2 settembre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Questa sera leggeremo l’Introduzione scritta da Severino. Il “realismo” è la prospettiva all’interno della quale scienza e tecnica anche oggi procedono. Non senza alcune spinte in direzione opposta, ad esempio la fisica quantistica di Heisenberg. Per il realismo il mondo esiste indipendentemente dalla conoscenza umana. È una prospettiva filosofica (in certo senso ereditata da alcune configurazioni storiche del senso comune). Adottando la quale, la tecno-scienza è oggi capace di trasformare radicalmente il mondo: più di qualsiasi altra forza che abbia tentato e tenti di farlo. Anche per questo motivo la filosofia del nostro tempo ha sempre più emarginato la prospettiva “idealistica” – per la quale, invece, il mondo, la natura, Dio stesso non sono indipendenti e separabili dalla conoscenza umana. E questa è la prima cosa che dice. Sin dall’inizio la filosofia intende il divenire come “unità di essere e di non essere”. Ciò che diviene, infatti, “è” sin tanto che è, ma nel proprio passato e nel proprio futuro “non è”, e quindi, come dice Platone, di esso non si può dire, separando il suo essere dal suo non essere, né soltanto che “è”, né soltanto che “non è” (Civitas, 479 e), ma è necessario dire che “insieme è e non è”, ossia è appunto “unità di essere e di non essere”. Al secondo paragrafo. Non ancora “padroneggiata” la natura è “tutta un limite alla libertà dell’uomo”; non soddisfatto, il bisogno è la natura non ancora padroneggiata. La libertà è appunto il superamento dei limiti. Ma – e qui ci si porta verso il “centro” del discorso – la libertà reale è il pensiero. La realtà a cui guardano le scienze, infatti, “non è tutta la realtà, e perciò è astratta. La concretezza, che è del tutto (ossia della totalità del reale), è nel pensiero stesso con cui (le scienze) guardano alla loro realtà”. La scienza, dice, è comunque astratta, si occupa di un aspetto particolare, non ha di mira il tutto. Il testo non sta ripetendo semplicemente e in modo generico il luogo comune per il quale esistono altre realtà oltre quella pensata dalla scienza, sì che il “tutto” è l’insieme delle varie forme di realtà. Il testo sta dicendo che il “tutto” (ossia il “concreto” rispetto al quale le parti sono un che di “astratto” – di astratto dal “tutto”) è il pensiero stesso co cui la scienza guarda la propria realtà e che tuttavia dalla scienza non viene mai guardato. Lui parla di pensiero. Con pensiero dobbiamo intendere l’atto di parola, il linguaggio. Quando parla del “tutto”, del concreto, ecc., sta parlando del linguaggio. Infatti non si tratta del pensiero che viene considerato dal sapere scientifico (scienza della psiche, della mente, ecc.) e che è a sua volta una parte astratta o una molteplicità di parti, ma si tratta del pensiero che è il tutto perché non esiste realtà, alla quale ci si voglia rivolgere, che non sia, appunto, ciò a cui ci si rivolge, cioè contenuto del pensiero, realtà pensata. Il pensiero che è il tutto concreto è l’“Io trascendentale”. “Io”, perché il pensiero è coscienza di sé; “trascendentale”, perché come coscienza di sé (“autocoscienza”) non può esserlo senza essere coscienza dell’altro da sé, del mondo, e cioè del “tutto”. L’“Io trascendentale” non è l’io di ognuno di noi, che è cosa tra le cose, ma è quello che, contenendo ogni cosa (quindi ogni io particolare), le trascende tutte. Qui avrete visto immediatamente che c’è Hegel. C’è l’Io e c’è il non-Io, cioè il mondo, soggetto e oggetto, e ovviamente sta dicendo che non c’è l’uno senza l’altro. L’autocoscienza non è altro che il rendersi conto che non c’è l’Io senza un qualche cosa che è il non-Io; il soggetto non può non rendersi conto che è soggetto in quanto c’è un oggetto, che gli si oppone. A questo punto il testo può affermare – appoggiandosi all’intero percorso del Sistema di logica (preparato soprattutto dalla Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916) – che il pensiero, così inteso, è il “centro in cui è il principio della vita, da cui ogni realtà germoglia” e che quindi è questo “centro”, questa radice dell’uomo, di cui la filosofia dell’attualismo è la consapevolezza, a porsi come la radice della volontà di padroneggiare la natura, cioè come la radice dell’anima stessa della scienza e della tecnica. La radice, dunque, è il pensiero. Tra poco ne parlerà in modo dettagliato, e parlerà anche e soprattutto della tecnica, perché distinguerà la tecnica, come poièsis, come produzione, come qualcosa che ha a che fare con l’autoctisi, con