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2 agosto 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Aristotele sempre più si avvicina a questa idea del movimento che, come abbiamo visto già con Zenone, è quella cosa che quando devo determinarla, scompare. E, allora, come la determiniamo? Ciò che determino è un’altra cosa, determino dei punti, ma non il movimento. Un po’ come dicevamo riguardo a Fredegiso di Tours: il nulla, se ne parlo, se lo penso, non è più il nulla, scompare anche lui. Questo ci rimanda alla questione importante, che Aristotele sottolinea: la questione della στέρησις, della mancanza. Siamo a pag. 342. Aristotele non si soddisfa facilmente delle risposte e va a cercare tutte le possibili obiezioni che possono venirgli rivolte; tenta comunque sempre di precisare il più possibile. Precisiamo più nel dettaglio l’analisi svolta nel capitolo 2. Ciò che è stato spiegato tramite le precedenti determinazioni categoriali di έτερότης (alterità), άνισότης (differenza), μή ὅν (non essere) definisce un ente che, in base a tali determinazioni, in senso proprio non è necessariamente in movimento: un ente definito tramite l’essere-altro può in verità essere un ente-mosso, però le asserzioni ἕτερον, άνισον, μή ὅν, in quanto tali, non determinano l’ente dal punto di vista del suo essere in movimento. Nella definizione bisogna mettere in risalto quei caratteri ontologici che sono in grado di determinare l’ente che intendono come un ente che deve necessariamente essere colto in tali caratteri in quanto trovantesi in movimento. È il movimento che Aristotele vuole conoscere. Έτερότης e άνισότης non soddisfano questa definizione. Molti che ci si fanno incontro nel mondo ci sono dati come altri, ma non per questo sono in movimento. Io stesso sono un ἕτερον, un “altro” rispetto a un cane – ma tramite questo essere – ἕτερον non sono necessariamente in movimento. Inoltre, il numero 10 è ineguale al numero 5 – tuttavia questo essere-ineguali non significa che essi siano in movimento o che tra di essi sussista un movimento. Ora, si potrebbe dire: la έτερότης (alterità) non è intesa così, anzi viene concepita come una determinazione dell’ente stesso, sicché l’essere-altro è implicito nell’ente come tale, nel senso che un ente ha in sé la possibilità di essere “da… a…”, cioè di essere caratterizzato in riferimento a una determinazione tramite l’assenza di questa stessa determinazione. In tal caso la έτερότης non determinerebbe forse pur sempre l’essere in quanto “essere in movimento”? In un ente che possiede diverse determinazioni, queste ultime sono differenti le une dalle altre, ma ciò non comporta di per sé che tale ente sia in movimento. Un ente può avere tante determinazioni ma rimane fermo, fisso lì dov’è. Nel senso di Aristotele, si può dire: un ente è determinato, da un lato, in quanto έντελέχειᾳ - il legno è attualmente presente in quanto legno -, dall’altro lato è ancora qualcos’altro, nella misura in cui è δύναμει – il legno può essere un cofanetto. Il legno è legno, ma può essere anche altre cose. Ciò costituisce una determinazione positiva dell’ente in quanto tale, eppure, benché l’alterità sia implicita nel legno stesso, esso non è necessariamente in movimento, ma è mosso solo quando questo δύναμει ὅν è attualmente presente. Quando questa potenza dell’ente è in atto. Vedete come procede Aristotele: procede per piccoli passi, considera tutte le possibilità, come se non si accontentasse mai. La έτερότης non basta. E si può addirittura interpretare la έτερότης nel senso dell’attivo: forse gli antichi hanno inteso l’essere-altro in quanto έτεροίωσις, “divenire altro”. In tal caso non v’è dubbio che la κίνησις sia definita tramite un movimento determinato, la έτεροίωσις, άλλοίωσις, ma allora il movimento risulta già presupposto. Nel divenire altro c’è già un movimento, ma è proprio il movimento ciò di cui vogliamo sapere, non vogliamo presupporlo. Insomma: in nessun caso la έτερότης assolve il compito di definire propriamente l’“ente in movimento”. Aristotele aveva già detto che non c’è il movimento, ma c’è un ente in movimento. Il movimento è qualcosa che io rilevo