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2 maggio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

La questione della metafisica, come vi accennavo, potrebbe costituire un punto di svolta per tutto il nostro lavoro, qualcosa che approccia la questione centrale di tutto il pensiero occidentale, quindi, ormai, planetario. Si tratta di risolvere linguisticamente il problema fondamentale della metafisica, non solo i concetti fondamentali della metafisica che per Heidegger sono questi tre, ma il problema fondamentale della metafisica, quello di Parmenide, cioè il trovare una soluzione al problema dell’uno e dei molti. Uno e molti, singolare e plurale: com’è possibile che una cosa sia uno e al tempo stesso sia molti? Questo è stato da sempre il problema fondamentale della metafisica, che cerca l’uno, cioè l’unità dei molti, però, di fatto, questi molti se li ritrova e allora deve trovare una soluzione. Ci hanno provato in tanti, ovviamente, senza però tenere conto di un fatto importantissimo, e cioè che, sì, l’uno, la singolarità, quando qualcosa appare, appare come una unità, ma il problema non è che questa unità sia fatta di molti oppure no, perché comunque, quando appare, appare come un uno, ma il fatto che per sapere che cos’è questo uno occorrono i molti, cioè, molte parole. È questo il problema che è sfuggito in buona parte alla filosofia; solo oggi qualcuno comincia a pensare che forse la questione va posta in questi termini, cioè che per affermare l’uno devo affermare i molti. Questo significa che c’è dell’uno, c’è un’unità nel senso di ciò che appare, che appare così come appare, quindi, come un’unità, qualunque cosa sia, ma per dire questa unità, per articolarla, per sapere che cos’è, devo avvalermi di molti altri concetti, di molte altre parole. Quindi, l’uno e i molti sono due facce della stessa cosa. Linguisticamente, pensiamo a de Saussure, il significante è quello che è, l’aspetto sensibile del segno o la qualità per Peirce, però, questa qualità non è nulla se non c’è, per de Saussure il significato e per Peirce il simbolo, cioè quel qualche cosa che rende il significante tale. Come dicevo, questo è sempre stato il problema fondamentale della metafisica e, quindi, come direbbe Heidegger, della filosofia tout court, cioè del pensiero: come posso far coincidere l’uno con i molti? Una qualunque cosa appare come un’unità m questa unità è fatta di tante cose. Sì, è possibile, ma non è tanto questo il punto, quanto il fatto che comunque non ho nessun accesso a questo elemento, a questa unità, se non attraverso molte altre cose. Anche Peirce, a modo suo, aveva colto la cosa: se non ci fosse qualcosa che appare non ci sarebbe nemmeno tutto ciò che questa cosa che appare significa, ma se non ci fosse questa cosa che significa non ci sarebbe nemmeno quella che appare, perché non apparirebbe niente, non significherebbe niente. Questo per dirvi che l’approccio alla metafisica costituirà quasi sicuramente un punto di svolta rispetto al pensiero stesso, a come è fatto il pensiero, perché è fatto in quella maniera, e, di conseguenza, com’è fatto il linguaggio. Questo problema della metafisica, quello dell’uno e dei molti, ha condotto alla necessità di fissare in qualche modo questa unità, di dare un significato a questa unità. Platone la risolve a modo suo, cioè le cose che ci sono, sono quelle che sono in virtù di qualche cos’altro. Questo è sempre stato il pensiero filosofico, cioè l’immanenza richiede in qualche modo sempre una trascendenza. Poi, Aristotele lo risolve con tutte le sue categorie ma anche queste tengono conto del fatto che l’essere è conoscibile attraverso tante cose. L’essere, che si pone come uno, in realtà è fatto di tante cose. Questo solo per dire quanto mi appare importante la questione della metafisica, come ciò su cui veramente si gioca la partita di tutto il pensiero occidentale. E questo l’hanno capito tutti, almeno i pensatori, che era lì che si giocava tutto. Infatti, tutta l’opera di Heidegger non è che un tentativo colossale di uscire dalla metafisica, cioè di uscire dalla necessità di stabilire dei concetti una volta