l’autoproduzione del pensiero, quindi, della parola, che non è la tecnica ingenua, particolaristica, per farla breve, non è la tecnologia. Occorrerà distinguere tra le due cose. D’altra parte, sin dalle prime righe della Teoria generale tale superamento si presenta unito (come si chiarisce nel paragrafo successivo) al principio, espresso da Berkeley, che “la realtà non è pensabile se non in relazione coll’attività pensante per cui è pensabile”; non semplicemente nel senso che la realtà sia qualcosa che può essere conosciuto, “percepito”(“oggetto possibile” del pensiero umano), ma nel senso che la realtà è l’“oggetto” “attuale” della “conoscenza”, o “percezione” – oggetto realissimo, che però non precede e non è indipendente dal pensiero che, qui ora, lo pensa. Un senso, questo dell’“attualità”, che, come Gentile rileva, Berkeley non riuscirà peraltro a tener fermo in modo coerente, perché “pur dicendo che esse est percipi, pur facendo coincidere la realtà con la percezione, distingue poi tra pensiero che pensa attualmente il mondo, e Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti” (Teoria generale, I, 2) – laddove, come nella Teoria generale Gentile si accinge a mostrare, il pensiero e sì assoluto ed eterno, ma è il pensiero che è immanente al divenire del mondo e alle singole menti: il pensiero che è il “tutto” e il “concreto” è appunto questo nostro attuale pensiero. Qui incominciamo a entrare nella questione. Il pensiero, che è qui e adesso, è il “tutto”, cioè è il linguaggio, è l’intero. Non c’è un pensiero di qualche cosa che non muova dall’intero, cioè: per astrarre qualche cosa, per astrarla in quanto tale, devo essere nel linguaggio, cioè deve esserci il “tutto”, deve esserci l’intero. Gentile pone questo intero come attuale, non è qualcosa che è fuori dell’atto, ma è l’atto stesso, è l’atto di pensiero. Nell’atto di pensare qualcosa, nell’atto in cui io penso, è presente il linguaggio in toto. Nella prima pagina della Teoria generale dello spirito si dice: “Berkeley moto felicemente osserva che di certo è facile immaginare uno scaffale di libri, un parco di alberi, ecc., senza nessuno che li percepisca; ma, in tal caso, tutto si riduce a formarsi nella mente certe idee, chiamate libri e alberi, tralasciando l’idea di chi li percepisce, senza che perciò venga realmente meno la mente che li percepisce: ossia quella stessa che immagina. In ogni caso, anche se immagino che non c’è nessuno che li vede, li sto pensando, li sto immaginando in quel momento. L’oggetto … quantunque pensato fuori d’ogni mente, è sempre mentale”. (Quando la scienza, adottando il realismo, o dichiarandosi realista, vuol essere filosofia, pensa la realtà tralasciando appunto il pensiero che la sta pensando, ossia la mente, intesa non come parte astratta, ma in senso trascendentale). Facendo propria questa tesi di Berkeley, che va maturando da Cartesio a Hegel, Gentile può affermare che il concetto di una realtà pensata come esistente al di fuori del pensiero, cioè pensata come non pensata, “è un concetto in se stesso contraddittorio”. Sarebbe un pensiero non pensato, e un pensiero non pensato è niente. Ma, subito dopo aver mostrato questa contraddizione, il testo introduce quello che va considerato come il tratto fondamentale dell’attualismo. Lo si troverà continuamente ribadito da Gentile. Ed è importante leggerlo accuratamente in questo suo pressoché primo presentarsi nella Teoria generale, nel breve paragrafo 3 del primo capitolo. Il testo si rivolge dapprima alla tesi berkleyana che, nonostante l’idealismo iniziale, afferma (pensa) l’esistenza di un Pensiero eterno e divino che presume di stare al di là del pensiero umano; ma subito il testo si sviluppa investendo e colpendo l’intera concezione realistica e quindi investendo tutte le forme metafisico-teologiche, cioè non solo quelle che son proprie del realismo. Affermando un Pensiero divino esistente al di là di quello umano, infatti, “riproduciamo … quella medesima situazione” in cui si vuol pensare una realtà come esistente al di fuori del pensiero. E il testo aggiunge il tratto complementare e decisivo, dicendo che la realtà affermata dal realismo come condizione del pensiero, posta prima di esso (“presupposto del pensiero”), è “realtà che non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero. Immagina una realtà identica a sé, fissa e immobile, della quale posso pensare tutto quello che voglio, ma la realtà è quella cosa lì, cioè, come dice giustamente, non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero. Realtà, concepita