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2 agosto 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 265. Punto b) – Il fenomeno originario della verità e la provenienza del concetto tradizionale di verità. Adesso parla della verità. È l’ultima parte della sezione sull’essere e non è casuale che riguardi la questione della verità. Ci sono delle questioni interessanti ma anche una questione che ad Heidegger è sfuggita e di cui parleremo tra poco. Esser-vero (verità) significa esser-scoprente. Vi rileggo la definizione che ha dato qualche riga prima e che abbiamo letta la volta scorsa. Che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso: enuncia, mostra, “lascia vedere” l’ente nel suo esser-scoperto. (pag. 264) L’esser vero di un’asserzione significa essere scoprente. Quindi, l’asserzione è vera in quanto scoprente di qualche cosa. Torniamo dove eravamo partiti. Ma non si tratta di una definizione della verità del tutto arbitraria? Può essere che ricorrendo a determinazioni concettuali così forzate si riesca a espellere l’idea di adeguazione dal concetto di verità. Vedremo che non è così semplice. Ma una così equivoca vittoria non sarà pagata al prezzo del ripudio della “buona” tradizione antica? In realtà questa definizione apparentemente arbitraria contiene null’altro che l’interpretazione necessaria di ciò che la tradizione più remota della filosofia antica ha intravisto e, prefenomenologicamente, anche compreso. L’esser-vero del λόγος in quanto άπόφανσις è l’άληϑεύιν nel modo dell’άποφαινεσϑαι: lasciar vedere l’ente nel suo non-esser-nascosto (esser-scoperto), facendolo uscire dal suo esser-nascosto. La άλήϑεια che nei passi da noi citati coincide per Aristotele con πράγμα, φαινόμενα, significa le “cose stesse”, ciò che si manifesta, l’ente nel come del suo esser-scoperto. Lui sottolinea non a caso questa affermazione perché l’ente nel “come” del suo esser scoperto significa già per Aristotele che non si scopre l’ente così com’è ma così come appare. La traduzione con la parola “verità” e, più ancora, le definizioni concettuali e teoretiche di questa espressione velano il senso di ciò che i greci posero “ovviamente” a base del significato di άλήϑεια muovendo dalla comprensione prefilosofica che ne avevano. (pagg. 265-266) Più avanti nella stessa pagina. Esser-vero in quanto esser-scoprente è un modo di essere dell’Esserci. Ciò che a sua volta rende possibile questo scoprire deve necessariamente essere detto “vero” in un senso ancor più originario. Solo i fondamenti ontologico-esistenziali dello scoprire mettono a nudo il fenomeno della verità più rigorosamente originario. Ora qui fa tutto un discorso che potremmo anche riassumere molto brevemente. Per Heidegger la verità, l’άλήϑεια, come l’esser scoperto di qualcosa, comporta che soltanto l’Esserci, nel momento in cui progetta, è gettato innanzi, soltanto a questa condizione intanto c’è l’essere e dirà anche c’è la verità. Tutte queste cose, senza l’Esserci, non esistono. Quindi, l’Esserci incontra la verità nel momento in cui, progettando qualche cosa, nel momento in cui si trova gettato nel progetto, incontra qualche cosa e questo incontrare qualche cosa, il manifestarsi di qualcosa, questa è la verità per Heidegger. Il vero è ciò che si manifesta per l’Esserci in quanto gettatezza; in questo essere gettato qualcosa appare e questo apparire di qualche cosa è la verità.

Intervento: Il vero è l’apparire, non la cosa.