per tutte, senza riuscirci poi alla fine, lui stesso se ne accorge anche se non lo dice in modo così esplicito, però, è come se dicesse che non c’è uscita dalla metafisica, è impossibile uscirne fuori. Adesso sappiamo in buona parte perché: perché è la struttura stessa del linguaggio, per cui per uscire dalla metafisica devo uscire dal linguaggio. Heidegger parla dei tre concetti che, secondo lui, sono i concetti metafisici per eccellenza, e cioè i concetti di mondo, finitezza e solitudine. Concetti metafisici, cioè concetti imprescindibili, concetti che necessariamente ci sono, e sono quello che sono. Il mondo, ciò entro cui ciascuno esiste e per cui esiste. La finitezza che, dice Heidegger, non è una proprietà che semplicemente ci attribuiamo, bensì il modo fondamentale del nostro essere, in questo senso è un concetto metafisico. Per Heidegger la finitezza è il fatto che ciascuno è preso nel suo progetto e in questo progetto si rivolge a un qualche cosa e, pertanto, è finito, perché si rivolge a quella cosa e non a tutto quanto. Cosa comporta la finitezza? Comporta la solitudine dell’Esserci, in quanto si trova preso nel suo progetto, che è suo, non è di altri. A pag. 13. Innanzi tutto, non saremo in grado di cogliere questi concetti e il loro rigore concettuale se non fossimo già anticipatamente afferrati da ciò che hanno il compito di cogliere concettualmente. Questo venir afferrati, il destarlo, il fondarlo, è la fatica fondamentale del filosofare. Il venir-afferrati… Questo è un concetto importante in Heidegger, riguarda il progetto, l’esser gettati, si viene afferrati da ciò di cui ci si prende cura. Si viene afferrati, è questo anche il senso del circolo ermeneutico: io voglio modificare questa cosa ma, nel momento stesso in cui me ne prendo cura, questa stessa cosa diventa un qualcosa di cui io sono fatto e, quindi, modifica me che modifico quella cosa. Ogni venir-afferrato proviene da uno stato d’animo e permane nello stesso. Qui incomincia a parlare dello stato d’animo (Stimmung), poi dirà quale stato d’animo. Nella misura in cui il cogliere concettuale e il filosofare non sono un’occupazione qualunque accanto ad altre, bensì accadono nel fondo dell’esserci umano, gli stati d’animo dai quali hanno origine il venir-afferrati e la concettualità della filosofia sono sempre e necessariamente stati d’animo fondamentali dell’Esserci, tale che pervadono costantemente e in modo essenziale l’uomo, senza che tuttavia egli li debba necessariamente riconoscere come tali. La filosofia accade sempre in uno stato d’animo fondamentale. Anche questo è importante, lo stato d’animo. Che cosa ci dice? Che non c’è una conoscenza pura, non c’è una conoscenza diretta dell’oggetto, ma questa conoscenza, sia quello che sia, è sempre presa in uno stato d’animo, per cui non è già più pura ma è in un certo senso “viziata” dal mio stato d’animo. Si potrebbe dire in modo molto rozzo che vedo le cose a seconda del mio umore. L’afferrare concettuale filosofico ha il suo fondamento in un venir-afferrati e questo, a sua volta, in uno stato d’animo fondamentale. Questo, quindi, è il modo di pensare del filosofare. Per Heidegger filosofare e pensare sono la stessa cosa. Questo afferrare concettuale, cioè l’intendere le cose, ha a che fare sia con il venir afferrati da ciò stesso che sto intendendo, da ciò stesso di cui mi sto prendendo cura, e dallo stato d’animo con cui lo sto facendo. D’altra parte, lo dirà più avanti, non mi prenderei cura di qualche cosa se non ci fosse uno stato d’animo che mi muove a farlo. Questo detto di Novalis, pronunciato da un poeta, non sarebbe per nulla fallace se fossimo capaci di trarne fuori l’essenziale. D’altro canto, ciò che abbiamo così ottenuto non è una definizione della metafisica, bensì qualcosa d’altro. Quindi, la metafisica non è semplicemente il trovarsi a casa propria, ovunque. Abbiamo visto come i nostri tentativi iniziali di caratterizzare la metafisica siano stati sempre respinti e riportati indietro dalle vie traverse che percorrevamo e perciò costretti a cogliere la metafisica a partire da se stessa. A questo punto si è sottratta a noi, ma verso dove ci ha condotti? La metafisica si è ritratta e si ritrae nell’oscurità dell’essenza umana. La nostra domanda “cos’è la metafisica” si è mutata nella domanda “che cos’è l’uomo?”