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2-10-1996

 

L’ATTO LINGUISTICO

 

Provate ad immaginare l’assenza del linguaggio. È un invito paradossale perché in effetti non è possibile pensare come se il linguaggio non ci fosse. Però questo non toglie che possiamo fare qualche congettura. Innanzitutto la totale assenza della possibilità di potere asserire, giudicare, stabilire, inferire qualunque cosa, non c’è nessuna possibilità di accogliere una connessione come tale e di riflettere su questa connessione. La questione è che in effetti non abbiamo neanche il modo di immaginare come una situazione del genere potrebbe configurarsi, in altri termini non è possibile pensare né fuori dal linguaggio, né come si darebbe, come si configurerebbe una situazione in cui il linguaggio fosse assente. Questo ha delle implicazioni ed è per un verso un altro modo per indicare che non c’è uscita possibile dal linguaggio. Questo ci induce a riflessioni anche estreme, radicali, come quella che afferma che una realtà, quella che è nota come il mondo esterno, come qualunque cosa o come la nozione di essere, di esistenza, non potrebbero in nessun modo formularsi, pensarsi, dirsi e che pertanto qualunque cosa necessariamente è, direi quasi inesorabilmente, un atto linguistico. Nel senso che questo aggeggio qui è un atto linguistico? Esattamente, esattamente in questo senso. In quanto è questo o nulla, né nulla di pensabile. Poi stabilito che, o per via del fatto che sia un atto linguistico, possono aggiungersi una quantità sterminata di cose, e quindi dire che è un orologio, che è una cosa fatta in un certo modo o in un altro ma in prima istanza è un atto linguistico, come qualunque altra cosa, inevitabilmente. E un atto linguistico come potremmo definirlo? Visto che ciascuna cosa che s’impone, qualunque cosa sia è un atto linguistico, sembra a questo punto difficile definire un atto linguistico, perché la stessa definizione di atto linguistico sarà un altro atto linguistico, tuttavia possiamo indicare almeno provvisoriamente, come atto linguistico, tutto ciò che consente agli umani, cioè ai parlanti, di dirsi tali e dopo questo una infinità di altre cose.

