2 novembre 2022
L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger
Rileggiamo il detto di Anassimandro, perché è quello di cui si tratta, è bene averlo sempre presente. Lo leggiamo nella traduzione di Nietzsche. “Donde le cose hanno la loro nascita, colà devono altresì perire, secondo la necessità: esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie, conformemente all’ordine del tempo”. Appare un detto piuttosto complesso, ma ciò che abbiamo detto nella fase iniziale dovrebbe già darci qualche indicazione. Tra l’altro, leggevo in questi giorni un altro testo di Heidegger, Tempo ed essere, scritto nel ‘62, esattamente trent’anni dopo questo, e lì riprende le stesse questioni, anche senza citare Anassimandro o il suo detto. Magari lo riprenderemo. Ma, dicevo, abbiamo forse il modo per intendere qualcosa di più. Donde le cose hanno la loro nascita, colà devono altresì perire,… Dove nascono lì scompaiono, si dileguano. …secondo la necessità… Non possono non farlo, le cose che dico non possono non dileguare dicendosi. …esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie... Quali ingiustizie? Il disaccordo. C’è l’accordo, l’ᾂπειρον, dove ogni cosa è in accordo con l’altra, perché non è distinta. Per potere apparire devono distinguersi, devono avere un contorno, una forma, quindi, essere in disaccordo tra loro. Questo aggeggio è in disaccordo con quest’altro, perché li distinguo; se ci fosse pieno accordo, non li distinguerei. ...conformemente all’ordine del tempo. Qui la questione del tempo è importante. Anassimandro pone il tempo non come lo intendiamo oggi, e cioè come una successione di punti temporali ben disposti e ordinati, no, il tempo di cui parlava Anassimandro è il tempo di cui parla anche Sofocle e, infatti, dice qui a pag. 49: …in Sofocle viene detto che il tempo sta in rapporto con questo essere dell’ente, e si tratta per la precisione di un rapporto essenziale, nella misura in cui è proprio mediante il tempo che accadono l’apparire e lo scomparire. Il che ovviamente non significa solo che, per esempio, un tale apparire si svolge “nel tempo, – non si parla affatto di questo –, bensì che è il tempo a far accadere lo scomparire. Il che ovviamente non significa solo che, per esempio, un tale apparire si svolge “nel tempo” – non si parla affatto di questo -, bensì che è il tempo a far accadere lo scomparire. È del tempo che si dice che κρύπτεσται, “vela” ciò che prima era manifesto nella sua manifestatività. Ugualmente, è il tempo che porta all’apparire il non-manifesto, il velato. A questo proposito Sofocle utilizza un’espressione estremamente significativa: χρόνος – φύει. Φύειν significa far crescere; φύσις significa crescita, ciò che è cresciuto e cresce: “natura”. Quindi, il tempo, come è inteso da Sofocle, e probabilmente anche da Anassimandro, ha a che fare con la presente, non di un presente come tempo, ma di un presente come di ciò che si mostra, di ciò che appare. Dice ...conformemente all’ordine del tempo,… È il tempo che fa apparire e scomparire le cose, in quanto il tempo è presenza, e, a seconda di come interviene il tempo, interviene la presenza, che a questo punto sono la stessa cosa. La presenza prevede un’assenza, un nascondimento. Oggi e da lungo tempo utilizziamo la parola “natura” in un duplice significato: 1) natura in quanto distinta dalla storia o dall’arte, intendendo con ciò un determinato ambito dell’ente che le scienze della natura eleggono a soggetto della loro indagine; 2) natura in senso essenzialmente più ampio: parliamo e domandiamo della natura di un processo storico, della natura dell’opera d’arte, e in genere della natura di una cosa; la natura di una cosa è equiparabile alla sua essenza, a ciò che un ente è, al suo “che cos’è” e “com’è”. Ora, la parola greca φύσις, all’alba della filosofia greca, non significa né l’una né l’altra cosa, ma del tutto in generale il muoversi e imporsi dell’ente – il suo essere. Questo significa φύσις. Quando all’inizio della filosofia greca