Esattamente. C’è un’altra questione che riguarda la Cura. La Cura è il momento in cui l’Esserci, nella sua gettatezza, incontra, e quindi ha a che fare, con un utilizzabile, necessariamente, non può non avere a che fare con qualche cosa in questo essere gettato. Quindi, il prendersi cura è una delle condizioni della verità. In questo prendersi cura qualche cosa si manifesta, così come appare, e questo manifestarsi di qualcosa che appare è il vero. La cosa è vera ma è vera così come mi appare, non è vera per se stessa, è vera perché appare a me in questo modo, ed è vero che mi appare in questo modo. Questo è il vero, non è l’oggetto, non è la cosa. A pag. 271. L’Esserci non ha bisogno di portarsi in cospetto dell’ente stesso mediante un’esperienza “originaria”, e resta tuttavia in un rapporto di essere-per l’ente. Lo scoprimento, in larga misura, non è il prodotto di una scoperta rispettivamente propria, ma il frutto del sentito dire. L’immedesimazione con ciò che è detto è tipica del modo di essere del Si. L’espressione assume come tale il ruolo di essere-per l’ente scoperto nell’asserzione. Ma quando questo ente deve essere esplicitamente afferrato nel suo esser-scoperto… Quando non è più nella chiacchera. …nasce l’esigenza di giustificare l’asserzione in quanto scoprente. Ora, l’asserzione pronunciata è un utilizzabile tale che, in quanto custodente l’esser-scoperto, ha in se stesso un riferimento all’ente scoperto. Dice in quanto custodente, infatti, dicendolo lo custodisce, lo tiene insieme. Dice poi ha in se stesso un riferimento all’ente scoperto. Non soltanto lo custodisce ma ha un riferimento continuo con l’ente scoperto; una volta che l’ente scoperto appare, l’Esserci se ne prende cura, direbbe Heidegger, attraverso il λόγος , la parola, ovviamente. A pag. 271. L’esser-scoperto dell’ente e l’esser-espressa dell’asserzione cadono nel modo di essere dell’utilizzabile intramondano. Ciò che appare cadono nel modo di essere dell’utilizzabile, perché sono degli utilizzabili, una proposizione è un utilizzabile. Ma poiché nell’esser-scoperto in quanto ESSER-SCOPERTO DI… persiste un riferimento alla semplice-presenza, l’esser-scoperto (verità) diviene, da parte sua, una relazione semplicemente-presente fra due semplici-presenze (intellectus e res). Heidegger sembrerebbe porre qui l’esser-scoperto come una semplice presenza, però, pone questa questione per dirci che non è esattamente così. Infatti, a pag. 272, dice La verità è così esperita come semplice-presenza. Ma non è soltanto la verità ad essere incontrata come semplice-presenza, bensì la comprensione dell’essere in generale comprende innanzi tutto ogni ente come semplice-presenza. La riflessione ontologica più vicina sulla “verità” quale è innanzi tutto esperita in sede ontica intende il λόγος (asserzione) come λόγος τι νός (asserzione su…, scoprimento-di…) e interpreta questo fenomeno come semplice-presenza in vista del suo possibile carattere di semplice-presenzialità. Ma poiché la semplice-presenzialità è identificata senz’altro col senso dell’essere in generale, non è possibile neppure che nasca il problema se questo modo di essere della verità e la struttura della presenzialità che le viene innanzi tutto attribuita costituiscano o no un fenomeno originario. Questa comprensione dell’essere dell’Esserci, che si impone innanzi tutto e che a tutt’oggi non è ancora stata RADICALMENTE e ESPLICITAMENTE superata, nasconde il fenomeno originario della verità. L’idea che lo scoprimento appaia come semplice presenza, come sempre è accaduto, secondo Heidegger nasconde il fenomeno originario della verità, come dire che tutta la filosofia, prima di lui, non ha fatto altro che nascondere la verità. Quindi, tutto ciò che è stato detto intorno alla verità non è utilizzabile. Passiamo al punto c) – Il modo di essere della verità e la presupposizione della verità, a pag. 273. L’Esserci in quanto costituito dall’apertura, è essenzialmente nella verità. Dice che l’esserci è necessariamente nella verità, perché l’Esserci è l’apertura e nell’apertura, ovviamente, c’è lo scoprimento di qualche cosa, qualcosa appare in questa apertura e, difatti, un’apertura è sempre un’apertura “per”. Lo scoprimento stesso è la verità. Infatti, dice L’apertura è un modo di essere essenziale dell’Esserci. “C’è” verità solo