Adesso sto raccontando alle persone delle cose, magari quelle che mi seguono da più tempo conoscono benissimo, dunque un, per usare termini un po’ inflazionati, un universo di atti linguistici, ma lo stesso universo in qualunque accezione si voglia intendere questo termine è un altro atto linguistico. Ora che cosa avviene, se considero una qualunque cosa, come un atto linguistico? Intanto che questa qualunque cosa viene colta come senso in connessione con altri atti linguistici, cioè con altri elementi linguistici, come dire che qualunque cosa che si ponga nel linguaggio e qualunque sia il senso che gli attribuisco, è tale perché è nel linguaggio, fuori dal linguaggio sarebbe assolutamente nulla. Se è nel linguaggio allora sottostà a delle regole, delle procedure di cui è fatto il linguaggio, e sottostà prevalentemente a queste, e cioè a tutto ciò che fa esistere il linguaggio. La questione più importante di tutto ciò è che la considerazione che qualunque cosa è necessariamente un atto linguistico, toglie a questa qualunque cosa qualunque possibilità di porsi altrimenti e cioè per esempio di essere un elemento che ha un senso di per sé, che è così perché deve essere così, che è così perché è sempre stato così o perché non possiamo dire altrimenti. Ma sia come sia, rimane che questa considerazione dell’impossibilità di uscire dal linguaggio è esattamente ciò che offre la possibilità di incominciare a considerare le cose, qualunque cosa, diciamola così per il momento, come una mia produzione. Dico provvisoriamente perché è una questione che va precisata. Questione tutt’altro che semplice. Prendete per esempio un evento qualunque, per esempio la guerra in Jugoslavia. Comunemente non si considera che la guerra in Jugoslavia sia una mia produzione, perché esiste indipendentemente da me, né l’ho voluta io, né ho fatto sì che proseguisse, né ho la facoltà di interromperla. Però si è interrotta adesso, bene. Ma cosa intendiamo dire, dicendo che, per esempio, che la guerra in Jugoslavia non è una mia produzione? Se intendiamo dire che non sta nelle mie facoltà arrestarla, impedirla o farla proseguire dovremmo precisare meglio, perché arrestare, fare proseguire o interrompere che cosa esattamente? Vi ho fatto questo esempio perché qui forse e più facile che in altre circostanze, la cosa è più facilmente reperibile e dunque a questa domanda la risposta è immediatamente che cosa? Di un’altra guerra, sì, certo la guerra, ma quando parlo di guerra in Jugoslavia che cosa dico esattamente? Ciò che si configura per me, quando io penso o parlo o alludo alla guerra in Jugoslavia, ciò che io penso, dico, faccio rispetto a tutto ciò che mi si impone parlando di questo argomento è qualcosa che sì, è una mia produzione, però uno potrebbe continuare a dire sì, certo però la guerra in Jugoslavia in quanto tale non è di tua pertinenza. Ma “in quanto tale”, che cosa significa esattamente? Come se ci fosse un richiamo a qualche cosa che è lì, appunto in quanto tale, e pertanto fuori dalla parola. È un curioso esempio, questo che vi ho fatto, in effetti sembra arduo sostenere che le cose non siano così, e cioè che esista in Jugoslavia una guerra in quanto tale. Perché se io vado in Jugoslavia lo verifico ecc. ecc.. Questi continui richiami all’osservazione ci danno da riflettere. In altri termini ancora, questo sintagma “guerra in Jugoslavia”, ha un referente oppure no? Come sapete i linguisti si sono dati molto da fare per