i filosofi domandano della physis, non domandano della “natura”, come se fossero scienziati, ma dell’ente – il cui essere è φύσις – φύειν (ciò che appare, che sorge). In effetti, Heidegger ci sta mostrando una cosa interessante, della quale lui non parla ma che ugualmente ci mostra: come è sorta la volontà di potenza, da quale domanda? Più che “sorta”, potremmo dire che ha preso forma, si è configurata con la domanda sull’essere dell’ente, vale a dire, il domandare antico che domanda che cos’è l’ente. Conoscendo l’ente, io lo domino, lo controllo, me ne approprio. A un certo punto dice che questo domandare dell’essere dell’ente appartiene chiaramente all’uomo, all’esserci, come dice lui. Sì, certo, appartiene all’uomo in quanto parlante, è colui che esercita parlando la volontà di potenza. È la volontà di potenza che fa prendere forma a questa domanda “che cos’è l’essere dell’ente?”. A pag. 50. χρόνος – φύει: il tempo fa sorgere ciò che è velato. Fa apparire, φύει è il concetto opposto di κρύπτεσται, “velare”. (In base a ciò comprendiamo il detto di Eraclito φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, “l’ente reca in sé l’aspirazione a velarsi”. È certamente corretta la traduzione, ma io ero indotto a pensare che, forse, sarebbe più appropriato leggere questo celebre frammento di Eraclito come “ciò che sorge, sorgendo, dilegua”; che è esattamente ciò che accade parlando. Ciò è possibile solo se l’ente in quanto ente è nel contempo apparire, poiché solo ciò che appare e può apparire, mostrarsi, può anche velarsi. Che cosa possiamo dedurre quindi dal passo di Sofocle circa il carattere dell’ente? Il tempo sta in rapporto con tutto l’ente, e precisamente con il suo essere: il suo compito e la sua essenza sono quelli di far apparire e scomparire l’ente. (Cfr. il nesso tra tempo e sole, luce e oscurità). Era questo che vedevano gli antichi rispetto al tempo, il sole e l’oscurità: nel sole le cose appaiono, con la notte scompaiono. Ma tutto ciò non faceva pensare il tempo così come lo pensiamo oggi, come un fluire, uno scorrere in successione di punti temporali, ma come un evento che riguarda il tutto, il concreto. È il tempo che, di volta in volta, dà all’ente la misura del suo essere, apparire e scomparire; è il tempo che pone di fronte (presente), riprende indietro (passato) e trattiene in sé (futuro)… /…/ È il tempo – qui inteso come ciò che dà la misura all’essere – ad assegnare di volta in volta all’essere la sua “sistemazione”… Infatti, nel detto compare il termine τάξις: ...conformemente all’ordine del tempo, chiude il detto nella traduzione di Nietzsche, κατά τήν τού χρόνου τάξιν, dove τάξις è la disposizione. Ma ciò non ha nulla a che fare né con l’ordine e la sequenza della successione né con la sua definizione e computazione in termini numerici. È per questo che Sofocle chiama il tempo anche άναρίθμητος, termine che, in base al contesto complessivo, non significa soltanto “non numerabile”, come se si volesse dire che contandolo o misurandolo non si giunge mai a una fine. Qui infatti non si tratta per nulla di contare e misurare, ma del fatto del tempo è incalcolabile in quanto imprevedibile. Questo è il modo di pensare il tempo degli antichi: la sua imprevedibilità. Al suo cospetto – come di fronte e ciò che, appunto, apporta l’ente e se lo riprende – ogni calcolare e pianificare umano fallisce. Il tempo è μακρός (più importante), non tanto nel senso di una mera durata infinita, ma in quello del suo essere più che mai ampiamente inclusivo, possente nella misura in cui esercita un potere assoluto su tutto l’ente nel suo essere. Quindi, il tempo come il tutto, che tutto ingloba, mostra e fa sparire l’ente. Il giorno e la notte non sono eventi in successione ma costituiscono un tutto. È questa anche la difficoltà per noi oggi di pensare il tempo come lo pensava Sofocle. Il tempo costituisce un tutto, non separabile. È con la separabilità che inizia la possibilità di numerare, di contare. È per questo che è