. E, cioè, che cos’è quella cosa, quell’ente, che si chiede “che cos’è la metafisica?” Questo è il senso generale di tutto il pensiero di Heidegger. Lui critica l’esistenzialismo, a lui non ha mai interessato l’uomo in quanto tale ma l’uomo in quanto ente che pensa, in quanto ente che si pone, per esempio, la questione metafisica. Dice Abbiamo approcciato la metafisica ma ogni volta siamo stati ricacciati indietro da qualche cosa… e cioè dal fatto di considerarla sempre come una cosa al pari di altre. Per lui, invece, non è così, la metafisica è il fondamento del pensare stesso. A pag. 14. Paragrafo terzo, che si chiama Pensare metafisico come pensare concettualmente totalizzante che si muove verso la totalità e afferra l’esistenza penetrandola. La metafisica, quindi, come un pensare totalizzante, vuole il tutto, l’uno come il tutto. Queste considerazioni, questi tentativi, che abbiamo soltanto sommariamente intrapreso, in effetti manifestano qualcosa di essenziale: che non possiamo assolutamente sottrarci alla necessità di cogliere in modo immediato e diretto la filosofia e la metafisica. E proprio qui sta la difficoltà, cioè rimane effettivamente presso ciò su cui ci stiamo interrogando senza trovare rifugio in qualche via traversa. A questo punto, dice, dobbiamo pensare alla metafisica senza pensarla una cosa fra le altre ma come qualcosa che riguarda il pensare stesso. Questo restare presso la cosa… Questo per Heidegger è importante. La metafisica fa questo: volendo concettualizzare, totalizzare, resta presso la cosa, non va per vie traverse ma vuole la cosa, il suo significato ultimo. Dunque, dice, Questo restare presso la cosa è la difficoltà maggiore soprattutto perché la filosofia, non appena ci apprestiamo a esaminarla seriamente, si sottrae a noi in un’oscurità che le è peculiare là dove è autentica: fare umano nel fondo dell’essenza dell’esserci umano. Questo fare dell’uomo al fondo della propria essenza è ciò che lui intende come metafisica. La metafisica si sottrae a noi in un’oscurità che le è peculiare. Certo che si sottrae, ciascuna volta che io voglio stabilire qualche cosa, che voglio dire che cos’è qualche cosa, la totalità, questo uno mi si frantuma in miliardi di altri concetti, di altre parole, e quindi che cosa sia quella certa cosa rimane oscuro, non sapremo mai che cos’è la cosa stessa. Siamo dunque risaliti in modo immediato e apparentemente arbitrario a un detto di Novalis, secondo il quale la filosofia è una nostalgia, un impulso a essere ovunque a casa propria. Abbiamo tentato di interpretare questo detto, abbiamo tentato di trarvi fuori qualcosa. Da ciò è risultato che questo desiderio di essere a casa ovunque, cioè di esistere nella totalità dell’ente… Perché se uno è a casa esiste in questa totalità dell’ente. …non è altro che un peculiare interrogare intorno a ciò che significa questo “nella totalità”, che noi chiamiamo mondo. Per la filosofia il mondo non è altro che la totalità degli enti. Ciò che accade in questo interrogare e cercare in questo qui o là è la finitezza dell’uomo. Finitezza che, dicevo, riguarda sicuramente la morte ma riguarda anche e soprattutto la considerazione che ciascuno nel proprio progetto è solo in questo proprio progetto, e questo proprio progetto è finito perché è un progetto, è uno e non la totalità dei progetti. Quello che si compie in questo processo di finitizzazione è l’estrema forma di autoisolamento in cui ognuno sta per sé come un singolo dinanzi al tutto. Io ho un progetto ma questo progetto non è la totalità, non è totalizzante. Io ho di fronte la totalità ma sono io con il mio progetto, da solo. Da quanto detto risulta che questo interrogare, che coglie e afferra concettualmente, è fondato in ultima analisi proprio in un venir-afferrati… Questo è un concetto da tenere sempre presente, cioè l’afferrare concettualmente è sempre un venir afferrati da ciò che io voglio cogliere (circolo ermeneutico). …che ci