rispondere a domande del genere, cercando innanzi tutto di stabilire un criterio per definire che cosa sia esattamente un referente. Questa ricerca conduce ad una sorta di regresso all’infinito, per cui ciò che ci si trova in mano per così dire, non è altro che un continuo rinvio a qualche altra cosa che dovrebbe certificare quella precedente, ma che attende da un’altra ancora, di essere a sua volta certificato. Se dico che la guerra in Jugoslavia non esiste in quanto tale, in questo senso non sto dicendo assolutamente niente, contro ogni buon senso. Tuttavia in questa circostanza, come in moltissime altre, ci si trova (come si trova continuamente il discorso occidentale, si è continuamente trovato da Platone in poi) di fronte a una sorta di bivio, che ha dannato molti logici e molti linguisti. E il bivio consiste in questo: proseguire lungo una ricerca teoretica dove ciascun elemento viene interrogato, esposto al linguaggio se volete metterla così o alla logica, potrebbe essere la stessa cosa e quindi interrogarlo perché renda conto di sé e allora ecco che si trovano infiniti e sterminati problemi, oltre che la regressio ad infinitum, aporie e scogli di ogni genere ; oppure accogliere che è così e basta, e più non dimandare, diceva Dante. Solo che questo “e più non dimandare” rischia di espandersi a macchia d’olio e allora le cose che si danno per acquisite si moltiplicano, sono sempre di più, alla fine è tutto acquisito, tutto normale, è normale che sia così, così come è normale che si pensi che la guerra in Jugoslavia è un dato di fatto o è un qualcosa che accade. Senza considerare che una proposizione di questo genere può essere, se interrogata in termini radicali, come direbbe Wittgenstein, un non senso, cioè non significa niente. Qualcuno ancora più inferocito potrebbe dire che se io andassi in Jugoslavia, per esempio in Serbia, e gridassi: “viva la Croazia”, potrei anche finire ammazzato, e questo è un atto linguistico? Certamente sì, tutte queste considerazioni che vengono fatte sono costruite attraverso e da un sistema linguistico, che consente di fare tutte queste considerazioni, fuori da questa struttura non soltanto queste considerazioni non esisterebbero, ma non esisterebbe nemmeno la guerra in Jugoslavia, né qualunque altra cosa. Salvo il rimando, il rinvio fideistico ad esempio, alla cosa in sé, in ogni caso ad una sorta di quiddità, che di nuovo, per garantirsi, garantire la propria esistenza e tutto ciò che ne segue, deve porsi fuori dalla parola. Però io posso credere che qualcosa sia fuori dalla parola, ma se inizio a riflettere su questo, constato che affermare che un elemento, qualunque elemento è fuori dalla parola, formula un paradosso. Il paradosso per antonomasia. Ora a questo punto ciò con cui ho a che fare non sono cose in quanto tali, ma sono produzioni linguistiche o, se volete dirla più propriamente, stringhe di significanti che combinate in un certo modo producono, connesse con altre combinatorie, certi effetti di senso, indicavamo il senso in accezione molto letterale e cioè come la direzione che il discorso prende, qual è il senso di ciò che sto dicendo? È la direzione in cui ciò che sto dicendo mi sta portando, questo è il senso, non ce ne sono altri. Con questo giungiamo a considerare che avendo a che fare soltanto con atti linguistici, soltanto e inevitabilmente, posso considerare anche che questi atti linguistici producono, letteralmente, qualcosa, fanno qualcosa.