imprevedibile, non perché bizzarro, ma nel senso che non è calcolabile, perché i due elementi non sono separabili, esattamente come il finito e l’infinito. A pag. 51. In tal modo abbiamo discusso il detto di Anassimandro in tutte le sue parti, delucidandone le singole parole e i singoli elementi proposizionali. A questo punto, propone una nuova traduzione. Ripetiamo quindi: “Ma donde per l’ente è la provenienza, colà si dà (accade) anche la scomparsa, secondo la costrizione (coercizione); poiché (gli enti) – mantenendo la corrispondenza reciproca e connettendosi nella corrispondenza reciproca – si concedono accordo per restituirlo (nel rispetto di esso) al disaccordo, secondo l’assegnazione del tempo. Heidegger qui ci sta dicendo che da dove provengono gli enti là scompaiono, da dove arrivano le parole lì dicendosi dileguano; …secondo la costrizione; poiché (γαρ), mantenendo la corrispondenza reciproca e connettendosi nella corrispondenza reciproca – si concedono accordo, cioè, mantenersi nella corrispondenza significa mantenersi nell’ᾂπειρον, nell’indelimitato, perché non c’è disaccordo, non essendoci disaccordo non c’è possibilità di determinare; …si concedono accordo per restituirlo (nel rispetto di esso) al disaccordo, secondo l’assegnazione del tempo: c’è sempre questo movimento, che Hegel chiamerebbe dialettico, accordo e disaccordo, ᾂπειρον e determinatezza – per Anassimandro è dall’ᾂπειρον che le cose sorgono; in effetti, anche lui manca la questione, che non mancherà Eraclito, quella della simultaneità –; …secondo l’assegnazione del tempo: potremmo dire secondo l’assegnazione del tutto, in cui tutto ciò agisce. Qui finisce la trattazione del detto di Anassimandro. Si passa poi a La seconda fase, dove ci sono delle considerazioni di Heidegger a partire naturalmente dal detto di Anassimandro. La terza parte sarà invece su Parmenide. A pag. 53. Prima di accantonare come incomprensibile la frase di Anassimandro dobbiamo in ogni caso almeno tentare di dipanarne l’oscurità. Abbandonarla sarebbe altrettanto arbitrario che ridurla – in modo ancora più fatale – a un primitivo sfogo poetico-morale. Lasciandoci alle spalle la delucidazione dei singoli elementi, ci apprestiamo quindi ora a cogliere il contenuto unitario del detto a partire dal suo centro interno. A tale scopo riassumiamo nuovamente quanto abbiamo chiarito finora. Il detto parla dell’ente nel suo insieme, ci dice come esso è, come l’ente è (essere), come stanno le cose riguardo all’essere (com’è essenzialmente l’essere), dunque parla dell’essere dell’ente. Per la precisione, nella prima parte si ha un’indicazione preliminare circa i caratteri dell’essere: l’apparire, i cui donde e colà sono lo stesso; nella seconda parte si dice perché l’essere ha questo carattere, perché il colà dello scomparire è lo stesso del donde della provenienza, e perché gli enti devono concedersi l’un l’altro accordo e corrispondenza, e ciò nel rispetto del disaccordo;… La corrispondenza e l’accordo. L’accordo, l’ᾂπειρον, l’infinito, dal quale si determinano le cose: queste cose, per potere determinarsi, devono essere in disaccordo tra loro, essere l’una diversa dall’altra. …nella terza si indica che ciò che impartisce l’assegnazione per tale concedere, cioè per tale rispetto del dis-accordo, è il tempo. È il tempo che fa apparire le cose. Potremmo porre il tempo come il tutto o come la simultaneità. È cioè il tempo che dà di volta in volta all’ente la misura dell’essere. Rispetto del dis-accordo conformemente alla potenza del tempo – potenza essenziale dell’essere. La struttura della frase risulta così più chiara – eppure essa ci rimane in fondo inaccessibile, estranea. Se necessario possiamo spiegarcela così: l’ente implica uno scambievole alternarsi di venire e andare. È ciò che per Hegel era la dialettica. Tuttavia, il fatto che questo reciproco cedersi il passo debba avere il carattere di un concedere accordo e corrispondenza, ma che proprio ciò implichi il rispetto del dis-accordo – ecco, questo