2 ottobre 2024
Porfirio Isagoge
Ci sarebbero un po’ di questioni. La prima è la questione dell’interpretazione, cioè, Filone di Alessandria. L’interpretazione nasce con gli ebrei, non a caso perché dovevano interpretare che cosa voleva Dio da loro. Ogni volta si davano un gran da fare per soddisfare le esigenze di Dio, lui non era mai soddisfatto e, pertanto, bisognava interpretare la sua volontà. Ora, questa interpretazione è importante, perché sembra, ma si tratterebbe di lavorarci su, leggendo innanzitutto Filone, perché l’interpretazione nasca proprio con Filone Alessandrino, che è un medioplatonico.
Intervento: In un certo senso, ha avviato tutta la stagione delle eresie cristiane. L’idea dell’esegesi del testo sacro.
Sì, perché ognuno interpretava il testo sacro come voleva lui. E, quindi, sarebbe interessante da vedere cosa ne era dell’interpretazione, perché sappiamo perfettamente che Aristotele ci ha scritto un libro, Perì Ermeneias, ma ciò che intende Aristotele con interpretazione è un’altra cosa, non è l’ermeneutica, non c’entra niente. Quindi, sarebbe interessante vedere se l’interpretazione, così come la pensiamo oggi, ché da allora fino a a oggi è poi diventata appunto ermeneutica, è diventata semiotica, ecc., effettivamente nasce con Filone, cioè, con il Medioplatonismo e, quindi, se anche questa è una derivazione platonica.
Intervento: L’interpretazione allegorica di Filone.
Intervento: Questo ha senso perché del resto, come dire, se si pone un’interpretazione, vuol dire che ciò che si dice può significare qualcos’altro, quindi, c’è un’idea.
Sì, questa cosa si è conservata, se ci pensate, fino a Nietzsche: non esistono fatti ma interpretazioni. Questa frase di Nietzsche è una frase d’effetto che, però, lascia il tempo che trova: Cesare obietterebbe immediatamente che se ci sono solo interpretazioni, un’interpretazione interpreta qualcosa, cioè, un fatto, un detto, qualche cosa, ma, se non ci sono i fatti, l’interpretazione cosa interpreta?
Intervento: È come se l’interpretazione presupponesse il fatto che la parola non possa dire quel qualcosa di vero, che c’è dietro alla parola e, quindi ha bisogno di essere interpretata. Però, l’interpretazione è come far risaltare ciò che di vero, l’idea, ciò che di vero c’è dietro alla parola, che di per sé è limitata.
E, quindi, si potrebbe andare a vedere, prima di Filone Alessandrino, poi anche andare a riprendere alcune cose del Perì Ermeneias, perché prima questa cosa non c’era, non mi sembra, quanto meno. Si tratterebbe di andare a rileggere tutto il Diels per vedere se ci sono tracce di una cosa del genere. Ma non mi sembra. Ciascuna volta che leggiamo un testo, questo viene letto in base a un certo criterio, cioè, ci interessa una certa cosa e puntiamo a quella, tutto il resto lo sorvoliamo; per cui ciascuno di questi testi si presta a moltissime letture differenti tra loro.
Intervento: L’Uno è nascosto, ineffabile, indicibile, ecc. Mentre prima non Aristotele la verità tra virgolette si dice, è nella parola, anzi, si vede, con il neoplatonismo la verità è nascosta.
Ma già con Platone. Infatti, in Platone le cose, i sensibili, sono una menzogna rispetto all’idea, perché è l’idea, quella sta lassù, che è vera, tutto il resto è finto. Da qui poi anche la critica di Platone all’arte, che per lui sarebbe l’imitazione dell’imitazione, perché già le cose imitano l’idea e l’arte poi imita la cosa che imita l’idea.
Intervento: È quello che poi normalmente si dice “cosa c’è dietro?”