Viene da domandarsi se tutto il pensiero intorno alla realtà per esempio, la cosiddetta realtà, in qualche modo non proceda dalla considerazione che parlando effettivamente faccio qualcosa, cioè produco qualcosa, produco esattamente ciò che sto dicendo e ciò che sto dicendo non è eliminabile, perché si dice. Potremmo addirittura, ponendo la questione in termini radicali, dire che è tutto ciò di cui dispongo, non dispongo di nient’altro, se non ciò che dico e cioè ancora, ciò che si produce in ciò che dico. Ora, producendo qualche cosa mentre parlo, questo qualcosa che si produce me lo trovo di fronte, in un certo senso, è lì, se volete parlare di realtà forse è l’unica nozione che non sia immediatamente disfacibile, da qualunque serrata argomentazione, cioè l’unica realtà con cui ciascuno si confronta. Si confronta, cosa intendo dire? Che ciò che dice resta, resta come suono, come eco, come produzione letteralmente, parlando produco qualcosa. Produco intanto un suono, produco un’immagine, produco un pensiero, una infinità di cose. Produco soprattutto un discorso che mi consente di dire che una certa cosa esiste e l’altra no, anche questa cosa, che non è da poco, e poi infinite altre cose ovviamente. Ma che succede di fronte a questa produzione, queste parole, in definitiva una stringa di significanti, una sequenza di significanti? I quali, come ciascuno di voi sa, producono un senso e cioè di nuovo una direzione. I significanti accostandosi hanno (più che producono), si trovano presi in una direzione, la questione è stata poi utilizzata anche da Freud rispetto alla associazione libera, voi prendete un qualunque elemento, vi direte: che cosa mi fa venire in mente? Questo. E questo? quest’altro e questo... potete andare avanti all’infinito, vi stuferete molto prima. Ecco dicevo, questa successione è ciò che potete intendere come direzione del discorso. Quando vi domandate “che senso ha quello che sto facendo”? È sufficiente che riflettiate sulla direzione del discorso in cui vi trovate e avete immediatamente il senso, in accezione letterale: in che senso vai? di là. E qual è l’utilità di reperire la direzione? Intanto questa, che intendendo il senso come direzione si cessa almeno di cercare che cosa stia dietro, per esempio, a ciò che faccio, a ciò che penso, a ciò che dico, dietro, di fianco, davanti a seconda delle teorie psicanalitiche, cioè in altri termini di una giustificazione del senso, in questo caso del senso come giustificazione, ciò che rende giustizia, Per esempio un lapsus può essere giustificato in mille modi e reso giusto, ma questi mille modi spiegano il lapsus oppure semplicemente sono una direzione che il discorso ha preso al momento in cui vi siete soffermati a riflettere sul lapsus, perché c’è l’eventualità che non spieghino affatto il lapsus, a meno che, come spiegazione, come interpretazione o una quantità di termini che possono essere utilizzati, non si intenda propriamente ciò che si accosta, e cioè un altro discorso che questo lapsus produce, che ha a che fare con il primo soltanto per un aggancio, questo secondo discorso non spiega nulla.