la quale, non sarà più possibile concepire il pensiero umano; poiché una realtà che, di fronte il pensiero, non cresca, non continui a realizzarsi, è una realtà la quale non si può concepire se non escludendo la possibilità di concepire questa presunta o apparente nuova realtà, che sarebbe poi il pensiero”. Questa realtà, immaginata tale e quale, non tiene conto del pensiero, che è un’altra realtà, una realtà che muta; quindi, questa realtà, immaginata immobile e identica a sé, già è astratta, è una realtà che non tiene conto di qualcosa che pure fa parte della realtà, e cioè il pensiero. Il testo che stiamo considerando afferma che la realtà, quale è concepita dal realismo, “non riceve incremento dallo sviluppo del pensiero”. Infatti la realtà è concepita dal realismo come indipendente dal pensiero, non prodotta da esso, sì che il pensiero, sviluppandosi e crescendo, la lascia essere così com’è, immutata. Il pensiero è pura contemplazione di ciò che è indifferente rispetto all’essere o non essere del contemplante, cioè rimane inalterato, rispetto a quanto va accadendo nel contemplare. Ma tutto questo implica che, una volta concepita così la realtà, “non sarà più possibile concepire il pensiero umano”, che invece è l’evidente sviluppo, la crescita evidente della realtà – della realtà che innanzitutto è realtà pensata, esperienza. Innanzitutto e, come Gentile sta per mostrare, esclusivamente. Tenendo ferma una realtà che non cresce con la crescita del pensiero, il realismo costringe dunque ad affermare (così conclude il testo) che il pensiero è una “presunta o apparente nuova realtà”, ossia che esso non produce alcuna novità reale, o ne produce una soltanto apparente. Se il pensiero, sviluppandosi, non incrementa la realtà posta al di fuori di esso, si deve cioè concludere che esso, propriamente, è niente – esso che, invece, nella stessa prospettiva che finisce col ridurlo a un niente, è la realtà originariamente evidente e innegabile. “Il pensiero antico aveva appunto questo difetto: di essere, rigorosamente pensato, niente”. Questa è la contraddizione fondamentale di ogni realismo. Se il pensiero non altera, non incrementa a realtà, ci sta dicendo, allora il pensiero è niente, non fa niente. È come se il pensiero non potesse fare nulla nei confronti della realtà, che è lì, immobile, eterna, e quindi il pensiero non fa nulla, non può produrre nulla, è assolutamente niente. Paragrafo 4. Gentile mostra che, ponendo il divenire come indipendente dal pensiero, si giunge all’assurda negazione dell’evidenza innegabile del divenire del pensiero; ma, facendo questo, egli non nega che il divenire sia quell’“unità di essere e di non essere”, quel passaggio “dal non essere all’essere” che i Greci portano alla luce una volta per tutte, bensì mostra che il divenire, così inteso, non può essere una realtà esterna e indipendente dal pensiero, ma deve coincidere con lo sviluppo stesso del pensiero, cioè dell’unità del pensare e della realtà pensata, ossia deve coincidere con il divenire dell’esperienza. Qui c’è una questione importante che soprattutto riguarda Severino. Come sapete, Severino nega il divenire, ma nega il divenire della realtà esterna. Infatti, accoglierà la tesi di Gentile, che parla del divenire, ma un divenire connesso con il pensiero. È il pensiero che muta, che costruisce, non ciò che è immaginato fuori del pensiero. Pensate all’esempio che faceva lui della legna che diventa cenere. Da ciò segue che l’unità del pensare e della realtà pensata è lo stesso prodursi della totalità della realtà – autocreazione: “autoctisi”, “autoconcetto”, lo chiama Gentile. Cioè: l’unità del pensare e della realtà pensata è sempre pensiero, è il prodursi della totalità della realtà. Il divenire del pensiero è l’autocreazione della totalità della realtà perché una qualsiasi realtà è immutabile (“almeno rispetto al pensiero che la pensa”), cioè rende impossibile il divenire del pensiero, ossia dell’“esperienza” innegabile del divenire – e pertanto tale realtà è impossibile. Secondo lui, la cosa innegabile è il divenire del pensiero, è il fatto di accorgersi di pensare: questa è la prima realtà innegabile (Cartesio: penso, dunque sono). Il discorso di Gentile va comunque inteso nel suo essere unito all’affermazione (preparata da Kant e dall’idealismo classico tedesco) del carattere trascendentale del pensiero: del carattere per il quale il pensiero è, sì, questo mio attuale pensare qui, ora; che però pensa (e quindi include) anche il passato e il passato più