deve determinare e in base al quale possiamo afferrare concettualmente e siamo in grado di cogliere ciò che poniamo in questione. Ogni venir-afferrati ha le sue radici in uno stato d’animo. In definitiva, ciò che Novalis chiama nostalgia è lo stato d’animo fondamentale del filosofare. Questo afferrare, che è sempre un venir afferrati, è sempre all’interno di una tonalità affettiva, di uno stato d’animo, di un umore, di una fantasia, direbbe Freud. Se ritorniamo al punto di partenza della nostra considerazione preliminare e ci chiediamo nuovamente che cosa significa il titolo “Concetti fondamentali della metafisica” non lo intenderemo più semplicemente in analogia a “principi fondamentali della zoologia” o “lineamenti fondamentali della linguistica”. La metafisica non è un settore del sapere all’interno del quale esaminiamo un ambito definito di oggetti con l‘ausilio di una tecnica di pensiero. Rinunceremo, quindi, ad inquadrare la metafisica come una disciplina scientifica tra le altre. Per il momento dobbiamo lasciare aperta la questione di che cosa sia in generale la metafisica, crediamo solo che la metafisica sia un accadere fondamentale nell’esserci umano. Lui precisa: non è un accadere dell’esserci umano ma “nell’ esserci umano”, come dire che, per quanto riguarda la metafisica, ne va dell’umano stesso, dell’Esserci. Le sue nozioni fondamentali sono concetti ma questi, come si dice in logica, sono rappresentazioni propositive, nelle quali rappresentiamo qualcosa di universale o qualcosa nella sua generalità. È per questo che ogni concetto è metafisico, perché ogni concetto ha questa, diciamo, velleità universalizzante, altrimenti non è un concetto. Un concetto è quello che è perché rappresenta tutte le possibilità inerenti a quella data situazione. Qualcosa riguardo all’universale che molte cose hanno in comune fra loro. Un concetto raggruppa tutte le cose che sono comuni a una certa cosa e le costituisce in un’unità. Per esempio, il concetto di bene raggruppa in sé tutte le proprietà che si attribuiscono propriamente al bene, le metto tutte assieme e, una volta messe tutte assieme, ho il concetto di bene; finché non faccio questa operazione non ho nessun concetto di bene. Grazie alla rappresentazione di questo universale… Che sarebbe: ciascun concetto è un universale. …siamo in grado di definire le singole cose che ci sono preliminarmente date, di definire, per esempio, questa cosa come cattedra e quell’altra come casa… Perché ho universalizzato in un concetto delle proprietà particolari. Il concetto viene così inteso come atto del rappresentare che definisce. È tuttavia evidente che i concetti fondamentali della metafisica e, in generale, i concetti della filosofia, non potranno mai essere qualcosa di simile se ci ricordiamo che essi stessi si ancorano in un venir-afferrati, all’interno del quale noi non rappresentiamo ciò che afferriamo concettualmente ma ci muoviamo invece in un comportamento totalmente diverso e, in senso originario, fondamentalmente differente da ogni metodo scientifico. Metafisica è un interrogare nel quale ci interroghiamo penetrando nella totalità dell’ente e ci interroghiamo in modo tale che noi stessi, gli interroganti, siamo inclusi nella domanda, veniamo, cioè, posti in questione. La metafisica è questo interrogare che vuole andare dentro la cosa, sapere che cos’è, per farne un universale, ma in questo entrare nella cosa io stesso sono interrogato, messo in questione. Ricordate quell’aforisma di Nietzsche: se guardate a lungo dentro l’abisso anche l’abisso guarderà dentro di voi. È esattamente quello che sta dicendo Heidegger. In conformità a ciò, i concetti fondamentali non sono degli universali né formule valide per le caratteristiche universali di un dominio di oggetti, bensì sono concetti di un tipo peculiare. Essi afferrano sempre concettualmente in sé la totalità, sono totalità concettuali. Ma sono totalità concettuali anche in secondo senso, connesso al primo quanto altrettanto essenziale: sempre con-afferrano concettualmente in sé l’uomo che afferra concettualmente il suo esserci. Non a posteriori bensì in modo tale che