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2 ottobre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 306 (137). Ciò che la necessità veramente è nell’autocoscienza, ciò stesso essa è per la nuova figura dell’autocoscienza medesima. Nella sua nuova figura l’autocoscienza è se stessa come il Necessario… Cioè: ciò che è necessario è soltanto l’autocoscienza o, potremmo dire, l’unica cosa necessaria è il linguaggio; è l’unica cosa che non può non esserci, perché se non ci fosse il linguaggio o, anche seguendo Hegel, se non ci fosse l’autocoscienza, allora non ci sarebbe niente; in questo senso è necessario. A pag. 310 (143). Mediante il concetto del suo operare l’individuo ha determinato più precisamente il modo nel quale l’effettuale universalità, a cui egli si è reso appartenente, si volge contro di lui. Come effettualità, la sua operazione appartiene all’universale;… Cioè: il suo fare. …ma il contenuto dell’operazione è la propria individualità che vuol conservarsi come questa singola opposta all’universale. Quindi, da una parte c’è l’opera, il fare, che è universale, che è qualche cosa che si pone come il significato delle cose, un fare che trascende la persona; ma, al tempo stesso, ci sta dicendo, questo fare è opera del singolo, è il particolare, e questo crea un problema. Non si tratta di proporre eventualmente una legge determinata; anzi l’immediata unità del singolo cuore con l’universalità è il pensiero che, elevato a legge, deve aver validità, per cui si afferma come in ciò che è legge ogni cuore debba riconoscere se stesso. Questa opposizione rimane, sì, opposizione, ma per il singolo cuore, per la persona, non basta che sia particolare ma deve elevarsi a universalità, cioè ciascuno vuole porsi come qualcosa di universale. Infatti, quando una persona afferma qualche cosa afferma qualche cosa che è particolare, nel senso che appartiene a lui, ma vorrebbe che fosse inteso come un universale, cioè una cosa che deve valere per tutti. Ma solo il cuore di questo individuo ha posto la sua effettualità nella sua azione che gli esprime il suo essere-per-sé o il suo piacere. Soltanto questa persona, il cuore di questo individuo, ha posto la sua effettualità in questa operazione; cioè, rimane il singolo. Essa deve valere immediatamente come universale; cioè a dire è in verità qualcosa di particolare, e dell’universalità non ha che la forma: il particolare contenuto del cuore deve, come tale, valere universalmente. Cioè: ciò che io penso non deve valere come ciò che penso io ma deve valere per tutti. Così pensano gli umani. Perciò in questo contenuto gli altri non trovano compiuta la legge del cuore loro, bensì quella di un altro; e appunto secondo l’universale legge per cui in ciò che è legge ciascuno deve trovare il cuore suo, gli altri si volgono altrettanto contro l’effettualità che esso proponeva, proprio a quel modo ch’esso volgevasi contro la loro. Come prima soltanto la legge rigida, così ora l’individuo trova abominevoli e avversi alle sue eccellenti intenzioni i cuori stessi degli altri uomini. Come è possibile che, se dico una cosa, questa non venga immediatamente riconosciuta come verità assoluta e incontrovertibile? Quindi, che cosa accade? Accade che questa persona – qui sta parlando della virtù, del bene – pensa che il bene sia una certa cosa e vuole che questa cosa che pensa sia riconosciuta universalmente, come il bene universale. Chiaramente, ciascuno lo pensa per sé, ma l’idea è che tutto questo serva al bene comune, al bene dell’umanità; come dire: io so qual è il bene per l’umanità. A pag. 313 (147). Perciò il batticuore per il benessere dell’umanità passa nello smaniare della sconvolta presunzione, nella furia della coscienza per conservarsi contro la sua distruzione;… Distruzione da parte degli altri, cioè: mi oppongo contro tutti, e tutti si oppongono contro tutti. …e ciò così, che la coscienza allontana da sé l’inversione che essa stessa è… È un’inversione nel senso che questa coscienza, come diceva prima, da una parte