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2 giugno 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

Il lavoro che adesso stiamo facendo con Heidegger, che ci accompagna per un tratto, è un lavoro intorno alla nascita del pensiero così come lo conosciamo, ché il modo in cui pensiamo non è una cosa naturale, è una cosa costruita, è il risultato di millenni di lavoro. C’è un elemento importante che comporterà tra breve una direzione precisa. Ciò che da Platone, ma soprattutto da Aristotele è accaduto, è stato il tentativo poderoso, potente, di eliminare, di togliere di mezzo i presocratici. Quando Aristotele nella Metafisica, nel Libro Β, considera i presocratici, non lo fa per una storia della filosofia, non gliene poteva importare di meno della storia della filosofia, ma gli importava confutare le tesi dei presocratici, in particolare sofisti ed eleati. Perché? Ciò che è accaduto con Parmenide è stato che nel momento stesso in cui Parmenide ha posto la possibilità del pensiero, in quello stesso momento si è posta anche l’impossibilità del pensiero. Parmenide: l’essere è, il non essere non è. Perché l’essere sia occorre che il non essere non sia, cioè, l’essere è tale perché il non essere è stato tolto, ma per poterlo togliere occorreva che ci fosse. Questo è il primo problema. Gli eleati e i sofisti hanno mostrato fin da subito l’impossibilità del pensiero. Pensate a Zenone e al suo paradosso di Achille e la tartaruga, qual è il problema? Che Achille sorpassa la tartaruga, lo vedo, ma Achille non può raggiungere la tartaruga, e questo lo so attraverso il ragionamento. Infatti, lo spazio è infinitamente divisibile e pertanto dovrà percorrere infiniti spazi prima di arrivare alla tartaruga e, quindi, non la raggiungerà mai. Tuttavia, vedo che la raggiunge, ma so che non lo può fare. Questa è una delle spine nel fianco alla metafisica, una delle questioni che Aristotele nella Metafisica ha tentato di fronteggiare in qualche modo per porre un riparo, perché quello che è stato detto dagli eleati è che il pensiero, nel momento stesso in cui è stato posto, è impossibile. Pensate anche a Protagora, dice che l’uomo è misura di tutte le cose, πάντων χρημάτων μέτρον έστίν νθρωπος (pànton chremàton métron éstin ànthropos). Cosa vuole dire questo? Vuole dire che tutto ciò con cui abbiamo a che fare, tutti gli enti che ci circondano, li abbiamo fatti noi. Vedremo a suo tempo la parola μέτρον, che è tradotta con misura, ma Heidegger ci sta mostrando che spesse volte le parole greche hanno più significati di quanti generalmente si suppone. Il nostro lavoro, terminato questo, vedrà la lettura dell’intervista di Beaufret a Heidegger dove c’è una lunga disquisizione su Parmenide; poi, leggeremo la discussione tra Heidegger e Fink su Eraclito. Dopodiché incomincia il lavoro vero e proprio – queste sono solo le premesse – perché toccherà alla Metafisica di Aristotele, che leggeremo in un modo molto particolare. Dicevo prima del libro Β, dove Aristotele confuta o cerca di confutare i presocratici. Utilizzando il testo di Hermann Diels e Walter Kranz, andremo di volta in volta, dopo aver letto ciò che Aristotele dice di qualcuno, ai frammenti e alle testimonianze riportate di questo qualcuno, per vedere se è proprio così come dice Aristotele oppure no, o se Aristotele ha aggiustato le cose allo scopo di eliminare il pensiero dei presocratici, cosa che è molto probabile. Pensate al paradosso di Epimenide, Cretese, che dice tutti i Cretesi mentono. Famigerato paradosso, non ha soluzione, nonostante Bertrand Russell e la sua teoria dei tipi. Sapete che cos’è la teoria dei tipi? Un divieto, nient’altro che un divieto: il divieto di applicare all’enunciante l’enunciato: il detto non puoi applicarlo a ciò che stai dicendo, cioè, non puoi applicare ciò che dice Epimenide a lui stesso. È un divieto puro semplice: questa, ridotta all’osso, è la teoria dei tipi di Russell. Come quello di Parmenide: del non essere non ti occuperai. Non te ne occuperai perché se te ne occupi l’essere incomincia a vacillare. Stabilita la possibilità di pensare, cosa che ha fatto Parmenide, nello stesso momento si instaura la impossibilità di pensare, perché il pensiero si spalanca in una infinità di antinomie, di paradossi, di aporie, di impossibili. Ed è questo il momento che a noi interessa ripercorrere, il momento in cui la metafisica, cioè Aristotele, ha fatto di tutto per mettere a tacere i presocratici. C’è anche Democrito, ma quello è un altro discorso, lui è quello che più di tutti è stato messo a tacere. Si tratta di cogliere lì, in questo momento, il fondamento del pensiero così come dopo, da Aristotele in poi, si è costruito e che è quello che pratichiamo ancora oggi. Ma se considerassimo il pensiero nell’accezione che ci suggerisce Heidegger, e