essi non siano quello senza questo, e viceversa. Non esiste nessun concetto del tutto senza la totalità concettuale dell’esistenza stessa di colui che filosofa. Pensare metafisico è pensare concettualmente e totalizzante nel duplice senso, di muoversi verso il tutto e di afferrare l’esistenza penetrando in essa. Afferrando l’esistenza, cioè, la propria esistenza. Quando Heidegger parla di esistenza parla sempre dell’uomo, l’uomo è l’unico ente che esiste. Ecco, questa è intanto la prima precisazione di Heidegger rispetto alla metafisica, il modo in cui lui pensa la metafisica. Se leggete la metafisica di Platone o di Aristotele, o di Suarez, non la vedono così, ovviamente. Come sappiamo, qualunque cosa può essere in qualunque modo, con il modo con cui ci approcciamo alla cosa, determinato dalla nostra tonalità emotiva, dall’obiettivo che abbiamo e dalla nostra storicità. Dunque, questa per Heidegger è la metafisica: un entrare nella cosa, ovviamente per sapere che cos’è per poterla totalizzare concettualmente, ma, entrando dentro questa cosa, questa cosa mi afferra, mi prende, mette in questione me stesso con il mio interrogare. Prendiamo l’esempio di prima, del concettualizzare totalizzante della metafisica, che vuole sapere esattamente che cos’è una certa cosa, quindi, ridurre una molteplicità all’uno. Ora, facendo questa operazione, dice Heidegger, questa prima operazione va bene, cioè il cercare la totalità, ma nel cercare questa totalità io sono messo in causa, sono messo in gioco. Ma sono messo in gioco da che cosa? Dal fatto che in questo totalizzare, in questa riduzione a unità della cosa, io sono necessariamente costretto a frammentarla, sono necessariamente messo in gioco da questo mio voler totalizzare qualcosa dal fatto che, nel fare questo, io mi trovo sempre spostato. A pag. 18. Siamo al Capitolo Secondo dal titolo L’ambiguità nell’essenza della filosofia (metafisica). Filosofia e metafisica sono per lui la stessa cosa e, siccome la filosofia è il pensare autentico, allora potremmo dire che la metafisica è a questo punto il pensare autentico. Se la filosofia è qualcosa di completamente diverso da una scienza e le rimane tuttavia l’apparenza esteriore della scienza, allora in un certo qual modo si nasconde, non viene alla luce in un modo diretto. Più ancora, si presenta come qualcosa che non è né un suo capriccio né un difetto, bensì che fa parte dell’essenza positiva della metafisica. Che cosa? L’ambiguità. Le nostre osservazioni preliminari sulla filosofia potranno dirsi concluse solamente quando avremo preso brevemente in considerazione l’ambiguità, che caratterizza in senso positivo l’essenza della metafisica e della filosofia. Questa ambiguità del filosofare è da una parte la scienza, cioè il volere porsi come scienza, e dall’altra parte il volere porsi come visione del mondo. Questa è l’ambiguità del filosofare per Heidegger. Infatti, a pag. 19, dice Questa duplice apparenza illusoria di scienza e visione del mondo procura alla filosofia uno stato costante di insicurezza. Da un lato, sembra che per essa non vi possano essere mai nozioni scientifiche e esperienza sufficienti e, tuttavia, questo mai abbastanza di nozioni scientifiche al momento decisivo è comunque sempre troppo. Un altro modo per dire che la filosofia non ha niente a che fare con la scienza, cioè, il pensiero non ha niente a che fare la scienza; la scienza è un modo di applicare il pensiero a qualche aggeggio particolare, ma non ha a che fare con il pensiero autentico, nell’accezione heideggeriana del termine. Dal momento che per lo più si conosce la filosofia soltanto sotto questo suo ambiguo volto, come scienza e come proclamazione di una visione del mondo, si cerca di imitare questo doppio aspetto per renderle giustizia. Ciò produce quelle figure ibride che, senza midollo né ossa né sangue, vivacchiano in una sorta di esistenza letteraria. Qui se la prende con la filosofia in generale. Lungo questa direzione si trova a dire Teniamo soltanto discorsi alle masse oppure, a un esame più attento, attuiamo nel loro confronti un’opera di persuasione, che si basa su di un’autorità che