è il particolare, e vuole essere universale, ma vuole essere universale proprio perché è particolare; e, allora, deve allontanare questa inversione perché possa porsi soltanto come universale. …e si adopera a riguardarla e a esprimerla come un Altro. Questo problema lo mette al di fuori e lo pone come un altro, cioè, è un altro che si oppone, non è un problema intrinseco, interno alla questione stessa, che è autocontraddittoria, ma è un altro che mi crea dei problemi. Allora la coscienza qualifica l’ordine universale come un’inversione della legge del cuore e della sua felicità:… L’universale, cioè il come le cose di fatto stanno, diventa un’inversione della legge del cuore, diventa un qualche cosa che rovescia la legge del cuore e della felicità, le si oppone, in definitiva. Quindi, questo ordine universale diventa il nemico da piegare. …preti fanatici, despoti corrotti aiutati dai loro ministri che umiliando e opprimendo cercano di rifarsi dell’umiliazione loro, avrebbero inventata questa inversione, manipolandola a indicibile miseria dell’umanità ingannata. Questa contraddizione viene posta all’esterno come una minaccia e deve essere tolta da tutti; ecco che, allora, partono le crociate. In questo suo sconvolgimento la coscienza enuncia l’individualità come principio di sconvolgimento e di inversione… Perché, ovviamente, punta all’universalità: ciò che io dico deve essere universale. L’individualità altrui, pertanto, è vista come una minaccia, come un pericolo, sempre. …un’individualità peraltro estranea e accidentale. Ma il cuore o la singolarità della coscienza, singolarità che vuole essere immediatamente universale, è esso stesso tale principio di sconvolgimento e di inversione;… La singolarità della coscienza che vuole essere universale: sta qui, dice Hegel, il principio di sconvolgimento e di inversione. Usa questo termine “inversione” nel senso che la persona pensa “o c’è l’una o c’è l’altra”, la mia idea singolare è mia ma voglio che sia universale; se diventa universale, però, cessa la mia singolarità. …e il suo operare produce soltanto la conseguenza che questa contraddizione viene portata alla sua coscienza. Infatti al cuore il vero è la legge sua, - qualcosa di meramente opinato che, ben diversamente dall’ordine costituito, non ha sopportato la luce del giorno e che anzi, appena esposto a questa luce, va a fondo. Per ciascuno il vero è quello che pensa, ma rimane un suo pensiero; perché possa rimanere un suo pensiero e pensarsi vero, ci sta suggerendo Hegel, è preferibile che non venga messo alla prova; infatti, dice, non ha sopportato la luce del giorno che rischiara. Tal sua legge dovrebbe avere effettualità… Cioè: dovrebbe accadere. …allora fine ed essenza gli è la legge in quanto effettualità,... Il fine è porre questa legge come qualcosa che si effettua davvero, che accade. …in quanto valido ordine; ma immediatamente l’effettualità, cioè proprio la legge in quanto valido ordine, gli rappresenta piuttosto la nullità. Vorrebbe che questa cosa che ha pensato fosse l’universale, però non può esporla, metterla alla prova, perché supportata da niente; e, allora, se dovesse effettuarsi questa cosa, che cosa gli ritorna? Gli ritorna la nullità di ciò che ha pensato. A pag. 315 (149). Infatti, essendo esso (l’ordine) la legge di ogni cuore, e tutti gli individui essendo immediatamente questo universale, quell’ordine è un’effettualità che è solo l’effettualità dell’individualità essente per sé o del cuore. Questo ordine, che ciò che io penso voglio che diventi, appunto un ordine universale, è un’effettualità, qualcosa che si produce, ma, dice, è solo l’effettualità dell’individualità essente per sé o del cuore, cioè, è un’effettualità, qualcosa che si produce, ma soltanto per me, questa cosa è versa soltanto per me. La coscienza che propone la legge del suo cuore, avverte dunque resistenza da parte di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto singole del cuore loro; e questi, nella loro resistenza, non fanno altro che proporre la legge