lontano, e il futuro, e il più lontano, sì che tale pensiero è un “ora” che non è chiuso tra il “prima” e il “poi”, ma include la totalità del tempo, e quindi è l’atto eterno il cui contenuto è il divenire, lo sviluppo reale. Qui c’è Hegel, naturalmente: il tempo come schisi, come taglio; il taglio tra il passato che non c’è più, e il futuro che non c’è ancora. Che cosa c’è? C’è l’atto, c’è il qui e adesso che connette questa idea del passato con l’idea del futuro, e che non è propriamente il presente, ma è l’atto, è l’attuale. E questo pensiero attuale pensa anche le altre menti e quindi è “me”, è l’“Io” – come abbiamo richiamato – non in quanto sia questo mio essere un io particolare, “empirico”, che esiste ed è pensato insieme agli altri oggetti, ma è l’“Io trascendentale”, che pensa anche quella natura, quell’ignoto, quel Dio, che il realismo vorrebbe pensare come esterni al pensiero, ma che non sono così esterni da non essere, appunto, pensati; e pertanto il pensiero è “intrascendibile”, ossia è, appunto, la totalità della realtà. Che è come dire che non c’è uscita dal linguaggio. In questo senso è intrascendibile: non si può trascendere il linguaggio, non si può andare oltre non c’è nulla oltre. Paragrafo 5. Si è detto che in Gentile il “pensiero” è la stessa “esperienza” autenticamente intesa e che essa, così intesa, è lo stesso fondamento ultimo dell’attualismo, la stessa “evidenza” originaria. La stessa esperienza, cioè: io mi esperisco in quanto parlante; posso esperirmi in quanto sono parlante. È questa l’esperienza originaria, l’esperienza che ciascuno non può non fare, se non questa, appunto, di esperirsi parlante, anche se magari non se ne accorge, però… … e diciamo che l’atto dell’esperienza veramente esiste, e questo esistente non è quello (astratto) che è nello spazio e nel tempo (e che è astratto perché è una parte del tutto), ma quello piuttosto dentro al quale hanno senso spazio e tempo, “non potendo essere esso stesso (cioè l’esistente che non è astratto, ma è l’“atto dell’esperienza”) contenuto dentro limiti di sorta”, ed essendo pertanto la totalità dell’esistente. Questo atto dell’esperienza, in effetti, è il tutto, non è qualcosa che è contenuto da qualche parte; potremmo dire che è ciò che consente l’idea che qualcosa sia contenuta in qualche cos’altro. La prima esperienza è che parlo. “Esperienza o pensiero (che è lo stesso), questo esiste”. Esiste l’“Io”, cioè l’“uomo” autenticamente inteso. Cioè, come parlante. L’esperienza è l’esistente innegabile… Qui esperienza è sempre da intendere con esperienza di essere parlanti: questo è innegabile. Sappiamo bene anche il perché, in quanto, per negarlo, devo confermarlo: non posso dire che non sono parante se non parlando. L’esperienza è l’esistente innegabile, il fondamento che, non avendo altro al di fuori di sé, essedo cioè il “tutto”, l’“infinito”, è il fondamento di se stesso. Questa è forse una delle migliori definizioni di linguaggio. Sì che, si dice nel passo che stiamo considerando, non potendo esistere alcun fondamento esterno all’esperienza (alcun Dio che, come “Ente” venga contrapposto, come nella “vecchia metafisica”, all’esistente e venga inteso come causa di quest’ultimo), il fondamento in base al quale l’esistente si sa è il fondamento stesso in base al quale l’esistente si fa e viene ad esistere. Esso è un prodursi, autofondazione, “autoctisi”. La ratio cognoscendi è la stessa ratio essendi: “l’essere del mio Io non è se non l’atto con cui affermo me stesso”. L’atto con cui dico “Io sono”. E questo esse è divenire, non il divenire presupposto all’esperienza, ma il divenire di essa. Per cui si può dire che essa, che è l’“Io”, l’autentica “persona”, “non sia mai, ma sia per essere”. Nel futuro che non è egli non può essere. Ma appunto questo è il suo essere: il suo non esser quel che sarà: l’attualità di questo non essere”: rispetto al futuro l’“Io” è nulla”. È nulla, perché è sempre un dover essere; se questo atto di pensiero è in divenire, se diviene continuamente, è sempre un dover essere. Heidegger direbbe un progetto, è sempre un progetto, quindi, non è mai propriamente “presente”; non c’è perché è sempre un dover essere. Anche questo è ripreso da Hegel, ricordate: il dover essere per cui non sono; se devo sempre essere altro, non sono mai. Infatti, dice, rispetto al futuro l’“Io” è nulla”, cioè, rispetto a questo dover essere: non ci sono in quanto proiettato – progetto gettato, diceva Heidegger. “L’Io è questo essere che non è; ma non essendo: questa realtà che annulla se stessa