cioè come il domandare autentico, allora dovremmo dire che il pensiero nostro, quello attuale, nasce sulla cancellazione del pensiero inteso come autentico domandare. Potremmo anche dire che la filosofia nasce sulla cancellazione della filosofia, cioè sulla cancellazione dei presocratici. I quali non avevano, e questi paradossi lo testimoniano, separate le due cose. Ricordate Eraclito: Tutto è uno. Sono due cose, Tutto e uno, che non stanno insieme: l’uno è il determinato, il tutto no, il tutto è l’infinito, l’πείρων. Questo è il lavoro che ci attende: cogliere come il pensiero metafisico… Che è poi il pensiero di Aristotele, perché Platone è ancora lì, quasi sul crinale, già in Platone c’è il tentativo di dare un’impostazione sistematica al pensiero con il mito della caverna. Anche nel mito della caverna il sapere è già diventato un utilizzabile nei confronti di chi ancora non sa, per educarlo, istruirlo, ecc. È questo il punto di passaggio: il sapere diventa un utilizzabile anziché un domandare. Diventando un utilizzabile c’è stata la possibilità del pensiero scientifico, così come si è tramandato fino ad oggi. Quindi, leggeremo Diels-Kranz. Non lo leggeremo tutto, leggeremo ciò che ci interessa, in particolare Zenone, Protagora e Gorgia. Per conoscere invece Democrito bisognerebbe leggere il De rerum natura di Lucrezio, perché lì c’è la migliore trattazione del pensiero di Democrito o di quello che era rimasto. Qui, in ciò che stiamo leggendo di Heidegger, che legge Platone, la questione si pone già in questi termini, e cioè Heidegger ci mostra che la questione della verità e del falso, soprattutto nel Teeteto, sono ancora connesse intimamente, non sono ancora separate, così come accadrà con Aristotele. Aristotele è colui che ha sistematizzato attraverso le categorie, l’essere non è più qualcosa da interrogare, l’essere c’è e dobbiamo soltanto catalogare tutte le cose che possiamo dirne – i praedicamenta, le categorie sono i predicati, e il predicato è ciò che si dice di qualche cosa – ma l’essere c’è, possiamo soltanto vedere in quanti modi possiamo dirlo, ecc., con le categorie: sostanza, qualità, quantità, ecc. Però, l’essere c’è, non è già più una domanda ma diventa un’ipostasi, un ποκείμενον (hypokeimenon) dicevano i Greci. Ma dicevamo di Platone. Lui avverte, o almeno ce lo fa avvertire Heidegger, che il problema era che nella percezione, così come viene tradotta l’ασθησις, che dovrebbe essere, come già poneva Teeteto, la condizione del sapere – prima percepisco qualche cosa e poi so – questa percezione fa percepire di più. Avverte che c’è un di più, cosa che i presocratici dicevano tranquillamente: Tutto è uno significa che in questo uno c’è tutto, quindi, c’è molto più di uno. Questo “di più” va quindi sistemato in qualche modo, perché è ciò che minaccia l’essere perché non consente di determinarlo, di fermarlo, di fissarlo. E, allora, vediamo cosa ci dice qui. Siamo al Capitolo III, a pag. 215. Fissiamo ancora una volta la domanda pendente e il compito che ci attende. Quale organo entra in gioco quando apprendiamo qualcosa in riferimento a entrambi, colore e suono? La risposta a questa domanda esige che prima si indichi che cosa viene appreso quando appunto apprendiamo qualcosa in riferimento a entrambi, e come debba essere questa stessa apprensione. Vedete che la questione ruota ancora intorno alla ασθησις, alla percezione: come accade di percepire qualcosa? La risposta si potrebbe sintetizzare in questo modo: noi possiamo percepire qualche cosa perché c’è questo in più, che è l’essere, essere che la è condizione dell’ente. A pag. 218. Tutto ciò che è stato mostrato come percepibile e come percepito non era stato scelto ed enumerato a caso, arbitrariamente, ma rivelava in sé una connessione. Soprattutto entrambi vengono appresi come essenti, e solo se è così apprendiamo colore e suono come enti diversi e identici, e solo se è così allora apprendiamo anche l’essere uguale e disuguale, l’essere numerabile e numerato (la quantità). Viceversa se entrambi ci si danno come diversi, abbiamo già appreso, che lo si sappia o no, l’uno e l’altro come essenti. La prima cosa che percepiamo è che qualcosa è qualcosa. Qui c’è l’essere, essere che consente poi di dire l’ente. A pag. 219. Ma anche se avessimo questa e altre testimonianze ancora eloquenti, dovremmo già capire dall’intero contesto del problema che Platone ha di mira proprio il fatto che noi, nel percepire alcunché di udito e di visto, apprendiamo qualcosa di più del colore e del suono; anzi questo “di più” che viene indicato, il colore e il suono nel carattere dell’essente, è appreso in modo così ovvio e immediato che noi non ce ne accorgiamo affatto. A pag. 227. Per apprendere l’essere, il non essere, l’essere uguale, l’alterità e simili, non c’è alcun