propria e darle validità. Ciascuno fa questo. L’universale ora presente è quindi solo una resistenza generale e un osteggiarsi reciproco di tutti; ciascuno vuol rendere valida la propria singolarità senza però riuscirvi, ché anche la singolarità sua prova la sua medesima resistenza e viene reciprocamente vanificata dalle altre singolarità. Questo è ciò che accade ciascuna volta in cui qualcuno vuole proporre la propria idea di bene, che si scontra con le altre idee che altri hanno, ovviamente: parte comunque dal presupposto che l’idea, che questo qualcuno ha del bene, sia qualcosa di universale, che, dice, Hegel, crea un problema perché si scontra con il fatto che, invece, è prodotta da un particolare, da una singolarità. Quindi, perché possa porsi effettivamente come un universale dovrebbe essere proposta da tutti, ma, ci sta dicendo, questo non accade. A ag. 318 (153). Ora, mediante il togliere l’individualità, del principio di inversione… Togliere l’individualità: se punto all’universalità, devo togliere l’individualità. …l’universale deve ricevere dalla virtù la sua verace effettualità… La virtù deve essere quella che dice che cos’è il vero. …fine della virtù è quello di riinvertire l’invertito corso del mondo e di produrne la vera essenza. Sarebbe come dire che la virtù deve capovolgere questa situazione in cui l’universale è prodotto dal singolo. Che cosa succede capovolgendola? Succede che questa virtù torna al singolo, ma questo singolo deve avere in sé in qualche modo l’universalità, cioè, la virtù deve essere universale ma parte dal singolo e, quindi, non è universale perché, per essere tale, deve partire da tutti; quindi, io tolgo l’individualità e mi rimane l’universalità che a questo punto si riversa sulla singolarità ponendosi come universale. Da principio questa vera essenza è nel corso del mondo solo come il suo in-sé, e non è ancora effettualità;… Si pone solo come l’in-sé, come l’accadere, il semplice darsi di qualcosa. …perciò la virtù crede, soltanto, a questa vera essenza. Essa procede ad elevare a visibilità questa fede, senza però godere dei frutti del proprio lavoro e del proprio sacrificio. Infatti, in quanto la virtù è individualità,… La virtù è ciò che io ho posto come tale, è il singolo che la mette in atto …essa è l’operare della lotta da lei ingaggiata con il corso del mondo… Cioè: la virtù lotta contro il come vanno le cose. La virtù dice come dovrebbero andare le cose e, quindi, combatte contro il come vanno le cose. …ma il suo fine e vera essenza è il soggiogamento dell’effettualità di quel corso… La virtù vuole impadronirsi e imporsi sul corso del mondo. …l’esistenza così promossa del bene è quindi il cessare del di lei operare, ossia il cessare della coscienza dell’individualità. Quindi, il progetto della virtù è il cessare del suo operare, cioè, il cessare di un operare di una individualità, perché la virtù vuole essere universale. A pag. 323. Ma la coscienza della virtù poggia su questa differenza dell’in-sé e dell’essere, la quale non ha verità alcuna. Questa differenza dell’in sé e dell’essere: pone l’in sé, come qualche cosa che è, e l’essere, che è universale. Li pone come differenti, ma questa differenza, dice, non ha verità alcuna. Il corso del mondo doveva essere l’inversione del buono, ché esso aveva a suo principio l’individualità… Il corso del mondo, cioè il come vanno le cose, doveva essere l’inversione del buono, cioè il buono deve convertire il corso del mondo, ma, dice, …solo, questa è il principio dell’effettualità; proprio essa è infatti la coscienza mediante la quale ciò che è in sé è altrettanto per un altro; il corso del mondo inverte l’intrasmutabile, ma in effetto lo inverte dal nulla dell’astrazione nell’essere della realtà. Dice che proprio essa, la effettualità, è ciò che per me, ciò che è in sé, è altrettanto per un altro. Il fatto che per me qualcosa sia in sé, cioè che sia così, accade ugualmente per un altro, anche per un altro succede la stessa cosa. Ora, dice, il corso del mondo inverte