fatto ci urta. Perché questo accordo necessita del disaccordo? Quindi, il punto che propriamente ci scandalizza è che l’ente sussiste nel dis-accordo, che l’ente in quanto ente è, nel suo essere, dis-accordo. Ma esattamente questo punto costituisce il centro del tutto, giacché è a partire da qui che si determina senz’altro l’intero carattere dell’essere dell’ente. In questo dis-accordo si fonda il modo in cui l’ente è. Se vogliamo penetrare nel contenuto del detto dobbiamo quindi fare chiarezza su questo aspetto. Il suo carattere principale è il disaccordo, perché il disaccordo è quello che ci consente di determinare l’ente, cioè, l’ente può apparire soltanto nel disaccordo, non nell’accordo, nell’ᾂπειρον non appare niente. L’ᾂπειρον è l’infinito in cui ciascun elemento non è determinabile; così come il significato non è determinabile se non all’infinito. Heidegger insiste giustamente sul disaccordo. Sono parole, accordo e disaccordo, che oggi non usiamo più, però possiamo intenderle: il disaccordo, cioè il fatto che l’una cosa sia in disaccordo con un’altra, è la condizione della determinabilità di qualche cosa, quindi, è la condizione dell’apparire. Ma sopra diceva: il fatto che questo reciproco cedersi il passo debba avere il carattere di un concedere accordo e corrispondenza, ma che proprio ciò implichi il rispetto del dis-accordo – ecco, questo fatto ci urta. Vale a dire, le cose sono, sì, in accordo tra loro nell’ᾂπειρον, cioè non sono distinguibili, ma non sono distinguibili perché sono distinguibili; solo per questo possiamo dire che non sono distinguibili. Qui Heidegger avrebbe potuto rendere le cose più semplici, dicendo che l’accordo e il disaccordo, l’ᾂπειρον e la determinatezza, sono simultanei, non separabili. La difficoltà di comprensione sorge sempre quando si vuole tenere separati i due momenti; è allora che non si trova l’accordo tra due momenti, come si combinano, perché si connettono, e si connettono perché sono due momenti dello stesso, è questo che sfugge per lo più. A pag. 54. In che cosa consiste il dis-accordo? In che senso esso sussiste? Le due domande fanno tutt’uno, l’affermazione più intima del detto dice: l’essere dell’ente sussiste nel dis-accordo. Quindi, l’essenza dell’ente sussiste nel disaccordo e questo, ovviamente, perché è solo nel disaccordo che mi appare l’ente, così come mi appare. A pag. 55. Per i greci infatti giorno e notte non sono due fenomeni qualsiasi tra gli altri, poiché in essi (giorno e notte) si manifesta piuttosto l’apparire originario, e ciò non solo perché giorno e notte abbracciano tutto, ma perché sono il fenomeno fondamentale in senso proprio, nella misura in cui costituiscono il fondamento di ogni altro apparire. Giorno e notte fanno scaturire tutto l’apparire, dato che mostrandosi il giorno appare la luce – la luminosità – ed è appunto questa luce apparente che fa anzitutto apparire tutti gli altri enti, il mare e la terra, il bosco e la montagna, l’uomo e l’animale, la casa e la fattoria. Con il suo scomparire, poi, con il suo cedere il passo alla notte, il giorno porta in un certo senso via con sé tutto ciò che appare, lasciando la sovranità alla notte che tuto vela. Nel chiarore del giorno e della luce l’ente appare. Ma la luce, il sole che fa apparire – ciò che fa essere-presente l’ente nel suo essere – è il tempo. Tempo che a questo punto possiamo cogliere come la simultaneità dei due momenti del giorno e della notte. Noi oggi non siamo avanzati di un solo passo, al contrario: la luce artificiale non è riuscita nell’essenziale a superare e a lasciarsi alle spalle la potenza della luce; tutt’al più è accaduto che a causa della luce artificiale abbiamo completamente disconosciuto la luce stessa, dimenticando il nostro legame originario con essa. Ma che cosa significa tutto ciò? Ogni ente si installa e si produce, si stacca e si staglia per contrapposizione a qualcos’altro. È il disaccordo. L’apparire non è solo un pro-venire, poiché il provenire è piuttosto un