al paragone di una realtà che non è, e si pensa (e pertanto è attuale): una realtà che si nega nel proprio idealizzamento”, qualcosa che si nega nel proprio “slancio verso se stesso quale non si è e si vuol essere”: verso un ideale. “Io dunque, è vero, sono Io: ma sono quell’Io che non sono e mi fo”. Anche per l’attualismo, come per Hegel, questo “essere che non è” e che “è non essendo” è “contraddizione”: l’esistente può esistere solo come contraddizione. Paragrafo 6. Il Sistema di logica “comprende” la “logica dell’astratto” e la “logica del concreto”. Un apparente “dualismo” che può ingenerare equivoci, da cui Gentile mette peraltro continuamente in guardia. La logica dell’astratto – scrive – è infatti proprio “fondata su quel principio di identità, che l’idealismo moderno dopo Kant ha battuto in breccia come ripugnante all’essenza più profonda de pensiero”, che è divenire. Come può allora conciliarsi una logica dell’identità con una logica del divenire, quale appunto intende essere la logica del concreto? L’astratto è, sappiamo, l’oggetto; senza di cui non può esistere il soggetto (l’Io, il concetto), ma che è una parte, un “momento” del tutto in cui il soggetto consiste. La logica dell’astratto non è la logica realistica che concepisce astrattamente l’astratto… Ecco, qui Severino fa questa differenza tra l’astratto, che è inevitabile, e l’astratto dell’astratto, che immagina che l’astratto sia il tutto, il concreto. …e che supponendo l’oggetto come esterno e indipendente dal soggetto, si chiude essa stessa nella parte senza vederla come parte. La logica dell’astratto è invece quella che considera sì l’astratto, ma ne vede l’indissolubile unione col soggetto, cioè non concepisce l’astratto astrattamente; e quindi tale logica si sviluppa nella e come logica dl concreto, cioè del soggetto. Come diceva Hegel: il sillogismo formale è inevitabile, ma il sillogismo formale è un momento del sillogismo compiuto: è questo il suo fine. Il presupposto realistico è chiamato da Gentile anche “naturalismo” – la parla “natura” essendo da lui usata per indicare, oltre alla natura in senso proprio, anche Dio e il soggetto stesso, quando siano intesi come esterni all’attualità del pensiero. Ora, il pensiero, pensando l’oggetto, è negazione del suo essere non pensato – è negazione dell’essere, in quanto essere che non è pensato. Un pensiero, mentre pensa l’oggetto, è negazione del suo non essere pensato: se io penso l’oggetto non penso al pensiero. È essenzialmente negazione, cioè non a un certo punto, dopo che l’oggetto abbia già incominciato ad esistere prima di essere pensato: lo è originariamente – “negatività originaria”, appunto. se non fosse questa negatività, non “realizzerebbe se stesso”. Essa non nega dunque qualcosa che esiste, ma qualcosa che non esiste e che il pensiero realistico, falsamente, ritiene esistente. La negazione originaria è la prima negazione in Hegel, cioè, qualcosa che ha di fronte a sé il suo opponente, la sua negazione. Quindi, la sua negazione lo nega, ovviamente, e soltanto negandolo lo fa esistere: soltanto se qualcosa non è ciò che non è allora è quello che è. Il “naturalismo” è anch’esso pensiero, ma pensiero astratto dell’astratto: pensa l’oggetto (l’astratto) ma non pensa se stesso, non sa di esistere o non si crede essenziale per l’esistenza dell’oggetto. E, si è visto, la concezione naturalistica della realtà porta a ridurre a niente l’evidente e innegabile divenire del pensiero. La Logica è la teoria della struttura concreta dell’atto, ossia della “negatività originaria” dell’atto. La concezione naturalistica pensa che la natura sia quella che è qualunque cosa io ne pensi, mentre per Gentile no, la natura cambia in relazione a come io la penso. Poiché l’atto del pensiero è condizionato da alcuna realtà esterna e ad esso presupposta, non è condizionato nemmeno dalla realtà spazio-temporale, che è invece esso a includere, pensandola. Anche questo è importante. Questa realtà spazio-temporale non è presupposta, come invece fa la fisica che presuppone uno spazio e un tempo. In questo senso l’attualismo può intendere l’atto come “eterno” e “infinito”. Tuttavia non è l’eternità di un essere “immediato”, cioè non unito al non essere: è l’eternità del divenire dell’atto, ossia della “negatività originaria dell’atto che nega la natura per realizzare se stesso”. cioè: l’Io che nega il non-Io per potersi dire Io. Questa realizzazione di sé (autocreazione, autoctisi, autoconcetto – cioè il movimento che traccia il circolo) è l’originario divenire