non abbiamo affatto, che però per varie ragioni si diffonde sotto forme diverse, anche se non lo vogliamo. Su che cosa si fonda questa autorità grazie alla quale compiamo implicitamente quest’opera di persuasione? Qui si riferisce ai professori di filosofia. Non dal fatto di avere ricevuto l’incarico da un potere più alto e neppure dal fatto di essere più saggi e più intelligenti di altri, bensì unicamente dal fatto di non venire compresi. È questo che crea quell’aura di mistero e di fascinazione. Questa dubbia autorità opera a nostro favore soltanto finché non veniamo compresi. Se, invece, veniamo compresi allora appare chiaro se filosofiamo oppure no. È come essere smascherati. Se non filosofiamo questa autorità crolla da sé, ma se filosofiamo non è mai esistita. Non è mai esistita perché se un filosofo pensa in modo autentico di questa autorità (autorità come volontà di potenza) non sa cosa farsene. Il pensiero autentico non gioca sulla volontà di potenza, sa che c’è ma, sapendolo, non ne è travolto. Dice Se non filosofiamo questa autorità crolla da sé, allora soltanto diviene evidente che il filosofare in senso radicale è proprio di ogni uomo e solo certi uomini possono o devono avere il destino particolare di essere per gli altri l’occasione che li desta alla filosofia. Questo è il suo modo di pensare la filosofia. Qui siamo ancora agli inizi, sta dicendo il suo modo di vedere la filosofia e, quindi, la metafisica e, di conseguenza, il pensiero stesso, i modi in cui approccia la questione. Ancora non siamo addentro la questione. A pag 22, § 6, La verità della filosofia e la sua ambiguità. Nel corso delle osservazioni preliminari finora compiute abbiamo raggiunto in via provvisoria la caratterizzazione della metafisica come pensare concettualmente totalizzante, un interrogare che in ogni sua domanda, e non soltanto nei risultati, si interroga a proposito della totalità. Ogni questione rivolta alla totalità con-afferra concettualmente in sé l’interrogante, lo pone in questione a partire dalla totalità. Abbiamo cercato di caratterizzare la totalità a partire da un aspetto apparentemente psicologico, cioè a partire da quanto abbiamo chiamato l’ambiguità del filosofare. Si filosofa, come fa la scienza, per avere certezze assolute oppure per proclamare la propria visione del mondo. Questi sono i due modi, secondo Heidegger, con cui si fa filosofia. Fino ad ora abbiamo osservato questa ambiguità della filosofia seguendo due direzioni: in primo luogo l’ambiguità del filosofare in generale, e in secondo luogo l’ambiguità del nostro filosofare qui e ora. L’ambiguità della filosofia in generale consiste nel fatto che si presenta come scienza e come visione del mondo, e non è né l’una né l’altra. Questa ambiguità ci porta ad essere incerti se la filosofia sia una scienza e visione del mondo o meno. Ma questa ambiguità generale si accentua proprio quando si osa presentare qualcosa come filosofia in modo esplicito: così l’apparenza illusoria non viene eliminata, bensì accentuata. È un’apparenza illusoria in duplice senso, che colpisce voi, gli ascoltatori, e me; un’apparenza illusoria che, per ragioni sulle quali torneremo in seguito, non può affatto venir eliminata. Per il docente questa apparenza illusoria è ancora più ostinata e pericolosa, perché a suo favore parla sempre una certa autorità non voluta, la quale viene esercitata in un’opera di persuasione particolare e difficilmente percepibile, un’opera di persuasione che solo di rado si mostra nella sua evidente pericolosità. Ma quest’opera di persuasione, insita in ogni esposizione filosofica, non scomparirebbe neppure, se si avanzasse la richiesta che tutto debba essere ricondotto unicamente ad argomenti dimostrativi, e che tutte le conclusioni possano essere tratte solo nell’ambito di quanto è stato dimostrato. Il presupposto che questa ambiguità possa fondamentalmente venire eliminata limitandosi a ciò che è dimostrabile, risale a un altro presupposto, che giace più in profondità: che cioè anche in filosofia il dimostrabile sia l’essenziale. È una critica alla scienza e alla dimostrabilità: qualcosa è vero se