Sì, oggi si dice così “cosa c’è dietro?”, perché la verità è sempre nascosta, però c’è; nessuno la sa dire, nessuno la conosce, ma c’è. Questo è il neoplatonismo più smaccato. Ora, è interessante il lavoro che ha fatto Porfirio. Lui, in pratica, fa una cosa sola, ma, come spesso accade nel pensiero, nel suo cammino, nel suo evolversi, alcune parole, alcune frasi, a un certo punto diventano qualcosa che cambia radicalmente il pensiero. Ed è il caso di Porfirio, perché, vi dicevo, lui fa una cosa sola, una soltanto: avalla l’idea, chiamando in causa Aristotele, ma Aristotele non c’entra assolutamente niente con questo, che le categorie aristoteliche procedano l’una dall’altra gerarchicamente. Cosa che in Aristotele è totalmente assente: non c’è nessuna gerarchia; la sostanza è le sue categorie, e cioè ciò che se ne dice, praedicamenta, κατηγορήματα, sono simultanee, sono ciò che è la sostanza. Qui no, c’è la sostanza, l’Uno, da cui procedono, per processione, le categorie. Ora, questo passaggio è fondamentale, perché consente di costruire la logica perché introduce la possibilità dell’inerenza; cosa che in Aristotele era impossibile e, infatti, per lui è un comando, perché non si può dimostrare che da un elemento si passa a quell’altro, come fai? È una questione che poi si è mantenuta fino ad oggi. E, invece qui, attraverso Plotino naturalmente, Porfirio risolve il problema attraverso la processione, questa gerarchia per la quale dall’Uno procedono poi tutte le altre categorie; che, quindi, non sono più ciò che si dice della sostanza, non sono più dei praedicamenta. In queste brevi cose che dice Porfirio, del quale è rimasto molto poco, sono frammenti sparsi qua e là, ma ciò che c’è è sufficiente per intendere come a questo punto sia stato possibile per tutto il Medioevo costruire la logica, non quella Aristotele che non c’entra niente, ma una logica credibile, affidabile. Perché, se dico che da A si passa a B, questo è naturale, perché questo passaggio non è altro che una processione naturale da A a B e, quindi, è garantito. Cosa che in Aristotele non c’è, assolutamente. Porfirio cita Aristotele, ovviamente, per avere il supporto, ma non c’entra assolutamente nulla con ciò che ha detto Aristotele. Ora, vediamo che cosa dice. Come vi accennavo, dice una cosa sola e la ripete all’infinito. A pag. 57. Qui dice il suo progetto. Caro Crisaorio, dato che per comprendere la dottrina delle categorie di Aristotele è necessario sapere cosa sia il genere, la differenza, la specie, il proprio e l’accidente, e dato che questa analisi è basilare per la formulazione delle definizioni e, comunque, per tutto quel che riguarda la divisione e la dimostrazione, farò per te una breve esposizione in poche parole, nella forma, per così dire, di un’isagoge (introduzione), di quello che c’è stato tramandato dagli antichi, tralasciando le questioni più complesse e affrontando in egual misura quelle più semplici. Non è che tralascia le cose più complesse, semplicemente tralascia tutti i problemi che Aristotele aveva sollevato o visto quantomeno. A pag. 59. Ma genere si dice ancora in un altro senso, ovvero ciò a cui la specie è subordinata... La specie è subordinata al genere. …forse per somiglianza con i casi suddetti; infatti, in questo senso, il genere è in qualche modo il principio delle specie ad esso subordinate, e sembra contenere la molteplicità delle specie subordinate. Quindi, c’è già l’idea di qualcosa che contiene la molteplicità, quindi la unifica. Pensiero assente in Aristotele. A pag. 61. Parlando degli antichi, dice …essi ci hanno tramandato questa definizione: “il genere è ciò che si predica di più realtà che differiscono per specie, per quel che riguarda l’essenza”, ad esempio animale. L’animale sarebbe un’essenza che, poi, ha varie specie. A pag.63. …l’essere predicato di più soggetti distingue il genere dai predicabili di un solo individuo… Quindi, una bella distinzione intanto fra il genere e i predicabili, le categorie. …che l’essere predicato di soggetti che differiscono per specie lo distingue dai predicabili come le specie o come i propri; e che l’essere predicato in relazione all’essenza lo distingue dalle differenze e dagli accidenti comuni, che invece si predicano non in relazione all’essenza, bensì in relazione