Dell’interpretazione avevamo detto tempo fa, della difficoltà di illustrare una nozione come questa, delle infinite aporie in cui incappa. Ma non è che ogni cosa sia ridotta ad atto linguistico, e che proprio per via del fatto che ciascun elemento è un atto linguistico che è possibile pensare anche questo, cioè che in questo modo si riduca ciascun elemento ad un atto linguistico, non è una riduzione, è che non può darsi altrimenti, però considerare ciascun elemento un atto linguistico, forse è il caso di riprendere questo aspetto, instaura immediatamente chiamiamola la “consapevolezza” dell’impossibilità di agganciare questo atto linguistico a qualcosa che è fuori dalla parola e quindi la consapevolezza ancora, che qualunque spiegazione, giustificazione o illustrazione io dia a un atto linguistico, sarà un altro atto linguistico, che non è né migliore né peggiore del primo, semplicemente un altro. Ora questo non comporta che ciascun atto linguistico equivalga o sia indifferentemente l’uno o l’altro, perché c’è una differenza enorme fra l’uno e l’altro, la stessa differenza che consente di parlare di atto linguistico, se tutto fosse indifferenziato (questa è un’altra di queste ipotesi impossibili) ovviamente non sarebbe possibile il linguaggio. Abbiamo evocato in varie circostanze la formulazione di De Saussure, nella lingua non vi sono se non differenze, di cui è anche fatto il linguaggio. Ora porre la psicanalisi in questi termini comporta un modo differente di approcciare il discorso, che anziché essere interpretato, ricondotto ad una giusta e corretta normale o consueta visione delle cose, consente invece di accorgersi che se ciascun elemento è un atto linguistico, allora la questione, qualunque questione mi si ponga o intervenga, si pone in un altro modo, in quanto il rinvio di fronte a una qualunque questione non è tanto a qualche cosa in quanto tale che può essere più o meno reperita, ma semplicemente a un altro discorso. Ora un discorso può fare paura, indubbiamente, ma questa paura sorge da ciò che si suppone possano essere gli effetti, oppure dalla supposizione che le cose siano proprio così, come il discorso illustra, ma le cose non sono così come il discorso illustra perché le cose non sono propriamente, e l’illustrazione di qualche cosa è un discorso che soltanto all’interno di un gioco linguistico illustra qualche cosa, ma fuori da questo gioco con queste regole, non fa assolutamente niente, e d’altra parte per quanto riguarda il primo aspetto, l’idea, cioè la paura per gli effetti che un discorso produce, questo accade, accade ma è possibile soltanto se le connessioni, le combinazioni che instaurano una connessione tra questo discorso e la paura rispetto a ciò che potrebbe scaturirne sono credute reali, inesorabili, necessarie. Come se si dicesse “ha detto così”, quindi necessariamente segue questo. No, questa connessione non è così necessaria. Il discorso, l’atto linguistico, ha la virtù di aprire infiniti altri discorsi e cioè di non avere nessuna possibile chiusura. Si tratta in definitiva di un esercizio, come dicevamo tempo fa, un esercizio a considerare le cose per ciò che non possono non essere, e che cosa non possono non essere? Atti linguistici, qualunque altra cosa possono benissimo non esserlo, è ovvio che questo discorso che vi sto facendo non definisce nessuno stato di cose, cioè le cose non stanno così come vi sto dicendo, è soltanto una esposizione frammentata di un gioco linguistico, che ha come regola quella di accogliere soltanto ciò che non può essere negato, per il solo fatto che stiamo parlando, tutto qui. Con questo tuttavia si aprono una serie infinita di altri elementi che occorre considerare, se prima dicevo dell’impossibilità di considerare necessaria, per esempio, una connessione tra una cosa e un’altra, faccio l’esempio più stupido, “se non riesco in una certa, cosa allora sono un fallito”, può essere magari una connessione ritenuta necessaria, non che uno si dica: questa connessione è necessaria, interviene da sé, per così dire, è qualcosa che si impone nel suo discorso. Allora difficilmente ci sono gli strumenti per mettere in gioco una inferenza di questo tipo, perché per la persona è assolutamente normale, naturale, ovvio, inevitabile che sia così, e tutto ciò che potrebbe alterare questo naturale ordine delle cose è assolutamente innaturale e abnorme e quindi rifiutato. Ora qui si innestano altri elementi, ma intanto atteniamoci al discorso in generale, e cioè a che cosa fa sì che sia possibile interrompere questa connessione o più propriamente la necessità, o l’idea meglio, della necessità di questa connessione, per esempio “se non riesco a fare questa cosa allora sono un disastro”. Di fronte a una affermazione del genere vi trovate di fronte a qualcosa che è molto fortemente mantenuto, con estremo rigore. Freud si era cimentato con questi aspetti, considerando come, per esempio, qualunque affermazione contraria fatta da altri ad una persona che afferma una cosa del genere, venga immediatamente rifiutata, supponendo che quell’altra persona o la stia prendendo in giro o, nella migliore delle ipotesi, non abbia capito niente. Ma perché questa persona è così fortemente agganciata all’idea della necessità di questa connessione?