perché e fintanto che l’Esserci è. La verità c’è a condizione che ci sia l’Esserci, non c’è una verità fuori dall’Esserci. Già da questo si può intendere le implicazioni di una cosa del genere. Infatti, dice Le leggi di Newton, il principio di non contraddizione, ogni verità in generale sono veri solo fintanto che l’Esserci è. Prima che l’Esserci, in generale, fosse e dopo che l’Esserci, in generale, non sarà più, non c’era e non ci sarà verità alcuna, poiché la verità, in quanto apertura, scoprimento ed esser-scoperto, non può essere senza che l’Esserci sia. È l’Esserci che scopre, ovviamente. Le leggi di Newton, prima della loro scoperta, non erano “vere”; ciò non significa che fossero false e neppure che se, onticamente, d’ora innanzi non fossero più oggetto di scoprimento, diverrebbero false. Tanto meno, poi, questa “restrizione” porta con sé una diminuzione dell’esser vere di queste “verità”. Che le leggi di Newton prima di lui non fossero né vere né false non significa che l’ente che esse, scoprendo, manifestano, non ci fosse prima. Le leggi divennero vere a opera di Newton e con esse divenne accessibile per l’Esserci l’ente in se stesso. In virtù del proprio scoprimento l’ente si rivelò come un ente che già prima era. Scoprire in questo senso è il modo di essere della “verità”. Cosa vuole dire tutto ciò? Che non è che non ci fossero le leggi di Newton prima dell’Esserci ma, una volta che l’Esserci c’è, allora nel momento in cui si scoprono queste cose diventano vere. Non sono le leggi in quanto tali che sono vere o false, non è questo il punto, ma è lo scoprimento di queste leggi che rende queste cose vere. Che ci siano verità “eterne” potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era e sarà per tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita, tale affermazione rimane una fantasticheria che non accresce il suo credito per il fatto d’essere generalmente “creduta” dai filosofi. (pagg. 273-274) È un po' ciò che dicevamo tempo fa, riprendendo anche qualcosa da Wittgenstein, vale a dire, il chiedersi se le cose sono esistite prima di me è una domanda che potrebbe essere un non senso. Cosa vuole dire che esistono prima di me? Vuole dire che esistono senza l’Esserci, ma per Heidegger questo non è possibile perché è l’Esserci, scoprente, che fa apparire queste cose, che le mostra. Tutto questo porta a una questione che lui affronta, e cioè l’idea che la verità sia qualcosa di presupposto. Perché noi dobbiamo presupporre che c’è verità? Che significa “presupporre”? che stanno a significare “dobbiamo” e “noi”? Che significa “c’è verità”? “Noi” presupponiamo la verità perché “noi”, essendo nel modo di essere dell’Esserci, siamo nella “verità”. “Noi” presupponiamo la verità non come qualcosa che stia “al di fuori” e “al di sopra” di noi e a cui ci rapporteremmo come ci rapportiamo ad altri “valori”. Non siamo noi a presupporre la “verità”, ma essa è ciò che rende ontologicamente possibile che noi possiamo esser siffatti da “presupporre” qualcosa. È la verità che rende possibile qualcosa come il presupporre. Quindi, anche il presupporre la verità. Teniamo conto che questa considerazione di Heidegger ha come obiettivo anche una obiezione alla metafisica, alla verità come veritas, ma è proprio così? Riesce in questa operazione? Intendo dire questo. C’è qualche cosa che, forse, Heidegger non ha pensato. La verità, dunque, come l’esser scoperto di qualcosa, qualcosa mi si scopre nel momento in cui me ne prendo cura. Ma queste affermazioni, queste proposizioni che dicono questa cosa, sono vere oppure no? Dicendo Heidegger queste cose è come se inevitabilmente dicesse che le cose stanno così e lui le sta descrivendo, quindi, la proposizione che le descrive è, molto tarskianamente, vera: “la neve è bianca” se e soltanto se è bianca. Quindi, queste proposizioni che dicono che la verità è uno scoprirsi di qualche cosa è vera se e soltanto se la verità è uno scoprimento di qualche cosa. Questa nozione di verità è la nozione di verità come adeguamento, adeguamento della parola alla cosa. Che cosa ci dice tutto questo, al di là del fatto che Heidegger non pensata una cosa del genere? Non ha pensato che ciò che cercava di cacciare fuori, e che gli era parso di averlo fatto con questa nozione di verità, ritorna nel fatto che lui è costretto a