alla qualità o ad una qualunque altra caratteristica dei soggetti di cui sono predicato. Quindi, distinzione tra il genere e la specie. Il genere sarebbe l’universale, la specie il particolare, o, come direbbe Severino, il concreto e gli astratti. A pag. 65. …la specie è ciò che è subordinato al genere e di cui il genere si predica in relazione all’essenza. È una cosa che ripete all’infinito. In ogni categoria ci sono i generi sommi da una parte e le specie infime dall’altra, più i termini intermedi tra i generi sommi la specie infime. Il genere sommo è quello al di sopra del quale non può esserci alcun altro genere superiore, mentre la specie infima è quella al di sotto della quale non può esserci un’altra specie inferiore… Sarebbero i due estremi. …sono termini intermedi tra il genere sommo e la specie infima, altri che sono contemporaneamente genere e specie... Chiariamo questo discorso prendendo come esempio una categoria. La “sostanza” è essa stessa un genere, a cui è subordinata la specie “corpo”; subordinato a “corpo” è “essere vivente”; ad esso è subordinato “animale”, mentre ad “animale” è subordinato “animale razionale”; ad esso è subordinato “uomo” e ad “uomo”, infine, sono subordinati “Socrate” e “Platone”… Quindi, c’è una gerarchia. Pensate bene alle categorie, così come le pone Aristotele: lui non parla mai di gerarchia. Non parla di gerarchia perché tra le varie categorie, la quantità, la qualità, la relazione, ecc., non c’è nessuna gerarchia: la sostanza è ciò che ciò che i predicabili dicono che è, e se non ci sono i predicabili non c’è neanche la sostanza. Invece, per Porfirio, sì, se non c’è la sostanza non ci sono neanche i predicabili, cioè, i molti, ma se non ci sono i molti la sostanza può sussistere. In Aristotele no, se non c’è ciò che ne dico non c’è neanche il qualcosa che dico. Ed ogni predicabile che è posto subito prima degli individui, può essere soltanto specie e mai genere. Pertanto, così come “sostanza”, essendo il termine più alto, al di sopra del quale non vi è nessun altro genere, era il genere sommo, similmente “uomo”, essendo specie, al di sotto della quale non vi è nessun’altra specie, ma soltanto gli individui (individuo è infatti “Socrate”, così come “Platone”, e “questo oggetto bianco”), non potrà essere altro che specie, e la specie ultima, la specie infima, come abbiamo detto. Al di sotto della quale non c’è più niente. A pag. 69. Il genere sommo viene quindi definito nel modo seguente: “ciò che, essendo genere, non è mai specie”... Un momento. Ciò che è genere, dice, non è mai specie. Per Aristotele non funziona così, perché il genere è fatto delle specie, l’uno è fatto dei molti. Aristotele non se ne accorgeva, ma stava riprendendo Eraclito. Porfirio è questo che sta dicendo: essendo genere, quindi, essendo uno non è mai molti. …e anche, in genere sommo “ciò al di sopra del quale non può esserci un genere superiore”… Quindi, è Dio. …d’altra parte, una specie infima viene definita ciò che essendo specie non è mai genere... A pag. 71. Pertanto, Platone, nel discendere dai generi sommi sino alle specie infime, sosteneva che occorresse fermarsi ad esse e discendere, dividendo i termini intermedi tramite le differenze specifiche; e che degli individui infiniti non ci si dovesse occupare, poiché di essi non si dà scienza. Quando si discende quindi sino alle specie infime, necessariamente si procede, con la divisione, verso la molteplicità, mentre quando si risale sino ai generi sommi, necessariamente si riconduce la molteplicità all’unità… Qui c’è già in nuce una questione morale: quando si discende verso l’infimo si scende per divisione, cioè con i molti; poi, quando si risale si unifica tutto e si sale all’Uno, che è il Bene assoluto …infatti, la specie, e ancor di più il genere, riconduce i molti ad un’unica natura, mentre, al contrario, gli individui e le cose particolari dividono sempre l’uno in molteplicità. /…/ Dopo aver descritto le caratteristiche di entrambi, del genere della specie, e dopo aver mostrato che il genere è più vicino all’Uno e la specie più vicina ai Molti (infatti si dà sempre la divisione del genere in molte specie), diciamo che il genere si predica sempre della specie e che tutti i termini superiori si predicano degli inferiori; invece, la