dall’essere un ente in movimento. Cosa che poi ha ripreso continuamente, come la questione della materia: non c’è la materia, c’è materia formata in qualche cosa, la materia in sé non la colgo mai. E così il movimento. Potremmo dire che il movimento è un’invenzione? Per il momento lasciamo la questione in sospeso. La determinazione della έτερότης non pone in evidenza la fondamentale prospettiva ontologica del presente, dell’essere attualmente presente e dello svanire del presente. Questa cosa è importante per Aristotele. L’essere attualmente presente di qualche cosa e poi il suo svanire dal presente: questo è il movimento, è il divenire. Questo non potersi avvicinare al fenomeno del movimento significa però nel contempo che tale teoria, per così dire, occulta la possibilità di vedere il movimento. Formalmente si può sempre dire: il divenire-altro implica un movimento, μεταβολή, e tale elemento costituisce il terreno per definire έτερότης questo modo di essere del movimento. Si tratta però di una definizione affrettata, che non tiene conto proprio del senso fondamentale. Che è quello del movimento. È come se dicesse: non dobbiamo accontentarci di tutto ciò che si dice del movimento a partire da qualche cosa che non è movimento, dobbiamo intendere che cos’è il movimento. c) Il motivo di questa definizione: l’άόριστον (indeterminato) del movimento. Gli antichi sono pervenuti solo a questa definizione particolare perché dicevano: il movimento è άόριστον. Posso determinare in modo adeguato una “indeterminatezza” solo se la definisco tramite una categoria che coglie l’indeterminatezza stessa. Quando determino il movimento, il movimento stesso cessa. È per questo che gli antichi ponevano il movimento come indeterminato, perché se lo determino non è più movimento; sono quei puntini, disegnati sul foglietto, che ci raccontano il movimento, ma che non sono il movimento. Esserci è esserci-finito nel proprio posto, limite. Se esso è mosso, allora è qualcosa che cambia il suo luogo, qualcosa che non è in nessun posto determinato. Se però definisco questo qualcosa che cambia costantemente luogo e, quindi, non rimane nel suo πέρας (limite), allora esso sta fermo, cioè non è più quell’indeterminato che non è al suo posto. Non lo posso definire tramite un πέρας, poiché a tale scopo devo prendere piuttosto le categorie dalla serie di quelle che definiscono l’indeterminato. Com’è noto, Platone e i pitagorici hanno stabilito un siffatto gruppo (διάγραμμα) di categorie, caratterizzato da due serie, nella prima delle quali si colloca la συστοιχία (permanenza) dell’εἶδος (forma). La forma permane, se voglio coglierla deve essere ferma. Il problema del movimento è un problema che non ha interessato particolarmente Platone. Per lui il movimento è un’idea, che di volta in volta si associa a qualche cosa, che allora diventa il movimento, ma il movimento in quanto tale è lassù, nell’iperuranio. …non bisogna dimenticare che la determinazione peculiare dell’ente è lo ἒν (uno). Il due segue in quanto “il diritto”, sicché il diritto, rispetto allo ἒν, è un indeterminato. Qui “diritto” è da intendersi come il contrapposto. C’è l’uno, che è quello che è, e poi c’è il due, che invece è l’indeterminato, i molti. Il capitolo 2 ha il compito di mostrare in che modo i tentativi di padroneggiare la κίνησιςÈ sempre questo ciò di cui si tratta. Heidegger non ci fa caso, però le parole che utilizza non sono del tutto casuali: padroneggiare la κίνησις, cioè, padroneggiare il movimento. Non lo posso padroneggiare perché se lo padroneggio non è più movimento ma un’altra cosa, e questo è un problema. Gli antichi lo avevano visto e, infatti, lo chiamavano άόριστον, l’indeterminato. …attuati fino a quel momento siano falliti, nella misura in cui coglievano sì determinati aspetti ontologici dell’ente-mosso, ma non il carattere fondamentale dell’ente in quanto mosso. Perché gli antichi cercarono di cogliere il movimento nel modo suddetto? Risposta: se il movimento si mostra come qualcosa di indeterminato, allora, se ciò che va colto è questo ente indeterminato, per definire tale ente in modo adeguato è necessario scegliere una categoria