passaggio proprio, così come c’è per l’apprensione del colore, del suono, ecc., anzi non c’è assolutamente alcun organo fisico, del corpo umano; bensì l’anima stessa, nell’apprendere quello (l’essere), passa attraverso se stessa e prende quindi di mira quel qualcosa di comune che abbiamo indicato. Qui tira in ballo l’anima, ma si chiede a pag. 228. …il richiamarsi all’anima non è forse una comoda e ingenua via d’uscita? Quando il corpo non basta, allora chiamiamo in aiuto l’anima! Ma le cose non stanno così. Riflettiamo: in che modo e soltanto in che modo è stata introdotta l’anima nel contesto del presente problema? Come… “qualcosa come un singolo avvistato, in cui tutto questo percepibile si dis-tende assieme”. Che richiama quello che poi Heidegger dirà in Essere e tempo: l’orizzonte dell’essere che rischiara e mostra un ente. Noi l’abbiamo analizzato e abbiamo detto: l’anima è il tener-si-davanti quell’unico ambito di apprendibilità in cui tutto l’apprendibile confluisce assieme e vi viene tenuto in unità e identità. Cioè: l’anima è ciò che mette in rapporto all’essere. Infatti, parlerà dell’anima come di un rapporto ontico, cioè di un rapporto con l’essere. A pag. 234. La discussione della domanda sull’ασθησις conduce così allo scopo, cioè che in essa diventi necessariamente visibile la ψυχή, e invero in modo tale che soltanto adesso risulti una possibilità di determinare l’essenza della ψυχή e di attribuire a questo termine un significato pieno e fondato, giustificando l’uso di questo nome. Ma l’anima non è una cosa qualsiasi con la quale viene stabilito un rapporto, bensì: l’anima stessa è rapporto a… Questo è interessante perché Platone parla di anima in un’accezione che non ha nulla a che fare con ciò che ne è seguito nei millenni successivi: l’anima è ciò mette in rapporto. Che cosa mette in rapporto? Il linguaggio, il mio dire mette costantemente in rapporto e mi mette in rapporto con ciò che sto dicendo, con il qualcosa che dico. Però, tutto questo era un’interrogazione essenziale in Platone nel domandarsi come si fa a sapere qualche cosa, che cosa mi mette in rapporto a… Qui si apre un’altra questione, e cioè che cosa giustifica il passaggio da un elemento a un altro. Questione antica ma sempre presente. L’unica cosa che rende possibile è questo essere un rapporto, essere un rinvio. È questo che connette una cosa con un’altra: il fatto che quest’altra è il rinvio a cui la prima rinvia. È questa la matrice di ogni possibilità di pensare un passaggio da un elemento a un altro, perché sennò non c’è nulla che lo giustifichi. È questo tendere del dire verso il detto. A pag. 237. …Platone non dice che il percepire è preceduto da un tendere, dal quale esso sorge soltanto in seguito, ma dice: il rapporto del percepire al percetto sussiste insieme con il rapporto all’essere, e questo consiste in un tendere. Qui c’è l’essere in questo rapporto. Che cos’è il rapporto? È il linguaggio. Il linguaggio non è altro che rapporto, relazione. A pag. 240. Se ci viene chiesto a bruciapelo che cosa significa questo “è”, lo comprendiamo, ma non lo cogliamo in termini concettuali. Non abbiamo alcun concetto dell’“è”. Comprendiamo “è” ed “essere” ma senza concetto, in modo aconcettuale. Una notazione che noi potremmo aggiungere è che qualunque cosa viene conosciuta in questa maniera, cioè, in modo aconcettuale. Parlando utilizziamo una serie di parole, una dietro l’altra, e tutte in modo aconcettuale, cioè, non le mettiamo a tema, non le poniamo come problemi, sennò non si finirebbe mai, non potremmo parlare. Quindi, per potere parlare occorre che ciascun termine che interviene sia aconcettuale, non sia concettualizzato ma sia semplicemente un utilizzabile. A pag. 243. (Il percepire) Esso è un apprendere l’ente, privo di prospettiva e di concetto – il che significa: noi non ci occupiamo né dell’ente in quanto tale (dell’azzurro in quanto ente, del canto in quanto ente), né cogliamo il suo essere (per esempio l’essere-diverso come contenuto proprio di un sapere a esso relativo). La percezione non è il coglimento dell’ente in quanto tale. Nel percepire viene appreso l’ente, ma non l’essere;… Appunto, come dicevamo, è una percezione non concettuale. …questo non è, nel percepire, alcunché di appreso né, nell’accogliere, alcunché di avuto. Il rapporto con l’essere nell’immediato percepire l’ente non è quindi affatto un apprendere. Ma se il rapporto con l’essere non è affatto un apprendere, e dunque tanto meno un cogliere, con questo si libera la via per la possibilità di un carattere diverso di questo rapporto con l’essere. E di che tipo è allora questo rapporto? Rimane la possibilità che, essendo un non-avere, il rapporto con l’essere sia qualcosa d’altro… e cioè un “tendere”. Il rapporto tra il dire e il ciò di cui dico è sempre un tendere