è dimostrabile, è il verificazionismo, sul quale si è appoggiato per millenni la scienza. Ci richiama immediatamente alle parole di Wittgenstein, che si è posta la domanda: quando abbiamo fatto tutta la nostra bella dimostrazione, di fatto, che cosa abbiamo dimostrato? Niente, ci siamo soltanto attenuti a delle regole prestabilite da noi. Questo è l’errore gravissimo, secondo Heidegger: pensare che in filosofia il dimostrabile sia l’essenziale. Wittgenstein si chiedeva: chi dimostrerà la dimostrazione? Ma questo forse è un errore; forse è dimostrabile soltanto ciò che è essenzialmente senza importanza, e tutto ciò che ha bisogno di venir dimostrato, non ha forse in sé rilevanza alcuna. Qui è fine: ciò che viene dimostrato, in realtà, sono cose di nessun interesse. Viene dimostrato il teorema di incompletezza, cosa cambia? Sì, si può pensare, si può riflettere, però, di fatto, non è qualcosa che mette radicalmente, più profondamente, in discussione l’Esserci. Poi, continua a dire che la filosofia è qualcosa che riguarda tutti e non qualcuno in particolare. Riguarda tutti nella misura in cui ciascuno può trovarsi nell’autenticità, perché solo a questa condizione può pensare, sennò rimane nella chiacchiera, pensa a niente e bell’è fatto. A pag. 26. Dunque la possibilità che la filosofia, un giorno, riesca a raggiungere il suo presunto obiettivo di divenire scienza assoluta, non deve venire lasciata aperta, perché questa possibilità non è affatto una possibilità della filosofia. Come dire che queste stupidaggini non dobbiamo abbandonarle, dobbiamo prenderle sul serio, per potere affermare che non è così, che l’obiettivo della filosofia non è quello di diventare una scienza. Il motivo per cui rifiutiamo a priori e fondamentalmente questa connessione tra conoscenza matematica e conoscenza filosofica è il seguente: la conoscenza matematica, sebbene racchiuda oggettivamente un vasto patrimonio di conoscenze, è, quanto al contenuto, la più vuota che si possa immaginare, e, come tale, la meno vincolante per l’uomo. La più vuota perché formalizza, si occupa di simboli, non di concetti, non giunge a un concetto totalizzante, semplicemente calcola. Questo fa la scienza: calcola. Non può fare nient’altro che questo. Per questo ci troviamo di fronte al fatto straordinario che matematici dell’età di diciassette anni possano compiere grandi scoperte. Come accade oggi, i ragazzini sono degli hackers straordinari, perché non c’è bisogno di pensare niente ma soltanto di applicare degli algoritmi, dei moduli di pensiero che, di fatto, non hanno dietro nessun concetto, non ne hanno bisogno. È come far funzionare un cellulare, non c’è bisogno di chissà quali grandi pensieri, bisogna solo imparare le procedure e applicarle. Heidegger dice che queste procedure sono vuote, non contengono nulla, non c’è un pensiero che sostenga queste cose. È per questo che i ragazzini sono più bravi a fare gli hackers di persone che magari hanno fatto un percorso lunghissimo di pensiero e non si sono soffermate su queste cose che per loro sono di poco conto. Infatti, dice Le conoscenze matematiche non devono necessariamente essere sorrette dalla sostanza più profonda dell’uomo. Per la filosofia una cosa del genere è completamente impossibile. Questa conoscenza matematica, la più vuota e allo stesso tempo la meno vincolante per la sostanza dell’uomo, non può dunque divenire il metro di paragone per la conoscenza più completa e vincolante che si possa immaginare, quella filosofica. Questa è la vera ragione, per il momento appena accennata, per cui la conoscenza matematica non può venir proposta quale ideale della conoscenza filosofica. Qui è molto chiaro: la conoscenza matematica è una conoscenza vuota, non riguarda in nessun modo il pensiero, non lo mette in questione, non c’è niente da pensare. Per il ragazzino che viola il computer della Nasa non c’è niente da pensare, c’è da applicare degli algoritmi, con abilità ovviamente, ma non c’è niente da pensare. A pag 27, § β) La vuotezza e il carattere non-vincolante del principio di contraddizione formale. Il radicamento della verità della filosofia nel destino