Freud non ha trovato di meglio che pensare al tornaconto, cioè diceva : se una persona fa una cosa del genere evidentemente ha un buon motivo per farlo, ha un suo tornaconto, qualunque esso sia, però, visto che nessuno la costringe, se lo fa, ci sarà pure qualcosa che la muove, e questo qualcosa che la muove, non venendo da altri, dal cosiddetto mondo esterno, evidentemente viene da questa persona, potremmo dire più propriamente dal suo discorso, e cioè, come dicevamo prima, dalla direzione del suo discorso. In questo caso, questa inferenza è per lui, per questa persona, il senso. Esattamente il senso delle cose, l’unico possibile, fuori di qui le cose non hanno senso, e quindi sono rifiutate, sono respinte, appunto come senza senso. La questione è che ci si trova (per esempio nella pratica analitica) continuamente di fronte a strutture organizzate in questo modo, direi quasi che ciascuna struttura è organizzata in questo modo, dove il senso che si deve mantenere, deve eliminare qualunque altro elemento. In effetti può addirittura accadere di ascoltare che fuori da un certo modo di pensare, non c’è nessun senso, che la vita non ha senso. Questione straordinariamente diffusa, voi pensate alle affermazioni intorno al valore delle cose, o meglio ancora ai valori cosiddetti umani, oppure alla crisi dei valori, la gente non crede più e quindi è smarrita, sbattuta da una parte e dall’altra e cioè non trova più un senso, un senso in ciò che fa, un senso in ciò che dice, in ciò che pensa. Come se l’unico senso possibile fosse quello del credere, del credere nella necessità di una inferenza logica, da un elemento ad un altro: se questo allora quest’altro. Ciò che stiamo mano a mano elaborando e svolgendo è invece la considerazione della non necessità di tale inferenza e della sua assoluta arbitrarietà. E allora accade questo che di fronte a una qualunque affermazione, una persona sì, può anche accoglierne la responsabilità come una sua produzione, e a questo punto dire che anche questa connessione che fa, che è ritenuta necessaria, fa parte dei suoi pensieri e quindi si assume tutta la responsabilità, ma mostrando d’altra parte l’assoluta impossibilità ad alterare questa struttura, e da dove viene questa sorta di impossibilità? Da una superstizione, per cui se dico che se non riesco a fare una determinata cosa allora sono un inetto per esempio, questo in nessun modo può essere messo in gioco. Provate a considerarla in questo modo: “non sono capace di fare questa cosa”, poi anziché un segno di deduzione o di inferenza, mettete una barra, che divide, che separa inesorabilmente da quello che è comunemente inteso come il conseguente: “e quindi sono un inetto”. Provate a separare queste due cose. Poste insieme, cioè collocate all’interno di una inferenza dove una si pone come l’antecedente e l’altra il conseguente, formano una sorta di monoblocco, quasi inattaccabile, anche perché poi ciascuno se vuole trova tutte le giustificazioni a un’affermazione del genere, prove e controprove ne trova a bizzeffe, anche perché qualunque cosa può essere utilizzata come una prova oppure il contrario, a seconda delle condizioni. Dunque “non riesco a fare quella certa cosa” e il “e quindi” è sospeso, anzi è azzerato, poi di là c’è un’altra proposizione che afferma che “sono un inetto”, solo che la connessione tra i due è perduta, non c’è, non c’è in quanto è pensata come assolutamente arbitraria, cioè io stabilisco che se non riesco a fare quella cosa sono un inetto, però di per sé non significa assolutamente niente, e allora dunque non riesco a fare quella certa cosa. A questo punto avendo perduto il conseguente, perde molto della sua portata e anche della sua forza, e c’è l’eventualità che io possa trovarmi a considerare che, magari, le cose non sono proprio così, perché se non sono preso dalla fretta di dovere concludere “e quindi sono un inetto” posso anche eventualmente soffermarmi sulla considerazione circa l’essere o il non essere capaci di fare certe cose e che invece altre infinite cose sono capacissimo a farle e che in molte circostanze le ho fatte benissimo. Allora se questo antecedente è isolato ha una certa connotazione, può essere affrontato in un certo modo, se non è isolato e cioè se è saldamente vincolato al conseguente, allora no, allora inesorabilmente ogni volta che mi dirò che non sono capace di fare quella certa cosa, allora sono un inetto, e quindi tutto ciò che ne segue ovviamente. Vedete, è una struttura che è molto prossima a una regola retorica, quella che scompone una analogia laddove non la vuole accogliere. Come sapete l’analogia è fatta di due pezzi, il tema e il foro: A : B = C : D