verso un qualche cosa, ma questo tendere a… comporta uno spostamento continuo, è uno spostamento, uno spostarsi continuamente da una cosa all’altra. Tende a qualche cosa, e se tende allora vuol dire che non ce l’ha, ma non può non tendere… Parlando di significato e significante: il significante tende al significato, ma questa cosa a cui tende non la raggiunge mai, perché il significato non è mai determinato, è infinito; ma è in questo tendere che il significato rende il significante quello che è. Il significante tende al significato ma senza raggiungerlo mai, senza poterlo determinare: il significato rimane un πείρων, un infinito. A pag. 244. Tendere a qualcosa: ciò a cui tendiamo, ciò che è preso di mira da un tendere, lo chiamiamo ciò a cui si tende. Questo qualcosa a cui si tende non c’è già forse nel tendere? Appunto, posso pensare; anzi, c’è ed è in qualche modo presente non solo così semplicemente, ma esso si fa valere, ci attira e ci trascina a sé. Ciò a cui tendiamo ci tiene presso di sé. Guardando dall’altro lato: nel tendere, ciò a cui si tende c’è, mentre è proprio nel non-tender-vi che esso non c’è, è via. Solo nel tender-vi noi l’abbiamo “qui” presente! Ma l’abbiamo? Invero vi tendiamo soltanto. L’“a-che” del tendere, ciò a cui si tede in quanto tale, lo si ha nel tendere; in quanto tale esso è qualcosa di “avuto” – e tuttavia esso è proprio soltanto qualcosa a cui si tende, quindi “non-avuto”. È avuto perché è lì, ma è anche non-avuto perché non lo raggiungo mai, così come il significante e il significato. A pag. 246. Con autenticità intendiamo quella modalità dell’esistenza dell’uomo in cui egli si appropria di sé (diventa autentico), cioè venendo a sé diventa e può essere se stesso. Una frase abbastanza sibillina questa di Heidegger. In effetti, non è che si intenda un granché di che cosa dovrebbe essere questa autenticità. La si intende bene se invece con autenticità si intende la consapevolezza, il non potere non sapere di essere linguaggio: questa è l’autenticità, come l’essere se stesso. Che cosa significa essere se stesso? Significa niente. Invece, la questione è posta in termini precisi se dico che l’essere autentico è il non potere non sapere che sono linguaggio. A pag. 248. Esistere, abbiamo visto, significa: essendo sé, rapportarsi all’ente in quanto tale. Ma l’ente è per noi essente, se comprendiamo l’essere, se cioè torniamo indietro all’ente partendo dall’essere, sia pure compreso dapprima senza concetto e senza prospettiva. Che è esattamente ciò che dicevo prima: il comprendere è in questo movimento - diceva bene Hegel – è sempre in questo movimento continuo, in questa dialettica, dove il significato torna sul significante rendendolo significante. È chiaro che l’esserci, il Dasein, l’uomo, è tale in quanto si rapporta all’ente. L’uomo è l’unico, presente su questo pianeta, che si rapporta all’ente, più o meno consapevolmente; però, è l’unico che si rapporta all’ente, a differenza degli animali, per i quali non c’è nessun ente. Erwin Rohde, filologo classico e amico di Nietzsche, scrive “Una delle più gravi lacune della lingua tedesca è che ρωϛ e άγάπη vengono designati dall’unica parola “Liebe” (amore). Da ciò derivano tanti fraintendimenti ed errate valutazioni dell’amore = ρωϛ: e derivano addirittura le strane autoillusioni sentimental-teutoniche sulla natura dell’έρωτικόν πάθοϛ. Qui parla dell’ρωϛ perché l’ρωϛ per il Greco antico è la passione intellettuale, lo slancio intellettuale. Anche per il Greco antico l’ρωϛ ha a che fare con la sessualità, ma in prima istanza è passione intellettuale. Il che per noi è quasi un paradosso, in quanto per noi se c’è l’uno non c’è l’altro, ma per il Greco invece sì, entrambe le cose possono coesistere, e l’ρωϛ è questo, così come lo spiega bene Platone nel Convivio. A pag. 249. La comprensione dell’essere come tensione ontologica, ρωϛ, non è però solo il tendere più autentico (nel senso del tendere-a), da cui è retto l’esserci dell’uomo, ma, essendo tale, è al tempo stesso l’autentico “avere”. Infatti: 1. nel tendere-a non si prende mai possesso di ciò a cui si tende come di una cosa o simili, bensì esso viene mantenuto non-preso come ciò a cui si tende. 