dell’esserci. In questo titoletto c’è già una quantità enorme di cose. La vuotezza e il carattere non-vincolante del principio di contraddizione formale, cioè la verità non procede dal principio di non contraddizione ma dice si radica nel destino dell’esserci. Il destino dell’esserci è l’essere progettato, lì c’è la verità, la verità come l’apparire di qualcosa nel progetto. È questa la verità per Heidegger e che, quindi, non ha più nulla a che fare con la verità che procede dal principio di non contraddizione, anche se qui ci sarebbe da discutere. …non siamo allora minacciati da un’altra obiezione, ben più acuta, che rende vane tutte le discussioni precedenti? Non può chiunque venirci incontro e dire: un momento, voi continuate ad affermare in tono deciso che la filosofia non è una scienza, che non è una conoscenza assolutamente certa; ma proprio questo, che essa non è una conoscenza assolutamente certa, deve tuttavia essere assolutamente certo… È la famosa obiezione fatta agli scettici: non c’è la verità assoluta ma questa affermazione sembra esserlo. Ora, qual è la risposta di Heidegger a questo problema? Dice che in realtà questa obiezione non ha alcun interesse, cioè che affermare che non c’è alcuna certezza assoluta con la pretesa che ciò sia assolutamente certo, è il modo di procedere più subdolo che si possa immaginare, il quale però ha anche vita breve. Come potrebbe infatti resistere all’obiezione appena avanzata? Dal momento che l’argomento che viene ora contrapposto, non ha avuto origine oggi, ma riappare continuamente, dobbiamo tenerlo ben presente e comprenderlo nella sua evidenza formale. Non è un argomento convincente? L’argomento dice: affermare con assoluta certezza che non esiste alcuna certezza assoluta, è assurdo e in sé contraddittorio. Infatti in questo modo viene ad esserci almeno la certezza che non c’è alcuna certezza. Ma ciò significa che una certezza c’è. Davvero, questo argomento è tanto convincente quanto è logoro, ed è logoro come anche da sempre privo di effetto. Il fatto poi che questo argomento sia in apparenza incrollabile e non abbia, nonostante ciò, alcun rilievo, è casuale. Comunque non vogliamo appellarci ulteriormente alla sua inefficacia nel corso della storia passata, quanto proporre una duplice riflessione. Primo: proprio perché viene addotto sempre con tanta facilità, questo argomento non ha essenzialmente nulla da dire. È totalmente vuoto e non-vincolante. È un argomento che, quanto al contenuto, non si riferisce affatto alla filosofia, bensì a un’argomentazione formale che costringe chiunque parli ad autocontrollarsi. Qui, però, Heidegger non si accorge che va a toccare una questione di una complessità enorme. Certo, questa obiezione degli scettici dice che non c’è verità assoluta ma questa affermazione è una verità assoluta, è un’affermazione formale, cioè si appunta alla forma di ciò che viene espresso, non al contenuto; il contenuto, direbbe Heidegger, rimane intatto, ma è la forma. Il problema è che qualunque argomentazione è fatta così, e cioè è un’argomentazione che si appunta alla forma. Anche se volesse appigliarsi al contenuto, anche questo contenuto ha comunque un’espressione, direbbe Hjelmslev, e quindi ha di nuovo un’altra forma. Da lì non si esce. Dicendo questo è come se Heidegger volesse obiettare che questo tipo di obiezione si appunta solo alla forma ma non coglie l’essenza, non coglie il contenuto, questo contenuto non può porsi, perché dovremmo sapere che cosa esattamente è, e questo non lo possiamo sapere. Non lo possiamo sapere per via del fatto che se dobbiamo sapere che cosa veramente è questo devo dire altre cose che questa cosa non è, quindi, per dire che cos’è devo dire cosa non è. Questa è una grossa questione, che qui Heidegger non affronta ovviamente, qui dice semplicemente che questa obiezione è vuota perché si limita alla forma e non alla questione che è in gioco, ma la questione che è in gioco è lei stessa una forma, a meno che non vogliamo immaginare che invece sia la sostanza della cosa, sia il contenuto, ma questo contenuto ha una forma perché ha un’espressione, deve essere detta.