entrare nella delimitazione e nei suoi limiti. Solo in quanto pro-dotto e in-stallato nella sua delimitatezza l’ente è, viene alla luce. La delimitazione non è una cornice indifferente, ma la forza connettente-raccogliente e il baricentro delle cose. Il tal modo, tramite la chiarificazione dell’apparente in quanto apparente, ci si è fatto incontro un nuovo carattere essenziale dell’essere dell’ente. In termini più precisi, l’apparire in quanto comparire ci si è definito in modo più specifico come un entrare nella delimitatezza. “Apparire alla luce”: il sorgente entrare nella delimitatezza. Esperire l’ente come ciò che appare in questo essere costituisce l’esperienza originaria dei greci. Ciò che sorge entra nella delimitatezza: i contorni, la forma, il colore, tutto ciò che consente di delimitare un ente qualunque. Ma a che cosa ci serve questa formulazione più completa e precisa dell’essenza dell’apparenza? Ci deve portare più vicini alla comprensione dell’essere dell’ente. Tenete conto che tutto il libro ha questo obiettivo: cogliere l’essere dell’ente. Lui non vuole partire, come sempre si è fatto, dall’ente per poi cogliere l’essere di questo ente; come poi riprenderà in Tempo e essere, vuole muovere dall’essere, sospendendo la questione dell’ente. E come si mostra l’essere? Si mostra come apparire, come ciò che appare. Qui ci potrebbe essere l’obiezione che l’essere che appare è già qualcosa, è un ente. L’essere, dunque, è ciò che appare, appare come presenza. Da qui la questione del tempo, che riprende anche in Tempo e essere, specificando che il tempo non è da intendere come sequenza (passato, presente e futuro); lì non lo dice in modo esplicito, però ci va molto vicino dicendo che questi momenti sono simultanei, sono lo stesso, non c’è l’uno senza l’altro, cioè, costituiscono il tutto. Il tempo possiamo proprio pensarlo come il tutto: è perché c’è il tutto che c’è la possibilità di enti, degli astratti. Se il dis-accordo non sta incollato esteriormente all’ente addirittura come una cattiva qualità o come un fenomeno derivato e successivo, se cioè esso – come dice in sostanza Anassimandro – appartiene all’essenza dell’ente in quanto ente, allora una chiarificazione sufficientemente profonda dell’essenza dell’essere dovrebbe appunto spiegare in che senso qui, nell’ente, nella misura in cui esso è, domina il dis-accordo. L’essere dell’ente non è nient’altro che ciò che appare del dis-accordo. Ciò che appare, ciò che sta nella manifestatività, si pone in quanto tale fuori dell’accordo. Che cosa può voler dire questo, adesso, in base alla chiarificazione maggiormente approfondita dell’apparire? Tentiamo di spiegarcelo considerando il contesto complessivo del detto, per così dire con una libera costruzione. Apparire significa “sorgente entrare nella delimitazione”: l’entrare-in implica l’uscire-fuori-da l’accordo. Entrare nella delimitatezza significa uscire fuori dall’ᾂπειρον, dall’indelimitato, dall’indeterminato, dall’infinito. Ma da dove esce fuori ciò che entra nella delimitazione? Esce fuori dall’assenza di delimitazione. Appunto dall’ᾂπειρον. Ciò che si trattiene nella manifestatività sussiste nella delimitazione di contro all’assenza di delimitazione. Il disaccordo consisterebbe quindi ne sussistere nella delimitatezza. Perché io distinguo una cosa da un’altra? Perché questa cosa continua a sussistere nella delimitatezza, quindi, nel disaccordo, sennò non la distinguerei. Se questo aggeggio non avesse né forma né colore non lo distinguerei da nulla. Ma allora, visto così, che cos’è lo scomparire? Manteniamoci di nuovo all’interno dell’esperienza greca fondamentale. Quando il giorno cede il passo alla notte e l’oscurità cala sulle cose, allora scompaiono i contorni netti e colori stagliati… È per questo che non vediamo più niente. …i limiti delle cose sfumano, si perdono, le cose perdono il loro peso, sicché ogni singolo ente, insomma tutto si vela nel vuoto enorme che si spalanca (χάος) dell’oscurità. Lo scomparire è quindi