2. Questo mantenimento, però, trattiene ciò a cui si tende per colui che tende, affinché esso diventi misura e legge del suo comportamento in rapporto all’ente e renda possibile così l’esistenza a partire dal fondamento dell’ente nel suo insieme. Quindi, questo ρωϛ è la tensione, letteralmente tensione erotica, cioè tensione verso l’essere, verso questo “di più”, che è l’essere, che mi consente di percepire l’ente, cioè, di esistere, in definitiva. A pag. 253. Qui parla del piacevole. Il piacevole è ciò a cui si tende, comporta quella tensione erotica, quella tensione verso l’essere, verso ciò che fa esistere le cose. Il piacevole è ciò che si cerca. Ma si cerca per che cosa? Che cosa è piacevole? Vediamo cosa dice lui. Il piacevole, nel senso più ampio di ciò che suscita, effonde e procura in sé ήδονή (piacere), è ciò che solleva il nostro stato d’animo, ci fa essere in un certo senso di buon umore, al contrario dello spiacevole. L’essere in uno stato d’animo, che predispone costantemente dalle fondamenta il nostro esserci, non potrebbe essere ciò che è, se non avesse previamente disposto la nostra esistenza alla piacevolezza e spiacevolezza dell’ente che ci capita di incontrare. /…/ Non è che noi prima troviamo l’ente, cioè delle cose qualsiasi, e poi che esso è piacevole, ma al contrario ci si fa sempre (prima) incontro ciò che dispone al piacevole e allo spiacevole, o che oscilla qua e là fra questi due come indifferente-indeterminato (che però non è un nulla), e solo in base a ciò che possiamo distogliere lo sguardo dal carattere della piacevolezza e spiacevolezza e guardare poi a ciò che ci si fa incontro come a qualcosa di meramente presente lì davanti. Se noi facciamo un passaggio, che Platone naturalmente non fa, nemmeno Heidegger, da piacevole a utilizzabile, allora questo è il piacevole: il reperire qualcosa che è utilizzabile per la volontà di potenza; in caso contrario, è spiacevole. Vale a dire, sto bene se controllo la situazione; sto male se mi sfugge. E, allora, anche qui c’è l’incontro con qualche cosa che è importante; è tra le righe ma Platone non lo coglie, anche Heidegger non lo coglie, non coglie che la questione del piacere è ciò che allude alla questione della volontà di potenza. Lo dice senza accorgersene: noi vediamo l’oggetto non per quello che è ma se ci è piacevole oppure no; prima lo consideriamo piacevole e dopo ci accorgiamo di che cos’è o pensiamo a che cos’è. Questa piacevolezza non è altro che la sensazione che si trae dal fatto che questo qualcosa sia utilizzabile. Utilizzabile = piacevole, non utilizzabile = spiacevole; piacevole in attesa di trovare il modo di renderlo utilizzabile, eventualmente. Però, come dicevo, ciò che sfugge è il fatto che la prima cosa che cogliamo è, sì, “piacevole”, ma di fatto è l’utilizzabile, cioè se è utile alla volontà di potenza oppure no: questa è la prima cosa che ci appare, cosa che non è senza conseguenze. Λόγος, λέγειν significa raccogliere, com-prendere qualcosa nei suoi riferimenti… Interessante quello che dice qui, anche se qui non si accorge bene di quello che dice. Com-prendere qualcosa nei suoi riferimenti è un rapporto. Solo che questo qualcosa è questo rapporto, ed è questo che Aristotele cancellerà. Questa frase poteva sottoscriverla anche Aristotele, cogliere qualcosa nei suoi riferimenti, cioè quella cosa consiste nei suoi riferimenti, le sue categorie, avrebbe detto Aristotele. No, non esattamente, perché la cosa di cui si parla è una relazione, anche con questi riferimenti, anche, ma la cosa stessa è una relazione, non è quella che è, non è per sua natura per cui, come dicevamo prima, l’essere è e noi possiamo soltanto coglierne i vari predicati, ciò che se ne dice. Non è così, la cosa è relazione, non c’è senza relazione, mentre per Aristotele la cosa c’è e poi si stabilisce la relazione: è questa la differenza fondamentale. …connettere l’uno e l’altro in modo tale che entrambi, in questa com-prensione, si presentino e vengano alla vista come raccolti. Ma questo venire-scorto non è un coglimento oggettuale né una riflessione logico-formale, un fare-sillogismi e simili. Quando ci capita qualcosa di piacevole e noi ci teniamo immersi nella gioia, comprendiamo bene che cosa sia ciò (la piacevolezza), anzi non possiamo non comprenderlo; questa modalità dell’essere, anche se scorta, non è colta. È il riferimento, fondato sull’άλήθεια, all’ente in quanto ente, il raccogliersi nell’uno (ν) di ciò che si mostra, la costanza e la stabilità del presentarsi; λόγος non significa qui “pensiero” e non può mai essere compreso “logicamente”, ma lo deve essere a partire dalla connessione di ούσια, άλήθεια, δόξᾰ, νοεϊν. Qui compare la questione della δόξᾰ, di cui parlerà tra poco. A pag. 258. Dobbiamo qui guardarci soprattutto dal pensare al “logico” nel senso odierno. Ciò che Platone ha presente è qualcosa di molto più originario: è il modo in cui, seguendo il filo conduttore della domanda sul “sapere” (vale a dire sulla verità, sul riferimento all’ente svelato, cioè all’ente in quanto tale, all’essere), il riferimento all’essere (ιδέα) viene fondato nel lasciar-apparire e questo viene fissato nel λόγος. Certo, se qui non si tratta del riferimento dell’essere al pensiero logico e alla struttura logica del pensiero (forme del pensiero e del giudizio), allora è altrettanto importante osservare come il λόγος venga così ricondotto alla ψυχή e