specie non si predica né del genere prossimo né di quelli superiori, non c’è infatti convertibilità. Non c’è la convertibilità perché lui ha instaurato una gerarchia. Ma in Aristotele non si parla di convertibilità ma di simultaneità. È la stessa cosa che poi riprende nella Fisica con la questione della potenza e dell’atto: tra potenza e atto non c’è prima uno e poi l’altro, non c’è gerarchia e l’entelechia è simultaneità dei due. A pag. pagina 75. Pertanto, lo individuo è contenuto nella specie, e la specie nel genere; il genere è un tutto, mentre l’individuo è una parte; la specie è al contempo tutto e parte, ma parte di qualche cos’altro, e tutto in qualcos’altro, e non di qualcos’altro; infatti, il tutto è nelle parti. Questo sempre per tenere ben distinto l’uno dai molti. A pag. 83. Qui parla della differenza. C’è anche la seguente definizione: “la differenza è ciò per cui la specie supera il genere”. Infatti, “uomo”, rispetto ad “animale”, ha in più “razionale” e “mortale”; “animale”, infatti non comprende questi due termini: da dove altrimenti le specie potrebbero trarre le differenze? E, inoltre, non comprende tutte le differenze opposte, poiché, in tal caso, lo stesso soggetto avrebbe in sé contemporaneamente i contrari; invece, si dice giustamente che possiede in potenza tutte le differenze ad esso subordinate, ma nessuna in atto. Porfirio si rende conto che non può fare come se non ci fosse la contrarietà, ma la pone in potenza e non in atto. Nessuna è in atto, altrimenti ci sarebbe la coappartenenza, sarebbe la parola di Eraclito, che è ἒν πάντα εἰναι.
Intervento: È comunque è interessante il fatto che tutto ciò pone la possibilità della conoscenza, almeno per come intendiamo noi la conoscenza, quindi, come espressione della volontà di potenza. Perché, se io classifico tutte le cose, posso dire di conoscerle in un certo senso, e questo mi dà ovviamente un controllo: se le conosco le domino. Un dominio notevole.
Sì, gerarchizzarle: è un modello che poi ha utilizzato la botanica, per esempio. Non a caso poi si parla dell’albero di Porfirio, e cioè il genere e poi tutte le cose, che scendono giù a cascata. Cosa che in Aristotele non era neanche pensabile, non c’è nessuna cascata, ma sono simultanee. Il genere, cioè la sostanza o l’universale, coappartiene a ciò che se ne dice, non c’è senza le cose che se ne dicono; mentre Porfirio ci tiene moltissimo a precisare che invece c’è anche senza ciò che se ne dice. D’altra parte, è allievo di Plotino e non può ammettere che l’Uno dipenda da ciò che se ne dice. Come nel cristianesimo: Dio non dipende da ciò che ne dico. A pag. 93. …se togliamo o in genere o la differenza, togliamo anche tutti i termini ad essi subordinati; come, per esempio, se non c’è “animale” non ci sono né “cavallo” né “uomo”, allo stesso modo, se non c’è “razionale” non ci sarà alcun “animale che fa uso di ragione”. Qui è il discorso di prima. Se tolgo i particolari dall’universale, l’universale resta, perché è una gerarchia, perché questo universale, non essendo fatto dei particolari, ha una sua esistenza propria, è un ente di natura; infatti, talvolta c’è un richiamo alla natura: le cose stanno così, per volere divino. A pag. 95. Il genere, inoltre, contiene la differenza in potenza: infatti, in “animale” c’è sia il “razionale” sia l’“irrazionale”. I generi, ancora, sono anteriori rispetto alle differenze subordinate… Le differenze subordinate sarebbero i praedicamenta, le cose che se ne dicono. …e, pertanto, tolti i primi, vengono tolte anche le seconde, ma non viceversa:… Continua a ripeterlo. …tolto “animale”, per esempio, vengono tolti “razionale” e “irrazionale”. Le differenze, al contrario, non determinano mai il venir meno del genere: anche se venissero eliminate tutte, si potrebbe ancora pensare la “sostanza vivente sensibile” che appunto l’“animale”. Sì, certo, penso l’animale, ma, pensando l’animale, penso la sostanza vivente sensibile. Il tentativo che fa lui, di separare il dire da ciò che il dire dice, è un tentativo sovrumano; lui continua a insistere con questi esempi, ma che poi vanno contro di lui. Dice: se venissero eliminate tutte le differenze, si potrebbe ancora pensare alla sostanza vivente sensibile. Questa la si potrebbe pensare, sì, ma come? Con cosa la penso?