il ritrarsi, uscendo fuori dalla delimitatezza, per entrare nell’assenza di delimitazione. Quando pronunciamo una parola, un significante, questo è delimitato, ha una sua forma – quella che de Saussure chiamava immagine acustica, che come immagine ha una forma – quindi, è nella delimitatezza, perché questo significante, per essere un significante deve avere un significato, deve cioè riferirsi a un significato, il quale è indeterminato, è indelimitato. Quindi, questo significante che diciamo, che appare delimitato, nel momento in cui si dice scompare come ciò che è delimitato per diventare ᾂπειρον, indelimitato. Il che è un altro modo per dire che qualunque cosa può essere determinata soltanto attraverso l’indeterminato. A pag. 57. Il dis-accordo sarebbe allora il sussistere nella delimitatezza di contro all’assenza di delimitazione – l’accordo sarebbe il ritrarsi nell’assenza di delimitazione. L’accordo, l’ᾂπειρον, l’assenza di delimitazione: non c’è forma, non c’è colore, non c’è niente. A pag. 58. Capitolo III. a) άρχή τῶν ὂντων (l’origine, il sorgere degli enti). Ma il dis-accordo… Il disaccordo è ciò che consente agli enti di essere visti, compresi. …(il sussistere nella delimitazione, di contro all’assenza di delimitazione) non può chiamarsi così solo per caso, né l’accordo può chiamarsi così solo per caso, poiché, al contrario, nel detto di Anassimandro, άδικία e δίκη (ingiustizia e giustizia, dis-accordo e accordo nella traduzione di Heidegger), devono avere necessariamente quello specifico significato, sempre ammesso che a disporre di loro sia, come indicato, l’assenza di delimitazione e di limiti. Infatti, le cose stanno esattamente così, dato che Anassimandro dice “άρχή τῶν ὂντων τό ᾂπειρον” (l’origine dell’ente risiede nell’ᾂπειρον) (ed è questa la seconda frase che di lui ci è stata tramandata): “Avvio per l’ente – e precisamente in quanto è un tale ente, cioè in riferimento al suo essere – è il senza-limiti”. L’avvio è il senza limiti, è da lì che qualcosa muove, cioè, dall’accordo. Teniamo però sempre conto che lui ha posto in prima istanza il disaccordo, perché è questo che fa apparire la cosa: nell’ᾂπειρον c’è l’άρχή, quindi, l’accordo, è da lì che viene fuori, è dal significato che il significante trae il suo essere significante, è dall’essere che l’ente trae la sua enticità. Poi, considera τά ὂντα, gli enti, anche con questo intende l’ente in senso universale. τά ὂντα; anzitutto balza di nuovo subito agli occhi che anche qui si parla dell’ente nel suo insieme; non quindi di questo o quell’ente, non di un qualche ambito dell’ente privilegiato rispetto agli altri, bensì dell’ente in quanto tale, poiché si parla di άρχή – άρχειν, “precedere”. L’άρχή: ciò che precede tutto, ciò da cui prende avvio tutto il resto. Si tratta dell’inizio dell’essere, dell’apparire, dell’entrare nella delimitazione, di ciò che, in tal caso, apparendo precede, viene in luce in precedenza. Ma questo è appunto il senza-delimitazione che nell’apparire entra nella delimitazione, vi si mantiene (benché vincolato), quindi costringe a fare ritorno nel senza-delimitazione, abbandonando così la delimitatezza). Sparire, dileguare: dileguando si impone un altro ente, il quale a sua volta, appare dileguando. Non sta dicendo nient’altro che questo: ciò che appare, appare dileguando. Ecco perché traducevo il frammento di Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, in questo modo: ciò che sorge, sorgendo dilegua. Qui άρχή non è affatto un “termine tecnico”. Anche in Aristotele, tuttavia, in cui tale parola si è definitivamente fissata dal punto di vista terminologico, risuona ancora il significato fondamentale di ciò che ha carattere signorile, sovrano. L’intera trattazione dell’άρχή τῇς ούσίας si conclude con un verso di Omero tratto dall’Iliade: “Non è buona la sovranità di molti, uno solo sia il signore, il sovrano”. Dice uno solo sia il signore, il sovrano, cioè, c’è un qualche cosa da cui sorge tutto quanto. È chiaro, è il linguaggio