all’uomo, e che nel prosieguo della filosofia, in un certo senso già in Aristotele, da questi principi si arriva alla fine e a ricondurre il riferimento dell’anima all’essere e alle sue forme entro un rapporto essenziale con la ratio, con il giudizio e con le forme del pensiero, cosicché Kant tenta poi di dedurre le determinazioni dell’essere in generale, le categorie, seguendo il filo conduttore della tavola dei giudizi. Quella di Aristotele. Noi però non possiamo interpretare l’impostazione platonica, che mira tendenzialmente in tutt’altra direzione, servendoci di questo erroneo sviluppo (dove λόγος, che prima significava “chiamata”, significherà poi “asserzione”). Il primo significato di λόγος è chiamata, la chiamata dell’ente che chiama per essere colto, per essere visto, in quanto si svela. A pag. 259. Qui c’è la questione del tempo. Il tempo è importante perché questo tendere a… è sempre rivolto verso il futuro. Il tempo di cui si parla qui non è certo il tempo dell’orologio, con il quale misuriamo il susseguirsi delle cose e fissiamo gli avvenimenti in punti temporali; piuttosto, prima di ogni rapporto con le singole cose, è l’anima che è in sé, in quanto rapporto con l’essere, rapporto con il tempo. Bisogna ammettere che questo riferirsi fondamentale di “essere e tempo”, in cui qui Platone s’imbatte, riluce come un primo leggero albore – per tornare a sprofondare e scomparire subito (e definitivamente) nella notte della cieca logica dell’intelletto che in seguito è diventata sovrana. In Platone c’è ancora uno sguardo al pensiero presocratico, a un pensiero che non è ancora organizzato in un sistema, che coglie ancora il significato autentico delle parole, che poi viene eliminato determinando ogni parola con quel significato che è funzionale alla ratio, alla metafisica, e da lì non si è più usciti. A pag. 263, …della connessione fra ciò che è percepito attraverso i sensi e ciò che abbiamo colto in un primo momento come “eccedenza”. Il “di più”. Ciò che è percepito nel percepire, questo e quello determinati in un certo modo (colorato, sonoro), possiamo averlo davanti a noi solo sul fondamento della tensione all’essere. Solo perché l’anima tende all’essere, essa può, alla luce di ciò a cui mira, avere davanti a sé questo o quel dato come qualcosa di raggiunto e di avuto, cioè per-cepire. Ogni avere-davanti-a-sé, ein generale ogni avere l’ente, ha il suo fondamento in una tensione all’essere. È questo tendere a qualcosa che fa di quel qualcosa, quel qualcosa; è il tendere del significante al significato che fa del significante quello che è. È questo tendere a… senza raggiungere mai, ma è quella continua tensione, che i Greci chiamavano ρωϛ, una tensione intellettuale. D’altra parte, anche quella che comunemente si chiama tensione erotica ha questo fondamento: il tendere a qualche cosa che non si ha e volerlo raggiungere, volerlo possedere a tutti i costi. A pag. 264. Ma in realtà e nella sua essenza ciò che troviamo successivamente non è il “di più”, l’aggiunta, ma al contrario ciò che è dato anticipatamente:… Questo “di più” viene dato anticipatamente. Qui c’è Hegel. …ciò che è pre-dato (ma non conosciuto o addirittura concepito o interrogato in quanto tale). Più precisamente: in quanto non dato già espressamente nel guardare, ecco è ciò che ci viene tenuto davanti nello scorgere che tende, è ciò che viene tenuto in vista anticipatamente (a priori); ciò che deve essere già compreso perché si possa apprendere un sensibile come ente – anzi nient’altro che quanto contribuisce a costituire la sfera pre-data di possibile apprendibilità. Questo “di più”, questo tutto, deve essere già presente perché possa manifestarsi l’ente, perché io possa apprendere l’ente. Tutto questo lungo discorso per dire che senza il linguaggio non apprendo niente. Così solo ora capiamo più chiaramente la caratterizzazione che Platone proprio all’inizio ha dato dell’anima e che noi intendevamo così: l’essenza dell’anima è tenersi davanti un orizzonte, un ambito, in cui il sensibile si estende. L’anima, cioè, non è che questo rapporto, questa relazione che rende possibile la presenza degli enti. È la relazione tra significante e significato, a dirla tutta; è la relazione per cui l’essere, il tutto, il concreto, è ciò che c’è necessariamente perché possa esserci l’astratto, cioè, l’ente, l’immanente. A pag. 265. L’anima in quanto tale è tensione ontologica, vale a dire: l’uomo è già sempre esistente, uscito fuori di sé… Nel momento in cui parla è uscito fuori di sé perché, dicendo qualche cosa, (il parlante) “esce”. Per Heidegger, poi, sarà il progetto-gettato, ma è sempre gettato verso ciò che sta dicendo. …presso l’ente, perché orientato all’orizzonte dell’essere che lo circonda e lo domina. Questo è il destino dell’uomo, dell’esserci, del Dasein: essere sempre progettato, essere sempre un’extasi, un essere fuori di sé, in quanto il mio dire si proietta sempre e continuamente verso altro, in un inarrestabile spostamento. A pag. 273. L’indagine, che ha dovuto mettere in evidenza tutto ciò nella sua rigorosa e intima connessione, è a sua volta però innanzitutto al servizio della domanda su che cosa sia l’ασθησις. Questa domanda si è precisata per noi nella seguente direzione. Che cosa costituisce, nella relazione del percepire con il percetto, il rapporto con l’ente che qui si fa incontro? Bisognava arrivare fino a questa domanda perché l’ασθησις è stata posta come ciò che rappresenta l’essenza del sapere. Era Teeteto che era partito da lì, dalla domanda che gli aveva posta Platone: “Teeteto, come facciamo a sapere qualcosa?”. È perché c’è la percezione, perché c’è qualcosa che consente di metterci in relazione con l’ente. Sapere però è possesso di verità, cioè svelatezza dell’ente; in tale possedere la verità è insito allora un rapporto con l’ente. Solo dove è l’ente c’è la possibilità della svelatezza e quindi del possesso di verità, cioè del sapere. Il sapere c’è solo laddove vi è un rapporto con l’ente. Solo se si è in relazione, se si è nel linguaggio c’è la possibilità di verità, di sapere, di tutto quanto. L’ente non è qualche cosa che sta lì da qualche parte, l’ente è ciò che si disvela in relazione al tutto, e ciò che si disvela in relazione al tutto è il dire, che si produce dal concreto, direbbe Severino. L’iniziale oscurità del concetto (apprensione dell’ente) è ora svanita: nel senso proprio e ristretto del termine, l’ασθησις è ciò che è dato ai sensi, ma in senso lato è nel contempo questa stessa datità in quanto ente. L’ασθησις ha questa doppia accezione: da una parte, ciò che si dà ai sensi; dall’altra parte, però, è questa stessa datità, è questo stesso darsi dell’ente, il suo manifestarsi, il suo disvelarsi. A pag. Il termine “percezione” è ambiguo riguardo a ciò che viene appreso; nella comprensione naturale essa è qualcosa di duplice: in primo luogo è apprensione dell’ente, in secondo luogo vedere colori, sentire suoni, ecc. Ma prima ancora diceva La percezione è già sempre più che percepire. È sempre di più di percepire. Se non ci fosse questo “di più” non ci sarebbe nemmeno la percezione: è questa la questione fondamentale. A pag. 279, Capitolo IV. …dall’interpretazione del mito della caverna siamo giunti a capire che la verità in quanto svelatezza non si presenta da qualche parte come qualcosa di sussistente in sé, bensì è solo, come esige la sua essenza, in quanto accadimento fondamentale che avviene nell’uomo come esistente. Come parlante. A ciò che nell’uomo accade quale originario lasciar-scaturire-svelatezza abbiamo dato il nome di svelatività. Sta solo dicendo che tutto questo accade soltanto all’uomo. A pag. 283. Solo dove sussiste questo rapporto con l’essere c’è una possibilità originaria della presenza dell’ente… Il rapporto con l’essere è sempre il rapporto con questo “di più”, con il tutto, con l’intero, con il linguaggio. …e con ciò la svelatezza dell’ente, quindi la verità, e i può in generale parlare di possesso della verità, cioè di sapere. Solo dove c’è questo rapporto con l’essere. Questo rapportarsi all’essere è l’anima, e questo rapporto è una tensione verso qualche cosa, e cioè l’ρωϛ. Dunque ne risulta, come filo conduttore metodologico per quanto verrà in seguito, che fin da principio bisogna cercare che cosa sia il sapere, e quindi l’essenza del sapere e la sua intima possibilità…Non “che cos’è il sapere” o quali sono i predicati che possiamo connettere al sapere, no, ma qual è la sua possibilità: questa è la domanda posta in termini autentici. …nel campo in cui ha luogo il rapporto con l’essere come tale; ovvero, detto in breve: la domanda sull’essenza del sapere e della sua verità è una domanda sull’essenza dell’essere… Sull’essenza di questa eccedenza, di questo tutto, di questo “di più”. …e non è, all’inverso, che la domanda sull’essenza dell’essere venga dopo quella sull’essenza della verità o addirittura del pensiero. Questa invece può, anzi deve rappresentare il passaggio a quella, dal momento che la verità è legata in modo peculiare all’essere. Non c’è verità senza linguaggio. A pag. 284 Teeteto dice “Questo comportamento dell’anima, che tu hai in vista come quello in cui c’è il sapere (possesso di verità), lo si chiama, così credo, δόξᾰζειν (opinare). Ora, a questo punto c’è un’analisi sulla δόξᾰ che poi Heidegger riprenderà nell’ultimo capitolo. La δόξᾰ è tradotta con opinione ma, dice lui, propriamente non è l’opinione. In base alla seconda risposta, l’essenza del sapere risiede in quel campo e in quel comportamento dell’anima che viene chiamato δόξᾰζειν. Si traduce questo verbo con “opinare” e il relativo