l’intrasmutabile, cioè ciò che è necessario, e lo inverte dal nulla dell’astrazione nell’essere della realtà. Cioè: il corso del mondo, che cosa fa? Inverte, capovolge l’intrasmutabile, ciò che appare necessario, dal nulla dell’astrazione, cioè dal mio pensiero alla realtà, cioè le cose stanno così. Il corso del mondo è ciò che si oppone alla virtù, come sappiamo. Ora, dicendo che il corso del mondo inverte l’intrasmutabile, ma in effetto lo inverte dal nulla dell’astrazione nell’essere della realtà ci sta dicendo che si prende coscienza del fatto che le cose vanno in un certo modo che, anziché essere posto come un’astrazione, perché in fondo è la mia opinione, si pone come realtà. Così il corso del mondo ottiene vittoria su ciò che, in contrapposizione a lui, costituisce la virtù;… La virtù si contrappone al corso del mondo. …ottiene vittoria su di essa, alla quale l’astrazione priva di essenza è l’essenza. Dice che quell’operazione di prima, in realtà, non riesce perché il corso del mondo vince sulla virtù, cioè, molto banalmente, il come vanno le cose, il come vedo le cose, vince sulla mia idea di come dovrebbero andare. Ma esso non trionfa di alcunché di reale, sì bene della manipolazione di differenze che non sono differenze;… Non è che questo trionfo sia alcunché di reale perché, di fatto, trionfa su niente: diceva ottiene vittoria su di essa, alla quale l’astrazione priva di essenza è l’essenza, cioè, prende come essenza qualcosa che non ha nessuna essenza, la mia idea, la mia opinione. …trionfa di tale pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa;… Vedendo come vanno le cose mi accorgo che la virtù non trionfa; e, allora, non trionfando sul corso del mondo, devo in qualche modo imporre questa virtù e fare in modo che gli altri credano che questa virtù sia in condizione di modificare il mondo. …di tale pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso di doti; - simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto; che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, valle di fronte a se stesso come un’eccellente essenza; - ma è invece una gonfiatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento. Hegel se la sta prendendo contro coloro che immaginano che la propria idea di virtù debba costituire un universale assoluto. Perché questo possa accadere occorre porre come fine il bene dell’umanità, ma come la sostengo questa mia idea, che, cioè, sia proprio questo il bene dell’umanità? Poco dopo dice: Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto. Questa vuotaggine oratoria alle prese col corso del mondo si paleserebbe subito, qualora si dovesse dire che cosa le sue frasi significhino; - perciò esse vengono allora presupposte come note. L’esigenza di esprimere questo noto o verrebbe soddisfatta con un nuovo diluvio di frasi o le verrebbe contrapposto l’appello al cuore, affinché nel suo intimo esso dica che cosa quelle significano: ossia verrebbe confessata l’incapacità a dirlo effettivamente. – La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole, giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia. Quindi, a questo punto che cosa succede? Dice che la coscienza si sbarazza, come di un vano mantello, della rappresentazione di un bene in sé che non avrebbe ancora effettualità alcuna. Questo è il problema: il bene è in sé, però non ha ancora effettualità; perché si produca occorre sacrificarsi, bisogna sacrificare il bene personale per il bene comune, per il bene ultimo, per il bene assoluto. Nella sua lotta la coscienza ha sperimentato come il corso del mondo non sia tanto malvagio quanto pareva: la sua effettualità è, infatti, la realtà dell’universale. Questo corso del mondo, che la mia idea di virtù vedeva come un nemico da combattere, da soggiogare, questa realtà, sta dicendo, non è poi così malvagia; in effetti, non è che la realtà universale, le cose come sono. Con questa esperienza viene a cadere il mezzo di produrre il bene col sacrificio dell’individualità;… Se non ho più la necessità di