Intervento: È come se non si rendesse conto che io posso pensare all’animale perché do per presupposto che ci sia il razionale, l’irrazionale…
Esatto. Perché ci sono una serie di particolari che mi consentono di parlare, di determinare questa cosa. L’insegnamento di Platone, che tanto si piccano di seguire alla lettera, di fatto l’hanno abbandonato. Platone voleva determinare l’ente in assenza di ogni sua determinazione, ma sa che è un controsenso: se non ci sono determinazioni non determino, quindi rimane indeterminato, l’ente come ᾂπειρον; quindi Anassimandro, quindi Democrito, quindi uno sfacelo totale. A pag. 99. Il genere e la specie hanno in comune l’essere predicati di più soggetti, come abbiamo detto: intendiamo la specie in quanto specie, e non anche in quanto genere... Questa separazione netta è sempre presente. Non bisogna mai confondere la specie col genere. Non è che Aristotele li confonda, sa benissimo che sono due cose differenti, ma sa anche che si coappartengono. …dato che uno stesso termine può essere contemporaneamente genere e specie. Un’altra caratteristica comune è che entrambi sono anteriori rispetto a ciò di cui si predicano, e che entrambi costituiscono un tutto. Entrambi sono anteriori rispetto a ciò che si predica. Quindi, la sostanza, l’universale, il genere, quello che volete, è anteriore a ciò che se ne dice. Capite che qui è l’instaurazione della ipostasi, del Dio: una cosa che è anteriore a ciò che se ne dice. Come fa a essere anteriore a ciò che se ne dice se, come dice Aristotele, questa cosa è ciò che se ne dice? A pag. 101. I generi, inoltre, preesistono necessariamente alle specie… Ecco, cioè, l’uno preesiste necessariamente ai molti. …e formano le specie dopo essere stati specificati dalle differenze specifiche: pertanto, i generi sono anteriori per natura. E la loro eliminazione comporta quella della specie, ma non viceversa, perché, posta la specie, viene posto sempre anche il genere, ma, al contrario, posto il genere, non necessariamente viene posta anche la specie. Vedete che non fa che ripeterlo: il genere è anteriore alla specie; non solo, ma lo ingloba in sé, potremmo quasi dire, ché se la specie procede dal genere allora questo ci consente – ecco qui la questione che dicevamo prima – consente, in effetti, quel processo di ipostatizzazione della logica, che ha consentito a tutto il Medioevo di avvalersi della logica; perché, se si fossero attenuti soltanto a ciò che diceva Aristotele, per esempio, negli Analitici secondi, avvalersi della logica sarebbe stato un problema. La logica non è altro che la doxa, quali garanzie può offrire? L’unica garanzia che offre è quella che ha posta Plotino e che qui ci continua a ripetere: il fatto che il genere, cioè l’Uno, la sostanza, precede i molti, anzi, è ciò che li ha prodotti, i molti per processione, l’Uno produce i molti – questo è Plotino – e, quindi, questi molti hanno come garanzia sempre l’Uno. È l’unica garanzia che hanno, ed è questa la garanzia della logica. La logica esplora tutte le varie possibilità di verità di proposizioni. Ma in base a che cosa fa questo? In base all’idea che ci sia una verità, che ci sia un Uno, cioè, che tutte queste proposizioni siano finalmente riconducibili all’Uno. A pag. 105. Il genere e il proprio… Il proprio sarebbe ciò che è specifico di un singolo, quindi, ciò che non appartiene a nessun altro se non al singolo. …differiscono in quanto il primo è anteriore, mentre il secondo è successivo: deve esserci, infatti, prima “animale”, perché poi esso venga distinto