sostantivo δόξᾰ, che pure viene nominato subito dopo, con “opinione”. Questa traduzione coglie solo a metà il significato greco del termine, e questa metà, come succede ovunque e qui in particolare, è più insidiosa di un errore fatto per intero. Con questa traduzione, che va bene in certi casi, ma anche allora solo a determinate condizioni, si occulta proprio il significato fondamentale del termine greco. … Rimane oscurata la cosa che i Greci avevano presente, e quindi non desta meraviglia che questa traduzione del termine, che coglie e al tempo stesso non coglie nel segno, abbia impedito anche la comprensione dei problemi che si celano dietro di essa. Questi problemi devono però essere messi in evidenza se si vuol capire come, a causa del modo in cui Platone e Aristotele trattano della δόξᾰ, la domanda sull’essenza della verità, e con essa la domanda sull’essenza dell’essere, sia stata costretta per l’avvenire in una direzione ben determinata, dalla quale non è più uscita. Questo è il lavoro che vi indicavo prima e che faremo a breve. A noi, che già da lungo tempo abbiamo imboccato questa direzione – meglio: che già da tempo ci siamo rassegnati ad essa –, sembra quasi che ciò a cui conduce sia ovvio, come se non ci fosse mai stata la possibilità di porre altre domande. È questa la situazione in cui ci troviamo oggi. La traduzione erronea è però giustificabile: in primo luogo perché il temine è ambiguo per gli stessi Greci, in secondo luogo perché “opinione” coglie sotto un certo aspetto il significato del termine e, in terzo luogo, perché in tedesco non abbiamo, a quanto sembra, nessuna parola che ne conservi al tempo stesso l’ambiguità e che sia inoltre coniata e fissata nel suo significato in modo tale da coincidere con δόξᾰ e da restituirne interamente il significato. Lasciamo per il momento non tradotti i termini δόξᾰ e δόξᾰζεινA pag. 287. Rimane da chiedersi come il mostrarsi dell’ente sia e debba essere possibile. Detto in breve, resta ora il compito di trovare un fenomeno la cui costituzione essenziale rechi in sé in primo luogo un mostrarsi dell’ente stesso,… Qual è il principio attraverso il quale l’ente si mostra da sé? …e in secondo luogo quel rapporto con l’essere che accade a partire dall’anima stessa; e ciò che Teeteto adduce con la denominazione di δόξᾰ (δόξᾰζειν) soddisfa appunto questa duplice esigenza. Più precisamente come nella prima risposta si ricorreva all’ασθησις che era immediatamente evidente, così adesso si ricorre al fenomeno della δόξᾰ, noto dalla vita irriflessa e che ora si impone. In che senso a Teeteto può, anzi, deve venire in mente la δόξᾰ? Che cosa significa per i Greci δόξᾰ? Partiamo dal rispettivo verbo δοκεν, δοκέω, propriamente: mi mostro, e invero o a me stesso o ad altri. Il termine è in un certo senso l’esatto contrario di λανθάνω, sono nascosto (mi nascondo) ad altri o a me stesso. Io mi mostro a me stesso, vengo davanti a me stesso in quanto questo o quest’altro – sembro a me stesso e, analogamente, sembro agli altri… Questo sembrare-a-me-e-ad-altri ha il significato di presento certe sembianze, un aspetto. Ma ciò implica che vi sia qualcosa che in qualche modo si mostra. Tale qualcosa che si-mostra lascia aperto, proprio nel suo mostrarsi, se esso sia quello che mostra, oppure no. Sappiamo che l’opinione può essere vera o falsa, c’è quindi questa doppia possibilità, A pag. 291. La non verità viene intesa dai Greci come τό ψεύδος, la distorsione. Comincia a vedersi la connessione con la distorsione, con l’opinione che distorce. Più ancora: questo fenomeno non spunta qui per caso, ma necessariamente. È in realtà impossibile comprendere ulteriormente la δόξᾰ se non si sono fatti i conti con questo fenomeno della distorsione. Questo è soltanto un capitolo che introduce ciò che articolerà nel Capitolo V sulla possibilità dell’opinione falsa. Concludiamo con questa annotazione a pag. 294. Domandiamo, dunque, con Platone, che tipo di condizione dell’anima, cioè dell’essenza dell’uomo, sia quella in cui quest’ultimo è di una veduta distorta – in che modo ci si arrivi. Con tale domanda sulla γένεσις (genesi) di questa condizione, non s’intende una spiegazione psicologica del suo sorgere, non si chiede attraverso quali cause abbia origine qualcosa del genere e che cosa induca l’uomo agli errori, bensì si indaga “da dove” questo fenomeno derivi quanto alla sua possibilità… Si interroga sempre sulla possibilità di qualcosa, non sul qualcosa ma la sua possibilità. …che cosa rende possibile la ψευδής δόξᾰ (opinione falsa) in quanto tale, a prescindere dal fatto che essa sia o non sia reale e dal suo modo di sorgere fattualmente nell’uomo. Dunque la domanda su quale sia la sua γένεσις è, detto in breve, la domanda sull’intima possibilità, sull’essenza. Nel capitolo successivo spiegherà perché.