dell’indeterminatezza. Scegliamo una categoria dell’indeterminatezza e così determiniamo l’indeterminato. Ricorda un po’ il modo per risolvere il problema del limite. In base a questa riflessione si pervenne a concepire il movimento tramite categorie come la έτερότης (alterità), άνισότης (differenza), μή ὅν (non essere). Attraverso queste categorie, pensavano gli antichi, si dovrebbe determinare in qualche modo l’indeterminato. Ora, non v’è alcun dubbio che il μή ὅν, che a prima vista sembra il più lontano, in un certo senso torni a essere vicinissimo al movimento – sempre che si intenda il μή ὅν non come non esserci in assoluto, ma nel senso di un non-essere determinato. Sono tutti artifici che si inventavano – lo si fa ancora oggi – per determinare ciò che è indeterminabile. In effetti, come posso determinare qualche cosa che io stesso ho posto come indeterminato? O mi contraddico immediatamente oppure devo accogliere queste due cose – come farà Aristotele – come due momenti dello stesso, e allora ecco che la questione si dissolve, nel senso che ciascuno dei due coappartiene all’altro. Un passo avanti nella direzione di questo carattere dell’ente, se riferito a un altro ente presente nel mondo circostante, è stato compiuto da Platone nel Sofista, quando dice: anche il μή ὅν è in un certo senso un essere. Perché il non ente è pure qualcosa. Se dico niente, cioè non-ente, dico qualcosa, quindi, è. Ma la determinazione del μή ὅν così intesa – concepita anche in quanto anche στέρησις (mancanza) – non è comunque sufficiente, perché, se si volesse definire il movimento, allora bisognerebbe dire: tutto è in movimento, dal momento che ogni ente, in un senso particolare, non è, vale a dire non è l’altro ente con cui si trova a essere. Qui ha già colto il problema della separazione. Dice: in un senso particolare ciascun ente non è perché ha bisogno del non essere per poter essere. Però, se li tengo separati non riesco più a cogliere l’essere in quanto tale, perché comunque c’è un non essere da qualche parte. Il movimento si mostra per i greci in quanto άόριστον. In base al carattere peculiare dell’indeterminatezza del movimento si può comprendere che le categorie non si possono… in base a questo poter-essere in quanto μή ὅν, στέρησις – non si dà ancora necessariamente movimento. Non si può dire semplicemente: la κίνησις è tout court l’ἐνέργεια di un potente-essere. Un potente-essere non è mosso. Quindi, ancora non sappiamo che cos’è il movimento, anche se qua e là ci ha dato delle indicazioni. La κίνησις viene definita un “essere attualmente presente”. Il movimento è qualcosa che possiamo cogliere in quanto “adesso”, non posso cogliere un movimento passato né uno futuro, posso cogliere solo un movimento presente. Il potente-essere (il legno che giace lì davanti nella bottega del falegname), che è in lavorazione, “ci” è in quanto potente-essere proprio se e quando è messo in lavorazione. … Nell’“essere in lavorazione” l’“essere nella possibilità” perviene alla sua fine, ed è allora propriamente che è, appunto, poter-essere. Qui dice tra le righe una cosa che può sfuggire: nell’“essere in lavorazione” l’“essere nella possibilità” perviene alla sua fine, ed è allora propriamente che è, appunto, poter-essere. È quando giunge alla fine che c’è il poter-essere; non è che c’è il poter-essere e poi c’è l’essere. Tuttavia, in riferimento all’ἒργον della ποιησις (agire della produzione) esso non è finito. Nella misura in cui “essere”, in ultima analisi, significa “essere nella propria fine”, “trattenersi nella propria fine” in un senso definitivo (έντελέχειᾳ) Aristotele – parlando con la dovuta cautela – deve designare l’esserci dell’“ente in movimento” in quanto ἐνέργεια. L’νέργεια non è altro che l’essere in relazione di qualche che può essere in relazione, che è la δύναμις. La δύναμις è il poter essere in relazione, l’ἐνέργεια è ciò con cui è in relazione, l’έντελέχειᾳ è l’integrazione dei due. L’έντελέχειᾳ si produce dalla relazione, è la relazione che produce, produce le cose, letteralmente. Potremmo anche dire che le produce ex nihilo, dal nulla, ma non è così, perché le produce dal linguaggio.