e quindi se questa certa cosa si è verificata in questo modo e ha avuto quelle conseguenze, allora anche quest’altra che si verifica in modo simile avrà delle conseguenze simili. Uno dei sistemi utilizzati dalla retorica è non accogliere questa l’analogia, e allora quella volta in quelle circostanze è accaduto questo, questa è un’altra circostanza e quindi non sappiamo affatto se accadrà una cosa del genere o il suo contrario o qualunque altra. Non è casuale che abbia svolti alcuni argomenti nelle conferenze tenute all’Araba Fenice proprio intorno alla retorica, dal momento che la retorica ha dovuto o voluto elaborare sistemi per smontare argomentazioni, per confutare affermazioni, i sistemi che ciascuno utilizza per compiere la stessa operazione, rispetto alle proprie affermazioni cioè le cose in cui crede, seguono un percorso che non è molto distante in definitiva, anzi direi che è lo stesso, gli strumenti linguistici sono quelli. Se io mi trovo di fronte a una mia affermazione “se non faccio questo allora sono un inetto” i modi per smontare una cosa del genere sono esattamente quelli utilizzati dalla retorica. Come se un giudice volesse affermare una cosa del genere e l’avvocato invece gli opponesse che non è affatto così, cioè che questa conseguenza non è dimostrabile, il conseguente non segue affatto all’antecedente, proprio per nulla, allora rimane antecedente, così di per sé, “non riesco a fare questa certa cosa”. Privato del conseguente cambia aspetto, può essere interrogato, se vincolato al conseguente no, costituisce una sorta di monoblocco, è come se uno in un processo accogliesse un’analogia, una volta che l’ha accolta il discorso segue necessariamente in quella direzione, con tutte le implicazioni e le conseguenze del caso. Divide et impera, diceva Tommaso, adesso non siamo obbligati a fare un’operazione del genere, ma compiere una sorta di esercizio. In definitiva possiamo anche chiamarlo così, rispetto al proprio discorso, certo non è semplicissimo, anzi in alcuni casi è molto difficile, molto difficile dal momento che ciò che ciascuno pensa, in molti casi non è riconosciuto come proprio pensiero ma come l’illustrazione di una realtà necessaria, immutabile, indipendente da me, e quindi non può nemmeno immaginare che forse invece lì c’è qualche elemento che questiona. Per questo si è sempre utilizzata la presenza in una psicanalisi di uno psicanalista, anziché farsi la psicanalisi da sé. L’autoanalisi incappa l’autoanalisi in molte difficoltà, in quanto gli strumenti di cui una persona dispone per affrontare le questioni sono fatti delle stesse questioni che deve affrontare, da qui qualche difficoltà proprio a considerarle delle questioni, anziché appunto dei fatti. Un fatto generalmente è considerato tale e quale, direi inaccessibile, una volta fatto. Allora ciò che andiamo chiamando La Sofistica non è altro che un esercizio, un esercizio volto a considerare il proprio discorso come ciascun discorso, in questo modo, e pertanto come sequenza di atti linguistici, commessi tra loro da inferenze arbitrarie, non necessarie. E questa arbitrarietà ovviamente non è che sia riconducibile tout-court a ciò che si intende con volontà, infatti uso poco questo termine perché è piuttosto ambiguo, significa un po’ tutto e niente. Piuttosto, è più interessante il termine responsabilità in quanto indica l’essere chiamati a rispondere a qualcosa che domanda nel proprio discorso. Ciascun elemento si pone come domanda, qualunque affermazione a questo punto nella Sofistica funziona così, qualunque elemento è una domanda, in quanto si pone nel dire e da quella posizione questiona. Cosa vuol dire che domanda? Vuol dire che apre, apre ad altro e quindi rinvia, rinvia necessariamente ad altro. Ora se qualunque affermazione io la pongo come una domanda il discorso cambia, cambia in quanto, anche se affermo (in tutto ciò che sto dicendo faccio continue affermazioni) ciascuna di queste affermazioni è tale non perché stabilisce come stanno le cose, ma è all’interno di un gioco. Sono le regole di un certo gioco linguistico che sto facendo che mi consente di affermare, fuori da questo gioco queste affermazioni non significano assolutamente niente. Allora dicevo un esercizio, un esercizio a considerare ciò che si dice come qualcosa che domanda, che continua a domandare, che questiona, che rinvia. Posta in questi termini non c’è una cosa più o meno degna di essere interrogata. Può essere, potremmo dirla così, in alcuni casi, forse più urgente affrontare alcune questioni, proprio perché legate a queste questioni ci sono altre che per esempio paralizzano, bloccano, paralizzano il discorso, lo arrestano.