dell’atto, dove è impossibile – ripetiamo – che il divenire incominci da una natura non ancora pensata (cioè presupposta, come accade nello stesso pensiero hegeliano e nel “rude naturalismo evoluzionistico” e pervenga al pensiero che nega la natura. Che sia così in Hegel, non direi. Che inizi da una natura non ancora pensata: questa cosa non l’ho trovata propriamente in Hegel; quindi, è un po’ discutibile. Ciò significa che il divenire originario, costituito dalla negatività dell’atto, dev’essere completamente interno all’atto, sì che è l’atto a produrre quella natura che esso nega pensandola, a produrre l’errore che esso nega. Questa natura, che si oppone all’atto, è l‘atto stesso che la produce pensandola; quindi, una volta che ha pensato la natura, facendola esistere, la contrappone a sé; la contrappone a sé e negandola la conferma esistente. Come dire che produce lo stesso errore che nega.
Intervento: …
È l’atto che produce quella natura che nega pensandola. Quando penso alla natura la nego nel senso che la pongo come non-Io; quindi, la produco per negarla. Questo è interessante rispetto al funzionamento del linguaggio, perché dicendo una qualunque cosa io produco questa cosa, ma nell’atto del produrla la nego perché, dicendola, già è un’altra cosa; quindi, la produco e la nego, potremmo dire, simultaneamente: la faccio esistere in quanto negata. Il soggetto produce l’oggetto, ma deve negarlo per stabilirsi come soggetto; quindi, produce ciò stesso che gli consente di esistere, ma nel produrlo deve negarlo. Tuttavia questa negazione non ha come risultato una semplice soggettività senza mondo concreto: la negazione dell’errore ha come risultato il pensiero che pensa il mondo, cioè l’esperienza concreta: quell’unità di essere e non essere che è il divenire dell’esperienza. (Toccando il proprio inizio, il movimento del circolo produce la dimensione del movimento dell’esperienza). Creando il mondo, io lo creo realmente. Inoltre questo realizzare se stesso non è, daccapo, qualcosa di diverso dall’evidenza dell’atto del pensare (come invece accade nell’idealismo classico), ma è quell’attuale pensare sé, da parte del pensiero, che è, appunto, assolutamente evidente quando il pensiero, pensando l’oggetto, sa di pensarlo – il che accade sempre. È come dire che, pensando una qualunque cosa, io non faccio nient’altro che pensare il mio pensiero; non penso l’oggetto, non posso pensarlo, penso il pensiero. Questo è il senso più profondo dell’opera di Gentile. L’oggetto del pensiero non è il semplice oggetto, ma l’oggetto pensato e il pensiero, pensando l’oggetto, pensa se stesso. È impossibile pensare qualcosa “senza avere coscienza del pensiero onde io penso”. L’autocreazione è autocoscienza, e l’autocoscienza è autocreazione. E va anche detto che se, da un lato, il pensiero di qualcosa è sempre pensiero del pensiero, dall’altro lato il pensiero può pensare sé solo in quanto si distingue dall’altro da sé, e quindi il pensiero è, per un verso, distinto dall’altro da sé, per altro verso è la coscienza di questa distinzione, è l’unità del pensare e dell’essere. È una questione abbastanza complessa, perché dice che il pensiero è sempre pensiero del pensiero, ma dall’altro lato, dice, il pensiero può pensare sé solo se si distingue dall’altro da sé, cioè, il soggetto può dirsi soggetto in quanto si contrappone all’oggetto: quindi, dice, il pensiero è per un verso distinto dall’altro da sé, cioè dall’oggetto, e per altro verso è la coscienza di questa distinzione, il sapere di questa distinzione, il sapere di questa distanza. L’autocreazione che è autocoscienza non è dunque il risultato di un ragionamento,… Non è deducibile. …bensì è principio, evidenza e certezza originaria del divenire in cui il pensiero si pensa: “Mirate con fermo occhio a questa vera e concreta realtà che è il pensiero in atto; e la dialetticità del reale vi apparirà evidente e certa come certo ed evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa” – dove la “dialetticità” è appunto il divenire del pensiero in quanto creazione di se stesso (e dove il “mirar con fermo occhio” è il lasciare che l’evidenza e la certezza appaiano). Questa evidenza, questa vera e concreta realtà, è il pensiero in atto, cioè il fatto di sapere che sto pensando o, più propriamente, sapere che sto parlando. Il divenire dell’esperienza è “slancio verso se stesso quale non si è e si vuol essere”, è “realtà che annulla se stessa”, dove l’Io (l’atto) “non è e non può essere nel futuro e tuttavia questo è il suo essere: il suo non essere