dalle differenze e dai propri. Ma già animale distinto da differenze. Questo significa dire che una parola differisce da sé: è già differente. Il genere, inoltre, si predica di più specie, mentre il proprio della sola specie di cui è proprio. Ancora, il proprio è convertibile con ciò di cui è proprio, mentre il genere non è mai convertibile: infatti, né “animale” implica “uomo” né “animale” implica “capace di ridere”; “uomo”, al contrario, implica “capace di ridere” e viceversa. /…/ Infine, l’eliminazione dei propri non implica quella dei generi, mentre l’eliminazione dei generi implica quella della specie a cui ineriscono i propri: e se viene meno a ciò a cui i propri ineriscono, di conseguenza vengono meno essi stessi. Sì, nella gerarchia, ma se si coappartengono tutto ciò scompare. Lui dice che se scompare il genere scompare anche il proprio. Va bene, certo, ma se si coappartengono, se scompaiono i propri, i molti, scompare anche l’Uno. Invece, per Porfirio no, l’Uno rimane, perché l’Uno è al di là, è oltre. A pag. 109. Differenza tra il genere l’accidente. Il genere differisce dall’accidente, poiché il genere è anteriore alla specie, mentre gli accidenti sono posteriori alla specie;… Sì, forse, forse. …infatti, anche se prendiamo un accidente inseparabile, è comunque anteriore all’accidente ciò a cui esso inerisce. L’accidente inseparabile è, per esempio, uno che ha il naso camuso: è un accidente, ma inseparabile, non gli si può levare il naso; mentre l’accidente separabile è, per esempio, il fatto di essere seduto. A pag. 127. La specie differisce dal proprio… La specie è “uomo”, il genere è “animale”; il “proprio” è ciò che appartiene a quell’uomo in particolare. …in quanto la specie può essere genere di altri termini, mentre il proprio non può essere proprio di altri termini. Qui fa il verso di Aristotele, anche Aristotele procedeva in un modo simile, ma con una differenza: mentre Aristotele ferma la sua attenzione sui problemi che incontra, qui i problemi non ci sono più, perché tutto quanto, gerarchicamente, viene fatto riassumere all’Uno, il quale risolve tutti i problemi, perché è al di sopra. La specie, inoltre, sussiste prima del proprio… Anche questo, continua a ripetere che l’uno viene prima dell’altro; ci tiene in modo particolarissimo a questa cosa e non l’abbandona mai. Poi, la vedremo anche in altri testi, sicuramente la troveremo, perché sembra non poterne fare a meno. Ancora, la specie è sempre presente in atto nel soggetto, mentre a volte il proprio lo è anche in potenza: infatti, “Socrate” è sempre “uomo” in atto, mentre non ride sempre, pur essendo sempre “capace di ridere” per natura. Anche la natura è un termine che interviene spessissimo. Vi ho letto queste cose perché ciò che dicevo all’inizio, le poche ma essenziali parole che dice Porfirio sono quelle che hanno indirizzato tutto il pensiero. Voglio dire che è possibile la consequenzialità perché c’è una gerarchia: è la gerarchia che consente, che garantisce la consequenzialità. Cosa che è Aristotele aveva messo seriamente in discussione. Perché, se non c’è nulla che garantisca questo passaggio inferenziale da A a B, allora è un problema. Aristotele ha incontrato questo problema, senza saperlo risolvere propriamente, lui lo mette a tema e, in parte, lo problematizza, cioè, lo interroga. Come lo risolve? Con la parola che abbiamo incontrata, ύμάρχειν, un comando, cioè, io dico che è così. Però, ponendo la questione in questi termini, toglie di mezzo la possibilità, anche la sola pensabilità della