Intervento: Che si producano dal nulla è come dire che stanno nell’iperuranio.

Qui c’è qualcosa di più. È come dire che le cose con cui abbiamo a che fare, quelle che abbiamo sottomano, cioè l’έντελέχειᾳ – è l’έντελέχειᾳ ciò che abbiamo sottomano – non è altro che la relazione tra δύναμις e ἐνέργεια. Quindi, le cose non sono altro che questa relazione tra δύναμις e ἐνέργεια. Viene qui in mente quella famosa definizione di oggetto di Hjelmslev, che definisce l’oggetto come l’intersezione di un fascio di relazioni. Qui, in effetti, l’έντελέχειᾳ, che è ciò che abbiamo sottomano, è una relazione. Quello che chiamiamo “cosa” è una relazione.

Intervento: …

Se pensiamo a δύναμις e ἐνέργεια nei termini più vicini a noi, e cioè di significante e significato, ecco che allora tutto diventa più chiaro, perché è per la relazione tra significante e significato – relazione indissolubile perché se non c’è l’uno non c’è neanche l’altro – che c’è la parola: la parola è relazione tra significante e significato. Il δυνατόν in quanto tale non è άτελής alla fine, ma vi è proprio tramite l’ἐνέργεια. Aristotele sottolinea che questo peculiare stato di fatto ontologico “è difficile d cogliersi, ma può essere”, e in effetti è, nella misura in cui vediamo qualcosa di mosso (richiamo primario alla έπαγωγή (induzione)). Lui si rende conto che è difficile da cogliere questa cosa, e cioè che soltanto a posteriori esiste ciò che è la condizione. Si presuppone che la condizione sia prima di ciò di cui è condizione; invece lui dice che non è così. Solo nel capitolo 3 l’autentica definizione e determinazione del movimento giunge alla meta. Fornisco anzitutto il contenuto del capitolo, la cui struttura non è del tutto perspicua. 202 a 13-21: tema: richiamo al carattere del muovere, cioè al presente di ciò che può essere mosso e di ciò che muove. Sappiamo che il movimento è presente, non posso vedere il movimento di ieri né quello di domani. Finora questa distinzione non era stata trattata tematicamente in modo esplicito. Si pone la domanda: dov’è il movimento? Il movimento è la determinazione di ciò che muove o di ciò che è mosso? La risposta suona: “l’uno e medesimo modo dell’essere attualmente presenti di entrambi”. Qui Aristotele ha inteso la questione della coappartenenza, della simultaneità dell’essere mosso e di ciò che muove, di δύναμις e di ἐνέργεια. 202 a 21-b 5: qui viene affrontata la difficoltà che emerge dalla seguente constatazione: il movimento è sempre movimento di un qualcosa di mosso, che viene mosso da un qualcos’altro che muove. Questa, dice, è una constatazione: se c’è movimento vuol dire che c’è qualcosa che muove. Il nesso ontologico di cui dico: “L’ente è in movimento” è determinato dalla categoria del πρός τίIl πρός τί è la relazione. Πρός τί, verso qualcosa. …cioè dell’“essere in relazione a un altro”. Il nesso ontologico è questo: la categoria del πρός τί, dell’essere in relazione ad altro: questo è il nesso ontologico tra ciò che muove e ciò che è mosso. Il movimento è questo: l’essere in relazione di qualcosa a qualche cos’altro. …appunto ciò che muove, che è caratterizzato dalla ποίησις (agire), mentre ciò che è mosso è caratterizzato dalla πάθησις (subire). Si danno quindi due modi dell’essere attualmente presente riferito al movimento: ποίησις e πάθησις. Nondimeno parliamo in sostanza sempre di “un” movimento, benché sussista comunque la possibilità di parlare secondo ciascuna delle due eventualità. Ne deriva un’άπορία λογική (impossibilità di andare avanti in un discorso), un “non poter passare nel rivolgersi a che si intende”. Ciò di cui si fa esperienza è un movimento, eppure al tempo stesso posso rivolgermi sia alla ποίησις che alla πάθησις. Aristotele discute a fondo questa aporia in 202 a 21-28, analizzando nel dettaglio tre possibilità: si chiede 1. se ποίησις e πάθησις siano presenti entrambe, assieme, nel πάσχον (oggetto mosso) e κινούμενον (oggetto che muove); 2. se la ποίησις sia la determinazione del κινοῦν, e la πάθησις la determinazione del κινούμενον; 3. Se sussista viceversa la possibilità che la ποίησις sia la determinazione del κινούμενον, e la πάθησις la determinazione del κινοῦν. /…/ la seconda possibilità – ποίησις nel κινοῦν (ciò che è mosso), πάθησις nel κινούμενον (ciò che muove) – viene assunta come positiva e discussa. 