contrapporre il bene mio al bene universale, perché mi sono accorto che il corso del mondo non è poi così malvagio - potremmo dire che le cose di per sé non sono buone né cattive, sono quelle che sono – se prendo atto di questo allora non sono più il nemico e, pertanto, non ho più da sacrificare niente, non ho più da sacrificare l’individualità, non devo più cancellarmi a vantaggio del bene comune: possiamo esistere entrambi. …ché l’individualità è per l’appunto l’attuazione di ciò che è in sé;… L’individualità è il porre in atto, è il mettere in opera ciò che è in sé. …e l’inversione cessa di venir considerata come un’inversione del bene, perché è piuttosto l’inversione del bene stesso, come mero fine, nell’effettualità;… A questo punto non c’è più questa opposizione tra il bene e le cose che vanno per i fatti loro, perché …il movimento dell’individualità è la realtà dell’universale. È già parte dell’universale, non c’è più – sta qui la questione centrale della dialettica – la separazione tra l’individuale e l’universale; l’individuale e l’universale si integrano; quindi, il mio operare, perché il bene si riduce a ciò che io faccio, è, sì, mio, singolo, ma è un operare universale, e così l’operare di tutti modifica in qualche modo il mio operare. È esattamente ciò che Heidegger dirà cent’anni dopo: io modifico il mondo con il mio intervento; modificandolo, il mondo modifica me: è il circolo ermeneutico. Ma in effetto così è anche vinto e sparito ciò che, come corso del mondo, stava di contro alla coscienza di ciò che è in sé. Non c’è più questo “stare di contro” perché non è più visto come il nemico. Ivi l’esser-per-sé dell’individualità era opposto all’essenza o all’universale, e appariva come realtà separata dall’esser-in-sé. Qui torniamo proprio alle origini: c’è l’essere per sé e l’essere in sé. Ma poiché si è reso manifesto che l’effettualità sta in separata unità con l’universale, così anche l’esser-per-sé del corso del mondo dimostra di non esser più; proprio a quel modo che lo in-sé della virtù è soltanto un modo di vedere. A questo punto l’in sé della virtù non è più un qualche cosa che si deve imporre sul mondo, non aspira più a diventare universale, ma è soltanto un modo di vedere, un’opinione, un gioco. Questa realtà di cui parlo è per me, nel senso che sono io che la instauro. Il passaggio dialettico è l’integrazione: questa cosa che io immagino essere fuori di me, l’oggettività, ritorna in qualche modo a me, all’in sé, che diventa ciò per cui io posso vedere questa cosa, ma la vedo in quanto questa cosa è me che la vedo. È questo che Heidegger intende quando parla del mondo, quando dice che io sono il mondo: tutte le cose sono io, perché vedendole, osservandole, ecc., metto in atto questo processo, di cui Hegel ci sta parlando, per cui dall’in sé volge al per sé, cioè m accorgo che è per sé, quindi, è per me, e quindi l’in sé a questo punto diventa effettivamente il Sé, quando mi accorgo che ciò che vedo non è altro che la mia autocoscienza, cioè, linguaggio. Ciò con cui ho a che fare continuamente è sempre e solo, e non può non essere, autocoscienza. L’individualità del corso del mondo potrà ben ritenere di agire soltanto per sé o egoisticamente; ma è migliore di quello ch’essa stessa non creda;… Pone il corso del mondo come un’individualità, rifacendosi al discorso di prima, cioè, come qualcosa che si oppone. …il suo operare è in pari tempo un operare in sé essente, un operare universale. Quando essa agisce egoisticamente, non sa semplicemente quello che si fa; e quando assicura che gli uomini tutti agiscono egoisticamente, asserisce soltanto che gli uomini tutti non hanno coscienza di quello che sia l’operare. Quando essa agisce per sé, equivale all’addurre a effettualità ciò che è solo l’in-sé essente; così il fine dell’esser-per-sé, fine il quale si ritiene opposto all’in-sé, - la sua vuota scaltrezza nonché le sue sottili spiegazioni che ovunque riescono a mettere in evidenza il tornaconto, sono dileguate a quel modo che è dileguato il