formulare delle proposizioni per dire questa cosa. Formulando delle proposizioni immagina che queste proposizioni siano vere, e cioè che ciò che descrive corrisponda a qualche cosa che accade: l’adeguamento della parola alla cosa. È possibile uscire da questo? Apparentemente no. In qualunque modo voglia porre la cosa, mi troverò sempre a descrivere un qualche cosa e a presupporre, in questo non nell’accezione di Heidegger ma nel senso di darlo per acquisito, che la mia descrizione sia vera, cioè, corrisponda a qualcosa. Questo qualcosa, in questo caso letteralmente, corrisponde alla mia proposizione, alla mia affermazione. Ma, dicevo, uscire da una cosa del genere è arduo, tuttavia, tutte queste descrizioni e definizioni comportano questo problema, che può essere riassunto così: che cosa garantisce che la descrizione descriva esattamente ciò che io penso di stare descrivendo? Queste descrizioni sono tutte risposte alla domanda “che cos’è?”, in questo caso “che cos’è la verità?”. Se si imposta così il problema, come d’altra parte ha fatto Heidegger, allora di fronte a questa domanda “che cos’è la verità?” è costretto a porre delle descrizioni che dicono che cosa sia la verità. Non importa il contenuto, cioè cosa per lui è, interessa soltanto che lui fa delle descrizioni intorno a questa cosa, della quale si è chiesto “che cos’è?”. Uscire da questo comporterebbe l’approcciare la questione non più chiedendosi “che cos’è?” e allora la questione potrebbe venire formulata così: non più la verità è questo, ma ciò che io chiamo “verità” interviene in ciò che dico in questo modo. Approcciando la questione in questo modo non mi trovo più nella necessità di dovere descrivere un qualche cosa e se lo faccio, questa descrizione non descrive un quid che è lì per essere descritto ma descrivo semplicemente il modo in cui io sto utilizzando una certa cosa. La verità è uno dei concetti più antichi e anche più complicati da trattare. Heidegger, nel momento in cui si chiede “che cos’è la verità?”, cade nella necessità di dovere porre delle proposizioni che dovrebbero essere vere, altrimenti la verità non è più quella che dice lui, è un’altra cosa.

Intervento: Nel momento in cui chiedo “che cos’è?” chiedo conto dell’essere di qualcosa. È come se la domanda “che cos’è?” fosse una domanda cartesiana, nel senso che questa cosa ha un essere che è fuori di me. Da una parte c’è il soggetto e dall’atra l’oggetto. Il vizio è nella domanda stessa. Nel momento stesso in cui domando “che cos’è?” io mi metto nella posizione del soggetto rispetto a un oggetto.

È per questo che dicevo che occorre un approccio differente, perché finché l’approccio è questo non c’è uscita. La domanda “che cos’è qualche cosa?” è la domanda fondamentale della volontà di potenza, cioè, voglio sapere che c’è per poterlo utilizzare, per poterlo manipolare, elaborare, ecc. Ma, ponendo la questione in quest’altro modo, cui accennavo prima, e cioè ponendo la verità, è di questa che stiamo parlando, come un qualche cosa di cui io, sì, parlo ma ne parlo dicendo che sto intendendo questo termine qui in questo modo. Tuttavia, la questione non è così semplice, perché anche in questo caso si potrebbe dire che per potere utilizzare questo termine “verità” devo comunque averlo in qualche modo definito, se lo voglio utilizzare. Anche se lo definisco io, a mio uso e consumo, tuttavia, deve essere un qualche che anche altri possano utilizzare, possano partecipare, perché se è solo mia e resta fra me e me e non me ne faccio nulla. Quindi, occorre trovare un qualche cosa che renda utilizzabile questo concetto di verità nella maniera più o meno comune, e cioè come adeguamento. Adeguamento, però, non più della parola alla cosa ma della parola a un’altra parola. Cerco di spiegarmi meglio. Supponiamo di porre la verità semplicemente come il porsi di un qualche cosa che non nega se stesso. Quindi, in questo caso l’esser vero di qualche cosa è ciò che si adegua a ciò che dice, non a qualche cosa ma a ciò stesso che dice. Naturalmente, anche in questo caso possono essere fatte delle obiezioni, cioè, io posso inventarmi un qualunque concetto di verità oppure dire che una cosa non nega se stessa, però, questa non è la verità. Quindi, questo non negare se stesso deve avere qualche altra caratteristica. Riprendiamo da lì: un’affermazione