202 b 5-22: risoluzione della difficoltà. Il movimento è qualcosa che viene agito o che viene subito? In questo passo Aristotele fa notare che in effetti vi è un raddoppiamento della prospettiva, ma che permane l’identità dell’unico stato di fatto: “ente in movimento”. Si accorge che questo ente in movimento è uno, però è fatto di due momenti. 202 b 22-29: ricapitolazione dell’analisi e degli elementi secondari; nuova definizione del movimento, concepita in modo da includere le due precedentemente indicate. b) il πρός τί in quanto carattere dell’“essere nel mondo”, cioè, la relazione come il carattere dell’essere nel mondo. Come dire che la relazione è tutto, che qualunque cosa è relazione. Apprestiamoci a discutere i passaggi essenziali di questo capitolo. Ciò che importa è che riusciate a cogliere il contesto complessivo. Si sta rivolgendo ai suoi allievi. Per preparare la definizione del movimento, Aristotele, nel capitolo 1, aveva richiamato l’attenzione 1. sull’“essere attualmente presente” e sul “poter essere”, δύναμις - έντελέχειᾳ; 2. sui modi di incontro del mondo, le categorie. Tali categorie rendono manifesto l’ente stesso in quanto caratterizzato dal διχῶς (dualità): esso “ci” è nel poter-essere “da… a…”, ci si fa incontro in oscillazioni. Quindi, dice che bisogna tenere ben presente queste cose, e cioè il fatto che il movimento è presente, che è presente in quanto poter essere e in quanto έντελέχειᾳ, ciò che il poter essere è potuto essere, diciamola così. Finora abbiamo omesso una determinazione, e precisamente quella che Aristotele fornisce a partire da 200 b 28. Egli elenca anzitutto le categorie. (In Metafisica Κ 9, dove viene ripreso per intero il medesimo passo di Fisica Γ 1, manca proprio la parte da b 28 a b 32. Com’è noto, la paternità e il carattere aristotelici del libro K della Metafisica sono controversi, e Jaeger tenta di salvarlo contro Natorp). Dunque, all’atto di fornire la preparazione ontologica del movimento, dopo avere elencato le categorie, Aristotele riprende ancora una volta una categoria particolare, il πρός τί. Si accorge che è lì il nocciolo della questione. Questa accentuazione del πρός τί costituisce la preparazione ontologica per la discussione nel capitolo 3. La categoria del πρός τί significa che l’ente è determinato in quanto essere in relazione a un altro. Questo è ciò che caratterizza l’ente: l’essere in relazione a un altro. Tuttavia, in quanto essente in relazione a un altro, tale ente non può fornire la base per una nuova specie di movimento, dato che le quattro specie di movimento sono incluse nelle già elencate quattro categorie: all’ούσία corrisponde la modalità di movimento della γένεσις e della φθορά, al τόπος la φορά, al ποσόν la φθίσις, al ποιόν l’άλλοίωσις. Non vi sono altre specie di movimento: per una dimostrazione più dettagliata si veda il libro V della Fisica. L’esplicita adduzione del πρός τί deve avere quindi un altro senso:… Per Aristotele il πρός τί è sì qualcosa che riguarda anche queste cose, ma le riguarda di più. …non la prefigurazione della modalità d’incontro del mondo in un determinato movimento, bensì il carattere di ogni ente che è in movimento. È questo il carattere del πρός τί: è il carattere di ogni ente che è in movimento. Sta dicendo che ogni movimento