ovviamente, ma per loro non era così ovvio. Dopo tutto ciò che si è detto, è appena il caso di sottolineare che il successivo significato di “causa originaria” va tenuto lontano, non solo perché, appunto, si forma solo più tardi, ma anche perché non ha assolutamente alcun senso in relazione alla domanda di Anassimandro. In quanto avvio sovrano, dunque, l’άρχή rimane immediatamente presente in ogni cosa, e viene in luce in primo e ultimo luogo in tutto l’apparire e scomparire. Cioè: è sempre presente. A pag. 61. Questa άρχή τῶν ὂντων (τῶν ὂντων: si tratta quindi indubbiamente dell’ente in quanto tale, cioè in riferimento al suo essere – concernente, tra l’altro, il “che cos’è” e il “che è” è τό ᾂπειρον. L’origine dell’ente è ᾂπειρον. Πέρας significa limite, però non tanto nel senso solo negativo di ciò con cui e in cui qualcosa finisce e non può proseguire, fallisce, bensì nel senso di ciò che delimita qualcosa costituendone la delimitazione e il profilo interno, ovvero ciò che di volta in volta attribuisce a ogni apparente – cioè a ogni ente – la sua conchiusa peculiarità e sicurezza, la sua quiete e stabilità. Cioè, che consente di coglierlo in quanto ente. Πέραίνω – pro-durre, portare-fuori, condurre qualcosa nel suo limite, cioè nella sua delimitazione: farlo apparire. In base πέρας si è sviluppato il significato concettuale di τέλος, la fine concepita nel senso or ora illustrato. Cioè, in quanto finito, delimitato, conchiuso in sé. Sarebbe, per evocare Aristotele, l’atto rispetto alla potenza: l’atto è la delimitazione, la compiutezza. In seguito questo concetto fondamentale della filosofia greca, per una serie di ragioni, è stato frainteso e falsamente interpretato con il significato di scopo e meta. Τέλος, infatti, viene generalmente tradotto così, come scopo, come meta. Heidegger dice: non è così per il greco antico, τέλος è il compiuto, è la meta in quanto qualcosa è compiuto, delimitato, definito, e non l’obiettivo da raggiungere. In greco parlare di teleologia, di tensione alla meta, del fatto che ogni ente ha il suo τέλος, significa che ogni ente, in quanto ente, sta nella delimitatezza. In seguito la medesima espressione significa: ogni cosa il suo scopo, la sua meta e il suo velato senso riposto. Questa concezione si adatta forse alla genesi biblica e alla dogmatica cristiana, ma non alle asserzioni fondamentali della filosofia antica in merito all’ente. Che cosa significa quindi τό ᾂ-πειρον, il senza-limiti-essenza-delimitazione? Dal punto di vista grammaticale di tratta di un’espressione privativa: α- esprime il “senza” qualcosa che non ha limiti. Il non avere indica solitamente una mancanza, ma in questo caso avere indica solitamente una mancanza, ma in questo caso non significa affatto il non avere inteso come l’essere privo a causa di una mancanza, bensì, al contrario, il non avere nel senso del rifiutare e del respingere da sé per sovra-abbondanza, sovra-potenza nei confronti di ogni fatto conchiuso e rinchiuso nella delimitazione. τό ᾂπειρον è ciò che dispone dell’ente in quanto tale, e che in quanto disposizione disponente costituisce l’essere, ovvero è ciò che trasforma in dis-accordo ogni ente apparente nella misura in cui entra nella delimitazione -,… /…/ “Che” l’ente è, e “in quanto” esso è. In ciò consiste il dis-accordo, poiché ciò che appare deve abbandonare l’assenza di limiti e sussistere nella delimitazione. Deve abbandonare la sua άρχή, il suo “da dove”: solo così entra nella delimitatezza, cioè nel disaccordo. A pag. 61. L’ente, in quanto è, sta sotto la costrizione dell’essere; τό χρεών: il dis-accordo dispone dell’ente a partire dall’άρχή, cioè dalla disposizione disponente. Sta facendo una complessa elaborazione, ma gli sfugge che sta parlando del significante e del significato. Tutto ciò che sta dicendo dell’ᾂπειρον è attribuibile al significato: è il significato che è infinito, che non è delimitabile. Quando finisco di attribuire un significato alle cose? Mai. Invece, ciò che si mostra, il