quel che sarà”, “realtà che annulla se stessa al paragone di una realtà che non è” e verso cui l’Io si slancia, in uno “slancio verso se stesso”. Sta dicendo che il divenire rispetto all’esperienza - che è l’unico divenire in quanto non c’è un divenire estrinseco delle cose – è uno slancio verso se stesso quale non si è e si vuol essere. È lo slancio del dire verso il detto, per cui questo dire è sempre un dover essere; infatti, ha bisogno di altro dire per significarsi, così come il significante ha bisogno del significato. Potremmo vederla così, come lo slancio del significante verso il significato. Ma, slanciandosi verso il significato, il significante si annulla, perché non è più significante, è diventato significato; ma in quanto significato non è nient’altro che ciò che il significante doveva essere, che però non è, non è più, perché, tornando significante, rimette in moto lo stesso meccanismo. Da un lato, il pensiero, creando se stesso, annulla l’errore di una natura sognata come indipendente dal pensiero, dall’altro lato il pensiero, come esperienza, è l’incessante annullamento del proprio contenuto per essere nel futuro, ossia è l’essere di questo incessante non essere se stesso. Queste due forme dell’unità dell’essere e del non essere vanno distinte; ma sono anche essenzialmente unite; come l’evidenza dell’una è essenzialmente unità all’evidenza dell’altra. Era molto chiaro l’esempio che faceva Hegel rispetto all’essere e al non essere: l’essere è quello che è in virtù del non essere, ma questo non essere deve scomparire, cioè ritorna sull’essere e solo a questo punto l’essere è effettivamente quello che è. Insistendo sull’unità di quelle due forme si può aggiungere: l’autoctisi è “essere che non è e non essere che è” perché l’atto del pensiero, creandosi, esce dal proprio non essere ed è questo suo non essere… Creandosi il pensiero è linguaggio. Creando un dire esce dal non essere. Ciò che dico è quello che è in quanto non è ciò che è. Come dire ancora, è soltanto se ciò che dico si annulla o, potremmo anche dire, scivola sotto verso ciò cui tende, e quindi scompare, solo a questo punto qualcosa si è creato. Forse qui occorrerebbe dire qualcosa di più: il linguaggio, la parola, autoproducendosi si nega e quindi mostra al tempo stesso di essere e di non essere, che è in quanto non è. Com’è il significante? È in quanto non è significante, perché se fosse solo significante senza il significato sarebbe nulla, e viceversa. …non nel senso che essere e non essere siano immediatamente identici, ma nel senso che l’essere non è un puro essere che escluda da sé il non essere da cui invece esso esce – ed è un eterno uscire. Il linguaggio non si ferma. Ma questo eterno realizzare se stesso (questo senso dell’unità di essere e non essere) realizza sé come “slancio”, processo, tempo, storia, ossia come l’altro senso dell’unità dell’essere e del non essere (che peraltro è il primo in cui ci siamo imbattuti in queste nostre riflessioni). Producendo sé, l’atto si produce cioè come produzione e annullamento di sé in quanto mondo. Qui è come se ci mostrasse la creazione del mondo. Crea il mondo, crea qualcosa d’altro da sé; propriamente non è altro che il suo significato, ma questo suo significato è ciò che appare, diciamola così, al soggetto come l’oggetto, quindi, come il mondo. Questo altro da me, che si crea nel momento in cui creo “me”, diventa il mondo, diventa cioè quello che è poi considerato l’estrinseco, il mondo esterno. Il prodursi dell’atto non annulla se stesso, ma, appunto, si crea – e come “negatività originaria” mostra la nullità della natura esterna, ossia pone come nulla il proprio altro; ma l’atto, in quanto prodotto del prodursi, è creazione che annulla continuamente ciò che essa produce (“realtà che annulla se stessa”). Mano a mano che il dire procede, sì, certo, crea quella cosa che noi chiamiamo realtà esterna, ma al tempo stesso, dice, mostra la nullità della natura esterna, ossia pone come nulla il proprio altro, altrimenti l’oggetto sarebbe tutt’uno con il soggetto, non ci sarebbe più nessuna distinzione, sarebbe tolta la distanza, e quindi il linguaggio cesserebbe. Questa distanza deve permanere. Dice che la realtà annulla se stessa: crea la realtà per annullarla. Perché? Perché per potere porsi deve annullarla, deve crearla e annullarla; così come il significante, che deve avere il significato e annullarlo per potere essere significante. Paragrafo 7. L’attualismo mostra invece che, poiché è impossibile che esista una realtà esterna al pensiero, ad