non è altro che relazione; se non c’è relazione non c’è movimento. Il πρός τί caratterizza l’esserci del mondo nella sua molteplicità – molteplicità di enti in quanto essenti “in relazione l’uno all’altro”, πρός ἃλληλα (verso altri). Nelle Categorie il πρός τί è definito come segue: “Viene detto πρός τί, nel suo essere, tutto ciò che, essendo di volta in volta, è soltanto in relazione a qualcos’altro”. Così, ogni ἓξις (essere situato) è una ἓξις τίνός (essere situato verso qualcosa), per esempio ogni έπιστήμη, in quanto ente, è sempre έπιστήμη τίνός, έπιστήμη “di qualcosa”; non comprendo il carattere ontologico dell’έπιστήμη se non prendo in considerazione il “di che cosa”. Quindi, “ogni essere maggiore” è “maggiore di qualcosa”. Se qualcosa è, è qualcosa. Anche se usiamo il verbo essere nella sua forma esistenziale anziché quella copulativa – se dico “Cesare è” lo uso in forma esistenziale, se dico che “Cesare è un uomo” lo uso in forma copulativa, cioè metto insieme Cesare all’uomo – essere è sempre essere qualcosa. L’essere in quanto tale non significa niente, ma è sempre essere qualcosa. Il qualcosa è il modo in cui l’essere si dice, per cui ecco le categorie. Πρός τί in quanto determinazione dell’essere del mondo: πρός ἃλληλα (verso altri). Cioè, l’essere in relazione, potremmo dire, di tutto con tutto. Come caratteri del πρός τί Aristotele elenca i seguenti: “All’uno ci si rivolge in riferimento all’eccesso e al difetto, all’altro in quanto ποιετικόν e παθητικόν, l’ente nel senso del “darsi da fare attorno a qualcosa” e ciò con cui “uno che si dà da fare” si dà da fare”. Se un ente nel suo esserci è caratterizzato dalla ποίησις, ciò implica la compresenza di un ente che ha la determinazione di essere πάθησις. Dice che se un ente nel suo esserci è caratterizzato dal fare qualche cosa significa che qualche cos’altro patisce. Se io agisco qualche cos’altro patisce. Tutte queste cose, che a noi possono apparire anche banali, in realtà vanno sempre colte rispetto naturalmente al λόγος: è il dire che regge tutto quanto. Torno a dire che queste cose sembrano banali, ma lo diventano di meno quando accade di volere tenere conto del fatto che dicendo una cosa io ne sto dicendo un’altra. Dicendo dico altro; il significante, l’uno, dice i molti e non può non farlo, lo fa naturalmente svanendo. La mia parola dilegua, la mia parola dilegua nel detto; non c’è più la mia parola, c’è il detto, il quale a sua volta, naturalmente, diventa un dire qualche cosa, dire che di nuovo dilegua in un altro detto. È un po’ la storia di cui diceva Gentile, del pensiero pensante e del pensiero pensato, che riprenderemo a proposito del concetto di autoctisi, che letteralmente è l’autoporsi. In precedenza abbiamo richiamato l’attenzione sul fatto che nel mondo vi sono enti con cui abbiamo a che fare, ma anche uomini, nel senso che facciamo esperienza diretta della circostanza che gli enti, che così si presentano, vivono in un mondo. L’essere lì presente di un vivente è un “essere nel mondo” del vivente. Io stesso sono qualcosa che si presenta nel mondo, che si dà da fare con qualcosa – il che vale anche per l’animale che fugge da una minaccia, e così via. /…/ un ente siffatto è il vivente, che è caratterizzato da questa determinabilità, un trovarsi-situato: non limitarsi a essere lì presente con l’altro, bensì trattenersi presso l’altro, in virtù del trattenersi essere aperto per il mondo a partire da se stesso in quanto vivente. Ciascuno è lì presente, ma non è soltanto lì presente, è presente con un πάθος, con delle sensazioni, con delle emozioni, che sono quelle che lo situano: uno è situato dalle sue emozioni, sta bene o sta male. Sappiamo benissimo – Aristotele ce lo ha spiegato a lungo – che le emozioni sono sempre le stesse: soddisfazione e insoddisfazione.