significante, l’aspetto immanente, ciò che percepisco è il significante, la sua immagine acustica. Tutta questa elaborazione di Heidegger è naturalmente interessantissima, anche per i continui riferimenti alle parole greche, riportandole al loro senso più originario, citando anche poeti antichi, così come ha fatto rispetto al tempo, citando Sofocle, per cogliere il tempo non come una sequenza di punti temporali ma come un tutto, cioè, come la simultaneità di giorno e notte, che non sono separabili; solo separandoli, allora, li posso misurare: il giorno arriva fino a qui, la notte fino a qui. Per i greci non era così, il tempo è un tutto. Scomparendo, l’apparente restituisce (l’) accordo al disaccordo. Questa restituzione accade in modo tale che i singoli enti si corrispondano l’un l’altro accordandosi alla corrispondenza reciproca che è presupposta dalla delimitatezza, cioè dal profilo dei rapporti in cui ciascun apparente sta con l’altro apparente. La restituzione. La notte restituisce il disaccordo con l’accordo, dove tutto è non delimitato né delimitabile. Ma questa corrispondenza è presupposta dalla delimitatezza, cioè, questo accordo è presupposto dal disaccordo. Poi, più avanti, parlerà di coappartenenza, ma è la stessa cosa della simultaneità. Anassimandro non parla di simultaneità, anzi, per lui è l’ᾂπειρον il punto di partenza da cui si origina tutto. Il fatto è che non possiamo stabilire un punto di partenza. Come già diceva Peirce: non c’è il primo segno, da cui si dipartono tutti i segni, tutta la catena segnica, non esiste, se fosse non sarebbe un segno. A pag. 62. Non è che – come erroneamente si traduce, cioè erroneamente si comprende, le cose paghino l’una all’altra un fio (nessun singolo ente può esigere accordo da un altro ente); piuttosto, ammesso che qualcosa vada pagato, allora l’accordo va dimostrato nei confronti dell’ultra-potenza dell’ᾂπειρον – però in modo tale che tale contrastante cedersi reciprocamente il passo si accordi alla corrispondenza in cui gli enti – a seconda della loro natura – si trovano gli uni con gli altri. /…/ Ormai abbiamo portato a intima unità i due detti: l’uno illumina l’altro. Il secondo spiega il disaccordo e l’accordo; il primo ci consente di gettare uno sguardo sul carattere di άρχή dell’ᾂπειρον. Entrambi, nella loro unità, testimoniano che ciò di cui si tratta è dire che cos’è l’ente in quanto è l’ente che è. L’essere non è più solo “apparire”. L’essenza dell’essere è τό ᾂπειρον inteso come la potenza che autorizza l’apparire e lo scomparire, cioè come il disporre che dispone il disaccordo. Dice bene, l’essere non è più solo “apparire”, l’essere è anche lo scomparire, perché l’essere non c’è senza l’ente, e l’essere scompare nell’ente e l’ente scompare nell’essere. È un continuo apparire e scomparire. Cosa che lui aveva intravista, parlando dell’essere e della differenza ontologica, della Lichtung, che arriva e illumina, e si vede che cosa? Quando compare l’ente scompare l’essere. Ma non è che propriamente scompaia, l’essere è ciò che dà all’ente la sua enticità, vale a dire, il suo significato: se un significante non ha un significato, non significa niente; se non c’è l’essere a dare una enticità all’ente, l’ente è nulla. A pag. 64. E se noi, per quanto ovviamente in modo inadeguato, domandiamo quale sia dunque, in senso proprio, il risultato contenuto nei due detti, allora esso è il seguente: che l’ente è in base all’essere, ma che l’essere stesso non è un ente. Essere ed ente sono differenti – e questa differenza è la più originaria che in assoluto possa darsi. La differenza ontologica. Questo dunque il risultato: l’essere non è l’ente. Un ragguaglio sconfortante. Sconfortante, forse sì, ma ci chiediamo: i due detti che ci parlano dell’essere sono forse chiamati a darci un conforto? E se non ci danno conforto, ci offrono per lo meno una cognizione chiara e fondata? Che ne è di esso? L’essere e l’ente sono differenti, certo, ma simultanei. Questo è ciò che Heidegger ha mancato.