che afferma qualcosa e, quindi, non nega se stessa, cioè, dice che quello che afferma è quello che sta affermando. In che modo questo può essere utilizzabile? Il fatto di non negare se stesso è ciò che rende utilizzabile un qualche cosa perché, se una proposizione nega se stessa, questa proposizione non è utilizzabile. Quindi, per “verità”, perché sia un utilizzabile, occorre che dica che ciò che afferma non lo nega ma che ciò che sta affermando non nega neppure tutto ciò che ha portato a questa affermazione. Faccio un esempio. Quando affermo qualche cosa ciò che affermo non è che emerga dal nulla ma procede da una serie infinita di cose che io ho pensate, che altri hanno dette, ecc. Perché questa affermazione sia vera, allora, occorrerebbe che tutte le affermazioni che hanno portato a questa affermazione abbiano questa caratteristica, e cioè di affermare e non negare ciò che stanno affermando. Quando può avvenire una cosa del genere? Per esempio, quando affermo qualche cosa che i miei sensi negano, è il caso più semplice. In questo caso c’è una contraddizione perché questa proposizione dice di sé che è vera ma altre proposizioni dicono che non lo è. Come dirimere questa questione? Non credo che si tratti di stabilire se questa affermazione collima con ciò che i sensi esperiscono. Tempo fa parlavamo della verità come di un operatore deittico, di uno shifter, qualche cosa che indica che in una certa direzione si può andare, e si può andare perché questa proposizione non nega se stessa né nega la premessa, la sua condizione. Ora, come possiamo utilizzare tutto ciò? Abbiamo detto che posso proseguire perché ciò che affermo non nega la premessa da cui muove. La premessa, a sua volta, è stata accolta come vera per gli stessi motivi, e così via all’indietro. Lungo questa via è possibile giungere ad affermare qualcosa per cui si potrebbe essere certi che non nega la premessa e, quindi, consente di procedere. Però, non basta ancora. Sto cercando di vedere se c’è qualcosa di utilizzabile anche in ciò che diceva Heidegger. Potremmo dirla così. Il vero è ciò che non nega di apparirmi così come mi appare, qualunque cosa sia. In questo modo, in effetti, potremmo dire che Heidegger non aveva tutti i torti, anche se di nuovo ricadiamo nello stesso problema, e cioè: questa definizione è vera? E se noi non avessimo la necessità di stabilire un parametro che ci dica se una certa descrizione è vera, perché appunto non ci chiediamo più “che cos’è?”, ma come possiamo utilizzare un qualche cosa allo scopo di potere proseguire. Come utilizzare, dunque, la “verità”? Come ciò che è così come mi appare. È così che utilizzo la verità, anche perché, parlando, affermando qualcosa, è necessario che questo qualche cosa venga affermato affinché da lì io possa proseguire, e cioè che sia quello che sia. Il fatto che qualche cosa deve essere necessariamente quello che è per potere essere utilizzabile. Ecco, questa è la verità che utilizziamo: una qualunque cosa, per essere utilizzabile, deve essere quella che è; non è quella che è ma, per essere utilizzabile, dobbiamo porla così, come se fosse quella che è. Quindi, questa riferimento della verità non è più un qualche cosa che è da qualche altra parte ma la verità è “semplicemente” l’essere quello che è di qualche cosa per potere essere utilizzato. In questo modo, almeno apparentemente, la questione della verità potrebbe avere trovato una soluzione. Dico “apparentemente” perché sicuramente verranno in mente altre cose, però, almeno ci solleva dal problema in cui lo stesso Heidegger è caduto, del cartesianesimo, soggetto/oggetto, perché non sono più io soggetto, che peraltro Heidegger nega, che stabilisco quell’oggetto, ma sono io in quanto Esserci, e in questo siamo insieme a Heidegger, che accolgo ciò che si manifesta così com’è per quello che è. E lo accolgo così com’è non perché questa sia la verità, per Heidegger è la verità ma non basta, ma lo accolgo così com’è per poterlo utilizzare. Certo, lui dice che un utilizzabile è quella proposizione che dice dello scoprente, ma noi stiamo dicendo qualcosa di più, e cioè che questo utilizzabile è tale a condizione di essere la verità, cioè, di essere quello che è. La verità non può essere nient’altro che questo. Come diceva Parmenide, l’essere è l’essere e non è il non-essere.