Intervento: …

Questa cosa è utilizzabile per la volontà di potenza? Se sì è bene, se non lo è mi è indifferente, se contrasta la mia volontà di potenza è male. Tutte le emozioni sono modellate su questo, su ciò che mi utile, su ciò che mi è indifferente, su ciò che mi è nocivo, la famosa λύπη, il dispiacere, che è il contrario della soddisfazione. Il primario essere-aperto dell’uomo si fonda nel νούς (pensiero). Il νοεῖν, l’“opinare”, non è limitato, come l’αἴσθησις, a determinati ambiti ontologici, essendo infatti possibile anche per ciò che non è presente in carne e ossa. Il νούς ha questa virtù, che può rappresentare, può rendere presente ciò che non è immediatamente presente. L’αἴσθησις non può farlo, è la percezione, e io posso percepire qualcosa solo se è presente. Come il movimento, con lαἴσθησις non posso percepire il passato né il futuro; posso averne una rappresentazione, ma allora, direbbe Aristotele, non è più αἴσθησις ma è νούς, pensiero. Il νούς è sempre un νούς τῆς ψυχῆς (pensiero del vivente), un διανοεῖσθαι, un opinare qualcosa in quanto qualcosa. Quindi, il pensiero è sempre un opinare. Potremmo aggiungere che anche il pensiero logico, quello più strettamente logico, quello della logica formale, è sempre un opinare. Come l’αἴσθησις, per i greci, è un venire-riguardati dal mondo – qualcosa si dirige verso di me –… Questo è il modo di pensare dei greci: la percezione non era qualcosa di passivo, ma era la cosa che in qualche modo veniva verso di me, si faceva presente a me. …così anche il διανοεῖσθαι è un “percepire” – il mondo mi si fa incontro. Anche il percepire è un mondo che mi si fa incontro. Il νοεῖν è in un certo senso un πάθος, un venire-riguardati dal mondo. Il pensiero, l’attività del pensiero, è un πάθος, è un’emozione, il pensiero è emozione: è questo che ci sta dicendo? Parrebbe. L’“essere-così nel mondo” caratterizzato dall’essere-scoperto del νούς, è possibile solo in virtù del fatto che il mondo è in genere aperto, e che il νούς è determinato da un νούς che in genere scopre il mondo. Perché scopre il mondo? Perché in genere il νούς fa questo. Io posso opinare solo se il pensabile è in genere aperto. Il νούς παθητικός è possibile soltanto tramite il νούς ποιητικός, tramite un νοεῖν che scopre il mondo. Il νούς παθητικός, quello che recepisce qualche cosa, è possibile soltanto attraverso il νούς ποιητικός, il pensiero che opera, che agisce, che produce. Le determinazioni della ποίησις e della πάθησις affondano le proprie radici nel centro autentico della concezione greca del mondo e della vita. Ciò implica che qualsiasi comprensione di come abbiano concepito l’essere dipende da come si comprende la κίνησις. Il movimento è questo: qualcuno che subisce e un altro che agisce. La cosa interessante è che anche qui non si tratta di una dualità, perché i due momenti sono sempre compresenti, sono simultanei, si coappartengono.