A questo punto, un discorso che non può proseguire è come se si ponesse nei termini di colui che ha trovato l’ultima parola, quella definitiva, ha trovato dio. Cosa che in alcuni casi può anche funzionare, così uno si mette tranquillo, però in altri no, permane una sorta di inquietudine chiamiamola intellettuale, dove non ci si accontenta perché anche quest’ultima parola non si riesce ad acquietarla, continua ad interrogare, allora perché non prendere la cosa in termini radicali e portarla alle estreme conseguenze, accogliendo il fatto che ciascun elemento linguistico si pone come questione, interroga, interroga cioè domanda altro, domanda di aggiungere altro. Questione che può formularsi in modo esplicito nel domandarsi che cosa per esempio stia dicendo o facendo, dicendo una certa cosa, se abbiamo detto che dicendo già faccio qualche cosa, dico per l’appunto, ma una riflessione intorno al senso, alla direzione non è sempre facilissimo reperirla, anche perché questo senso non è un quid, è una sequenza di significanti. Intanto sentiamo se ci sono delle questioni.

- Intervento:... sulla genesi del linguaggio...

Potremmo dirla così: la difficoltà nel potere stabilire se il linguaggio, per esempio, si impari oppure no, in qualche modo comincia ad approcciare la questione che lei ha posta. Potremmo dire che non c’è modo di imparare propriamente, in quanto non è una acquisizione, immagazzinamento di nozioni che alla fine configurano il linguaggio in quanto tale, ci si trova, potremmo dirla così, ad un certo punto, ad usare qualche cosa...

- Intervento:...

Sì, una cosa alla volta, ora ho detto questo rispetto alla acquisizione del linguaggio, certo ci si chiede da dove viene il linguaggio, la sua genesi, il problema è che a questo punto io posso formulare una qualunque ipotesi, questa qualunque ipotesi avrà il valore di qualunque altra, cioè sarà assolutamente arbitraria, non dimostrabile, e quindi tutto sommato inutilizzabile, se non per chi ci crede ovviamente. E allora domandarsi da dove viene il linguaggio comporta che cosa? Che gli strumenti attraverso cui e per cui mi pongo questa domanda corrispondono esattamente al linguaggio. A questo punto sono preso in una sorta di rinvii e allora la domanda da dove viene il linguaggio non solo non ha risposta, c’è l’eventualità che non possa averla strutturalmente, perché vede, si tratterebbe di reperire quell’elemento che è fuori dal linguaggio in quanto potrebbe porsi come il primo elemento, ma come reperire un elemento fuori dal linguaggio, attraverso che cosa? Se è un elemento del linguaggio è già nel linguaggio, per questo c’è l’eventualità che questa domanda in qualche modo sia, diciamola così “proibita” dalla struttura del linguaggio, proibita in quanto non senso, in quanto comporterebbe, per una eventuale risposta, l’esistenza di un elemento fuori dalla parola, che per altro possa garantire della veridicità di queste affermazioni. Qual è l’ultima domanda? (...) In base ad una quantità di variabili che sono sterminate...

- Intervento:...

Di più, potrebbe spingersi ancora oltre, vada ancora oltre e cioè si chieda attraverso che cosa lei sta facendo queste riflessioni, che cosa le consente di fare queste riflessioni? Quale struttura? Quale organizzazione le consente di pensare una cosa del genere, di pensare la realtà, di pensare al pensiero, a ciò che più le piace. La premessa che facemmo all’inizio è esplicativa in questo senso, cioè se non si desse questo strumento, chiamiamolo linguaggio, tutto ciò in nessun modo potrebbe farsi, né potremmo pensare l’essere, né il non essere, né l’esistenza, né la sussistenza, nulla potrebbe porsi in nessun modo. Ora ciò che lei dice l’atto linguistico per via delle cose che penso, sì, anche e le cose che pensa sono altri atti linguistici, inesorabilmente, si trova in una catena di una combinatoria, da cui non c’è uscita, che però è anche la sua chance, perché tutto ciò che esiste, potremmo dirla così, in modo brutale, esiste perché c’è il linguaggio e quindi una occasione non da poco, ma se lei pensa, lei pensa con che cosa? Organizza il pensiero attraverso significanti, connessioni, inferenze, deduzioni ecc.

- Intervento:....

Diciamo che il linguaggio è la struttura che le stava consentendo un attimo fa di fare questa deduzione, in assenza non sarebbe stato possibile, poi possiamo anche definire il linguaggio ma rimane una definizione molto rozza, prima, definivo l’atto linguistico, come ciò attraverso cui gli umani possono dirsi tali. Che cosa mi consente di dire che sono un umano? Il fatto che esista un linguaggio che me lo fa fare, se no, non lo saprei mai...