Intervento: …

La chiacchiera non si pone mai una questione del genere, perché non pensa che la verità è in ciò che sta affermando, ma quella cosa è vera non rispetto a qualche altra cosa, ma è vera perché è un utilizzabile. Nietzsche che cosa direbbe? Che è vero, e ciò lo diceva chiaramente, ciò che è utilizzabile per il superpotenziamento. Noi ci siamo arrivati da un’altra parte, però, giungiamo comunque a questo, che è un altro modo per dire che per potere proseguire a dire devo fermare qualche cosa. Una volta fermato, una volta che io ho stabilito che è quello che è, allora posso utilizzarlo per agganciarmi ad altri elementi, quindi, costruire altre proposizioni, racconti, storie, tutto quello che vi pare. Tutto questo per Nietzsche non è che superpotenziamento. Quindi, a questo punto il vero è ciò che consente il superpotenziamento. Qualunque cosa, a questo punto, potrebbe servire per il superpotenziamento, ma dove sta la differenza? Nemmeno noi possiamo evitare il superpotenziamento ma possiamo pensarlo e, pensandolo, prendiamo atto che questo superpotenziamento intellettuale è dato dal trovarsi continuamente presi nella necessità di stabilire come vero qualcosa per potere costruire altre cose. In questo caso, come abbiamo detto altre volte, la differenza, che può apparire minima, è che noi lo sappiamo, sappiamo che cosa stiamo facendo. È un dettaglio ma può fare la differenza. Abbiamo detto varie volte che non c’è modo di uscire dalla volontà di potenza: se si parla è il linguaggio stesso che la costruisce, che è fatto di questo. Ha cercato la verità, da sempre, per poterla utilizzare come superpotenziamento, cioè come un qualche cosa di sicuro cui affidarsi per potere utilizzare, per esempio, contro il prossimo, per persuadere, ecc. In definitiva, anche in quel caso per proseguire a parlare, cioè, proseguire il potenziamento, da questo non c’è uscita. Come dicevamo tempo fa, non possiamo costruire una pars construens perché, come la costruiamo, si autodemolisce inesorabilmente. Una pars construens deve dire, deve affermare delle cose; affermandole deve fare i conti con il vero: ciò che afferma la pars construens è vero? C’è solo pars destruens che, procedendo, dice e dicendosi si distrugge, esattamente come Heidegger descrive l’essere: nel momento in cui l’ente appare, l’essere scompare, perché o c’è l’ente o c’è l’essere. Cosa che tra l’altro diceva de Saussure: quando c’è il significante il significato scompare, perché o c’è uno o c’è l’altro, c’è una barra che li divide. È anche per questo che Sini aveva accostato l’essere al significato: quando c’è il significato non c’è il significante, e viceversa. Potremmo dir meglio così: se appare un significante, se appare l’ente, l’essere è già svanito, il suo significato è già svanito in altri significati, in altre cose. A pag. 276. Uno scettico non può essere confutato, come non si può “dimostrare” l’essere della verità. Lo scettico, se è effettivamente nel modo della negazione della verità, non ha neppure bisogno di essere confutato. In quanto è e si è compreso in questo essere, esso ha dissolto l’Esserci, e con esso la verità, nella disperazione del suicidio. La verità non si può dimostrare nella sua necessità perché l’Esserci come tale non può sottoporsi a dimostrazione. Così come non è dimostrato che esistono “verità eterne”, altrettanto non lo è che sia mai “esistito realmente” uno scettico (il che, in fondo, credono le stesse confutazioni dello scetticismo, nonostante il loro assunto). … Accade così che il problema dell’essere della verità e della necessità di presupporla nonché il problema dell’essenza della conoscenza conducano all’ammissione di un “soggetto ideale”. A pag. 277. “C’è” essere, non ente, soltanto in quanto la verità è. Ed essa è soltanto in quanto e