esso presupposta (giacché essa sarebbe un immutabile che rende impossibile il divenire, la libertà del pensiero), il pensiero esiste solo in quanto produce, “pone” se stesso (è “autoctisi”); e questo produrre non è qualcosa che agisca alle spalle dell’atto in cui il pensiero si pensa, bensì coincide con quest’atto. Ponendo sé, essendo cioè un Io, il pensiero pone il non-Io anche perché soltanto opponendosi al non-Io, distinguendosi dal non-Io, il pensiero può essere e pensarsi come Io, Soggetto. Soltanto ponendo questo non-Io posso pensarmi come Io. Ponendo il non-Io, l’Io pone un “limite” a se stesso, e “non può farne a meno; ma non lo pone senza superarlo”, perché per l’Io “autolimitarsi è il solo modo di infinitizzarsi”. Soltanto se mi pongo un limite posso pensare l’infinito. Per pensare l’infinito occorre pensarlo come finito; devo porre un limite per potere pensare che questo limite sia superato. Propriamente: l’atto dell’Io include nel proprio contenuto lo spazio e il tempo; quindi è “eterno”; ma questo atto eterno ha come contenuto, da lui prodotto, il divenire, che non sarebbe tale se superasse il limite una volta per tutte e si arrestasse e diventasse un che di immutabile, cioè una di quelle realtà (o “fatti”) che rendono impossibile divenire. Come se fosse l‘infinito che rimane quello che è; a questo punto non è più oltrepassabile, quindi, non c’è più divenire, è diventato immutabile. Che dunque non resta negato, soltanto se il divenuto non è tutto ciò che può e deve divenire reale – come invece, sia pure sul piano categoriale e non su quello delle determinazioni empirico-contingenti, accade nel risultato della dialettica hegeliana – e quindi soltanto se il divenuto è un contenuto limitato, che però, qualsiasi esso sia, ogni volta è superato; e così via all’infinito, in un processo dove, appunto, l’“autolimitarsi” dell’Io è il suo “infinitizzarsi”. Di qui le affermazioni di Gentile, che anche in questo testo della Filosofia dell’arte suonano con un timbro tipicamente fichtiano, ma il cui senso e fondamento è del tutto diverso da quello ad esse assegnato da Fichte: per la vita essenziale dello spirito, “tutto quello che in ogni momento può dirsi compiuto, non è nulla rispetto a quello che rimane da compiere… … Gentile afferma sì che “nel fuoco del pensiero che incenerisce il suo combustibile … il combustibile, non per anco cenere, è momento essenziale, ineliminabile” (Sistema di logica). Ma ciò non significa che il non-Io (l’oggetto), permanga indefinitamente nella sua irriducibile opposizione al pensiero, indipendente dal pensiero che ha il compito mai portato a termine di superare l’opposizione, come Fichte ritiene. Significa invece che “la verità non può mai esser altro che tutta la verità”,… Mentre per Fichte si tratta di un processo verso la verità, per cui quando tutto sarà compiuto, cioè quando l’Io avrà conosciuto tutto il non-Io… Solo che non si accorge che l’Io, per potere esistere, ha bisogno del non-Io, e quindi se elimina il non-Io elimina anche se stesso. …cioè il “concreto”, e quindi include, come negato, il pensiero astratto, ossia il pensare l’oggetto nel suo essere opposto al pensare. Sono sempre presenti, non si possono togliere. Tale astratto pensare è l’errore che si ferma al “convincimento che questo astratto (cioè il contenuto dell’astratto pensare) sia il vero concreto”, e dove il pensare si limita a rispecchiare l’oggetto, inteso (da tale pensare) come indipendente ed esterno al pensare. … Essenziale e ineliminabile, il combustibile… Il combustibile è l‘oggetto rispetto al soggetto. …perché, si è visto, l’astratto che è momento e grado del concreto non può esser combusto una volta per tutte… Non possiamo togliere l’astratto perché l’astratto è ciò con cui pensiamo, per dirla con Hegel, è il sillogismo formale che di per sé è una sciocchezza, ma non possiamo pensare se non in quel modo. Possiamo rendercene conto, certo, ma non possiamo non utilizzarlo, anche qui continuamente, non fa altro che fare sillogismi, tutti sillogismi formali, naturalmente. Non può non farlo. …ogni volta che l’astratto è superato nel concreto, il risultato si presenta pertanto a sua volta come un astratto (un “fatto”, un’”immediatezza) che deve essere a sua volta superato in una nuova configurazione della concretezza. La lampada che è sul tavolo: quando io la considero è astratta, ma astraendola è già inserita in un altro concreto, è già inserita in un’altra storia, in un altro racconto, e non può non esserlo, perché sennò quella lampada non esisterebbe.