fine dello in-sé e il suo chiacchierare. L’operare e l’intraprendere dell’individualità sono dunque fine in se stesso; l’uso delle forze, il gioco delle loro estrinsecazioni è ciò che conferisce vita a loro che sarebbero altrimenti il morto in-sé; e lo in-sé non è un universale non messo in opera, privo di esistenza ed astratto; anzi è esso stesso immediatamente la presenza ed effettualità del processo dell’individualità. Nel processo di integrazione di individualità e di universalità accade che tutto ciò che faccio, il mio operare, che fino a un certo punto, se non mi accorgo è considerato egoisticamente come il mio voler imporre la mia volontà sul mondo, diventa un qualche cosa che è un agire all’interno del mondo, è un agire mio insieme con quello di tutti gli altri, che non si oppone perché si integra. Non c’è più l’opposizione tra l’in sé e il per sé, ma c’è integrazione; il che significa che tutto ciò che ciascuno fa modifica il mondo. Ma ciò che anch’io faccio modifica il mondo, e l’operare di tutti modifica il mondo, che modifica me. Questo significa porre l’accento non più su singoli elementi ma sulla relazione fra elementi. Hegel parla di dialettica, certo, ma la dialettica a questo punto si può intendere come una relazione, una relazione tra due o più cose. Questa relazione è propriamente l’apertura, nel senso che lascia aperta questa apertura, che non può colmarsi. Infatti, la sintesi di cui parla Hegel non è che cancella uno dei due a vantaggio dell’altro, rimangono entrambi; quindi, questa apertura, questo iato, permane. Questo iato non è altro che la relazione, la relazione, potremmo dire, pura se non fosse che parlando di relazione pura è una contraddizione in termini, perché una relazione che non è determinata che non ha termini non è niente, occorrono dei termini, almeno due, perché ci sia una relazione. A questo punto verrebbe anche da pensare che l’essere di cui parla Heidegger non è altro che questa relazione, perché è dalla relazione, dall’essere, che sorgono gli enti: l’essere è quell’apertura, quell’orizzonte, dice Heidegger, dal quale gli enti possono sorgere, possono apparire. Potremmo dire che è nella relazione che gli enti possono apparire, nella relazione, cioè, nel trovarsi questi elementi connessi fra loro. Dire che soltanto nella relazione gli enti appaiono è come dire che non c’è ente che non sia in una relazione, che è poi la nozione di segno in Peirce, tra l’altro. Si potrebbe porre la questione in termini più strutturali; Hegel pone la questione in termini più politici, sociali, però è come se stesse dicendo che non c’è l’individualità, non c’è l’ente che non sia già nell’universale, che non sia già preso in questa relazione. L’universale è il significato dell’ente – avevamo posto questa connessione con il segno di de Saussure – e il significante è l’accadere di qualche cosa che finché non ha significato è niente, ma è la relazione tra i due che fa esistere i due, che non preesistono la relazione, non la preesistono perché se non c’è la relazione non esiste né l’uno né l’altro. Quindi, è una disanima precisa del funzionamento del linguaggio, dove ci dice che il singolare e l’universale non si danno se non in una relazione, cioè, se non in una integrazione tra loro. Tutto ciò che raccontava prima del voler imporre la virtù sull’andamento delle cose non è altro che il tentativo da parte di ciascuno di piegare il linguaggio al proprio volere, cioè fare in modo che il linguaggio significhi quello che vuole lui. Certo, il linguaggio significa, ma significa in quanto è una continua relazione fra elementi in cui io stesso, che voglio fare questa operazione di controllo del linguaggio, non sono che uno degli elementi. Questa è anche la portata del testo di Hegel: mostrare come in effetti nell’operare di tutti e di ciascuno, ciascuno è un momento della dialettica, è un momento del farsi del linguaggio, non è altro che questo. In questo volere fare cose non fa altro che mettere in atto il funzionamento del linguaggio, solo questo.