è temporalizzato (cioè dipende dal momento, la stessa “a” che faccio io non è mai esattamente la stessa, c’è sempre qualche differenza, quindi è sempre differente, ciò non di meno ogni volta che la vedo la riconosco come una “a” quindi è differente ma anche non lo è, e siamo sempre alla stessa questione, cioè c’è il significante che si modifica ma l’idea, cioè il significato occorre che rimanga quello) questa identità appunto è necessariamente ideale, questa identità. (L’identità fra tutte le “a” che io posso fare, posso farne all’infinito, sono tutte identiche? No, sono tutte diverse. Eppure le riconosco tutte come “a” quindi c’è un’identità ma questa identità non è empirica, non è visibile è ideale) Essa implica dunque una rappresentazione come “Vorstellung” luogo dell’idealità in generale e come “Vergegenwärtigung” cioè possibilità della ripetizione riproduttiva in generale come “Repräsentation” in quanto ogni avvenimento significante è sostituito dal significato della forma ideale del significante, dato che questa struttura rappresentativa è la significazione stessa, io non posso avviare un discorso effettivo senza essere originariamente impegnato in una in una rappresentatività indefinita (allora siamo arrivati a questa identità, tutte le “a” possibili, immaginabili sono ideali, se io mi metto a confrontare tutte le a che faccio non saranno mai le stesse, quindi questa “a” uguale a sé è ideale) essa implica dunque necessariamente una rappresentazione (dire che l’identità ideale implica necessariamente una rappresentazione è la questione centrale, dal momento che perché sia una identità ideale, come diceva prima “deve essere un segno” deve poter essere ripetuta, ripetendola cosa accade?) Beh intanto c’è una possibilità di riproduzione (io posso riprodurre il segno tutte le volta che voglio, la “a” posso scriverla tutte le volte che mi pare) ma ogni evento fisico viene sostituito da un altro (perché io scrivo una “a” poi un’altra e questa sostituzione non toglie nulla al fatto che ci sia una identità, ma questa identità ideale non è la “a” in quanto tale, ma è una sua rappresentazione, rappresento la “a”, e la “a” ideale mi rappresenta tutte le “a” possibili, la rappresento, cioè per potere stabilire una identità ideale è necessaria una rappresentazione. Husserl voleva togliere la rappresentazione nella percezione immediata del vissuto, che deve essere vissuto nello stesso istante, nello stesso momento, per cui ha cercato in tutti i modi, come abbiamo visto prima, di togliere la rappresentabilità di qualche cosa a vantaggio della percezione immediata. Se io penso questa penna, me lo dico tra me e me penso la penna, questo significato “penna” questa idea non è una rappresentazione diceva Husserl perché me la rappresento immediatamente nel monologo, non ho da presentare nulla, è già presente nella mia coscienza quindi è già lì …

Intervento: nella percezione immediata starebbe persino davanti all’idea …

No, per Husserl è importante perché è la coscienza stessa, queste idee sono la coscienza, mentre qui Derrida sta dicendo che senza la rappresentazione non c’è segno, cioè non c’è parola, rappresentata o no che sia, cioè nel monologo oppure nel dialogo, ma senza rappresentazione io non parlo, è questo che sta dicendo Derrida a Husserl, il quale invece voleva una percezione senza rappresentazione, cioè senza segni, questo lo dice esplicitamente, eliminare il segno. Il tentativo era di ridurre dal dialogo al monologo per evitare il segno, per evitare il differimento, per avere una presentazione immediata nell’istante,  …

Intervento: quindi Husserl non avrebbe accolto quello che diceva Wittgenstein che ciascuno impara ciò che gli si insegna: come sai che la terra è esistita milioni di anni fa? me lo hanno insegnato. Questo non avviene nel monologo avviene nel parlare …

Per Husserl io non imparo nulla da me, ma è lì che io posso avere la percezione immediata, perché è in presa diretta con la mia coscienza, cioè con le mie idee. Husserl sa benissimo che per imparare uno deve mettersi lì, aprire il libro, cominciare a leggere e memorizzare ciò che c’è scritto e se vuole discutere con altri deve parlare, fare un dialogo e non un monologo, ma lui sta cercando quell’elemento che gli consente la percezione piena, assoluta, totale, non viziata, non vincolata a nient’altro se non alla percezione immediata “in sel……” nello stesso momento, nello stesso istante: im selben Augenblick.