fintanto che l’Esserci è. Essere e verità “sono” cooriginari. Che cosa significhi l’affermazione che l’essere “è”, posto che l’essere debba esser distinto da ogni ente, può essere discusso concretamente solo se sono stati chiariti il senso dell’essere e la portata della comprensione dell’essere in generale. La risposta al problema del senso dell’essere manca ancora. In definitiva, tentando di dire che cos’è la verità si trova a dire che la verità c’è, però, non ci dice per quale motivo questa affermazione dovrebbe essere vera. Sì, certo, lui dice della verità in quanto scoprimento, ma perché dovrebbe essere così? Dire a questo punto che la verità “è” è una petizione di principio. Alla fine tutto questo percorso sull’essere che ha condotto alla questione della verità come la questione centrale di tutta la questione dell’essere, ma ciò che se ne dice è vero? Ecco la questione della verità, che è fondamentale, perché fino a quando non sappiamo che cos’è la verità qualunque affermazione che facciamo può essere sottoposta a delle obiezioni, si può sempre chiedere: puoi provare che è così? Così come dice lui: non si può provare l’esistenza dell’Esserci, l’Esserci c’è, così come la verità. Quindi, è come se tutta la questione rimanesse in sospeso, l’unica cosa cui giunge, dopo 277 pagine, è dire che la verità c’è. Ma c’è che cosa esattamente, a questo punto? Lo scoprimento? Sì, certo, qualche cosa si scopre, ma se la poniamo così come l’abbiamo posta, ha un senso, in quanto ciò che si scopre, l’ente, il significante, ciò che dico è quello che è ma allo scopo di poter proseguire, di poter essere utilizzato. Non è che c’è una verità di questa cosa, siamo noi che chiamiamo verità questa cosa qui, e cioè la necessità che una certa cosa sia quella che è per essere un utilizzabile. Siamo noi che chiamiamo questa cosa verità, non diciamo che la verità c’è, indichiamo con questo “verità”, perché è ciò che assomiglia di più a ciò che è sempre stato utilizzato con questo termine, da Parmenide in poi, ciò che è quello che è. Il problema è che è quello che è non per virtù propria, come è sempre stato pensato, ma perché io lo pongo così per poterlo utilizzare, solo per questo. La questione della verità è abbastanza complessa, non ha uscita, e non ha uscita perché va a scontrarsi, comunque e sempre, con qualcosa che è simile alla questione degli scettici, cioè, per dire che cos’è la verità occorre che ciò che ne dico sia vero. Ma come faccio a dire che è vero se ancora non so che cos’è la verità? Questo, generalmente, sbarra il passo a qualunque discussione successiva perché impone un circolo vizioso, da cui non si esce, e lui cerca di uscirne dicendo che c’è. Sì, c’è, ma perché? Chi l’ha detto che c’è? Lo dice Heidegger, benissimo, però, potrebbe non essere sufficiente. Non è che c’è la verità di per sé, ma c’è perché io dico che questa cosa qui la chiamo verità. Ponendo la cosa in questi termini, in effetti, si aggira la questione del “che cos’è?”, perché non si tratta più di stabilire che cos’è una certa cosa ma di intendere che, per potere utilizzare una certa cosa, devo porla in un certo modo. Dopo tutto questo percorso, la questione centrale, cui siamo giunti e a cui era necessario giungere, si è rivelata insoddisfacente, anche se tutte le cose che ha dette per arrivarci sono notevoli, ma quando arriva a quell’elemento che deve supportare tutto ciò che ha detto, ecco, lì c’è qualche vacillamento. Tutte le cose che dice Heidegger non sono interessanti perché mostra come stanno le cose, ma perché, e qui seguiamo in parte il suo messaggio, sono cose ancora da pensare, quindi, c’è l’invito a pensarle. È questo l’interessante. Non è che le cose stiano come dice lui: invita a pensare, ci indica che c’è ancora da pensare. È questo che fa e non è poco.