appartenenza di un elemento all’altro in una relazione, in una implicazione, per esempio. E questo, naturalmente, distrugge la logica perché, se nulla garantisce questo passaggio, cosa sta a fare una implicazione? Ma se queste implicazioni sono sostenute dal fatto che il conseguente segue necessariamente, anzi, come ci suggerisce Porfirio, naturalmente l’antecedente, ecco che la garanzia c’è e la garanzia sta nell’antecedente che è l’Uno, che sta lassù. Tutto è garantito dall’Uno. Questo lo riprenderà anche la Chiesa, lo vedremo con i teologi medievali. Senza questa garanzia dell’Uno, o di Dio, non c’è nessuna garanzia in ciò che si dice, nessuna possibilità di stabilire alcunché di vero. Per questo, dicevamo forse qualche tempo fa, non possiamo parlare senza Dio, in un certo senso, cioè, senza un riferimento ipotetico a un Uno, a una verità assoluta. Questa verità assoluta non esiste ma la presupponiamo per potere parlare, per potere affermare qualunque cosa. Ora, generalmente tutto questo non è avvertito come tale, semplicemente si pensa che la verità epistemica esista da qualche parte. Se non esiste, allora bisogna fare i conti con ciò che diceva Aristotele, cioè con la doxa. Noi possiamo dire con verità le cose perché sappiamo che si è sempre detto così, ma sappiamo che questo “con verità” significa questo “si è sempre detto così”, ma in realtà non significa niente. Porfirio, con quelle poche cose che abbiamo lette, fornisce la possibilità della logica. Tutta la logica medievale, tutto il Medioevo è intriso di logica ma della logica porfiriana, non di quella aristotelica. Avevano ragione tanto Reale quanto soprattutto Beierwaltes: Aristotele è stato letto attraverso il neoplatonismo; lui, Aristotele, non è mai stato letto, si è letto Porfirio. Boezio, che traduce in latino l’Isagoge di Porfirio, fornisce alla logica medievale, cioè a tutta la logica teologica, il fondamento, l’impianto. E questo è fatto nel modo in cui dice Porfirio: c’è una gerarchia, cioè, per Porfirio la logica è una gerarchia; per Aristotele, no. Questa è la differenza fondamentale. Ma che la logica sia una gerarchia è un’idea che si è mantenuta: duemila anni di cristianesimo fino ad oggi, fino a quando si sente dire: eh, ma è logico che sia così!
Intervento: Vien da pensare che la disputa sugli universali sia più che altro un conflitto sulla lettura di Aristotele, perché Aristotele nelle Analitici ci spiega cos’è un universale: è una costruzione. I filosofi dell’epoca che lo leggevano neoplatonicamente non potevano accettare la cosa e da lì la disputa sull’universali…
Intervento: I più vicini ad Aristotele solo i nominalisti.
Sì, Guglielmo di Ockham parlava del flatus vocis. Ma, se è flatus vocis, a maggior ragione abbiamo bisogno di un Dio.
Intervento: Quello che si diceva la volta scorsa intorno alla questione delle fantasie, e cioè che le fantasie si costruiscono attraverso una costruzione logica. Ovviamente, non abbiamo altri strumenti. Quindi, a questo punto si tratta di reperire in questo caso l’universale da cui ciascuna fantasia procede.
Certo, necessariamente. Quando si afferma qualcosa, lo diceva anche Aristotele, si parte sempre, per affermare qualcosa, da un universale, perché per costruire un sillogismo bisogna partire dall’universale.
Intervento: Si tratta, quindi, rispetto a ciò che accade in un’analisi, di intendere che quello universale è prodotto da tutta una serie di particolari…
Certo. L’universale non si sostiene senza questi particolari, non ha una vita propria, è fatto di queste altre cose.