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2-4-2008

 

Questa sera rifletteremo sulle istruzioni che danno l’avvio al linguaggio partendo da ciò che sappiamo e cioè che il linguaggio necessita di concludere con una affermazione vera per potere costruire altre proposizioni, come dire che da un elemento, attraverso una serie di passaggi giunge alla conclusione che verifica, certifica in definitiva la premessa da cui è partito, la conferma oppure la mantiene essendo la conclusione implicita nella premessa, in altri termini deve affermare che ciò di cui sta parlando è quello che è e non è altro, come dire che deve affermare che p è p – p è una variabile individuale qualunque, una qualunque proposizione – dunque afferma che una cosa è se stessa, una qualunque cosa p, come se questa istruzione contenesse di fatto questo: che se p allora p, il che include necessariamente anche che è falso affermare che p é non p e cioè che una cosa è se stessa ma anche non lo è, se una cosa è se stessa non può non esserlo. Questa cosa che indichiamo con p può essere una cosa qualunque e a questo punto potremmo dire che il linguaggio continua ad affermare sempre la stessa cosa vale a dire che continua ad affermare che ciò che afferma è se stesso, non importa quale cosa perché può anche variare come poi di fatto varia in infinite variazioni, come una figura retorica per esempio, prendete una figura retorica, l’ipallage, per esempio, è una figura retorica che consiste nell’attribuire una qualificazione a qualche cosa che sintatticamente non dovrebbe avere, un esempio, l’esempio classico quello che trovare su tutti i manualetti di retorica tratto da Giosuè Carducci: “il divino del pian silenzio verde” questo verso di Carducci conclude la sua poesia nota come “Il Bove” con questo verso “il divino del pian silenzio verde” è un’ipallage perché il silenzio normalmente non ha un’attribuzione cromatica, non è né verde, né giallo quindi il silenzio dovrebbe essere attribuito a divino, infatti dovrebbe essere “il silenzio divino del verde piano” questa è la forma sintattica diciamo più regolare, Carducci invece modifica questa struttura e la trasforma nel “il divino del pian silenzio verde” quindi attribuisce il verde al silenzio per una figura poetica perché gli suonava meglio. Queste due forme “il divino del pian silenzio verde” e “il silenzio divino del verde piano” in realtà si equivalgono, sono due forme differenti per indicare la stessa cosa come dire che anche una figura retorica afferma sempre qualcosa, afferma che un qualche cosa è se stesso, affermandolo o negandolo ma in ogni caso afferma sempre che p è p, comunque, anche quando lo nega. Questa struttura fondamentale, questa sorta di algoritmo, algoritmo nel senso che è la sequenza che consente di costruire qualunque cosa che è ciò che ancora stiamo verificando, cioè come se il linguaggio di fatto nel suo procedere non facesse nient’altro che attenersi rigorosamente a questo algoritmo cioè se p allora p, cioè p è se stessa, è quello che deve affermare continuamente, qualunque cosa dica o non dica, faccia o non faccia. Naturalmente come ho detto e ripeto p può essere qualunque cosa, questo è totalmente indifferente, questo algoritmo dunque sembra essere ciò che fa funzionare tutto, per usare una metafora informatica potremmo indicarlo come il codice sorgente, il linguaggio con cui si costruisce un programma che poi viene compilato e trasformato in caratteri macchina 0/1, il codice sorgente non è altro che quell’algoritmo, quella sequenza di algoritmi che consente a tutto il programma di funzionare. Questa forma molto semplice: se p allora p, che può essere anche intesa come “non (p e non p)”, è la stessa cosa, è evidente, questa istruzione di base contiene soltanto un comando che dice che una certa cosa è se stessa, solo questo, e nega naturalmente che non lo sia.  È possibile costruire tutte le possibili variazioni che il linguaggio costruisce da questa semplice istruzione? Se sì, allora questa istruzione è sufficiente, è l’algoritmo di base. Quello che serve per costruire qualunque cosa che praticamente è semplicemente questa forma: se p allora p, allora non (p e non p), ecco potremmo consideralo come un algoritmo di base. È da verificare se questo algoritmo sia sufficiente a costruire qualunque cosa il linguaggio sia in condizione di fare, sarebbe un’istruzione appunto molto semplice, dice semplicemente che una cosa è se stessa e non può essere altro da sé e significa che una cosa è se stessa e non può essere altro da sé, nient’altro che questo, è così? È sufficiente questo algoritmo? Se fosse così allora ciascuno potrebbe avere volendolo la certezza che ciò che sta facendo è comunque sempre e nient’altro che affermare che una cosa è se stessa, nient’altro che questo e per tutta la vita fa solo questo. Questo ci semplificherebbe di molto il lavoro, se potessimo dimostrare naturalmente che è così e per dimostralo non possiamo utilizzare nient’altro che il funzionamento stesso del linguaggio ovviamente, non abbiamo altri strumenti né noi né nessun altro, torniamo alla questione da cui siamo partiti cioè alla necessità di affermare la verità di qualcosa, come sappiamo ciascuno cerca continuamente di affermare la verità, affermarla, confermarla o cercarla a seconda dei casi ma appare non fare nient’altro che questo, cosa significa questo, per esempio, trovare la verità? Trovare come qualcosa veramente è, tutto il pensiero comune, anche tutta la filosofia l’ha sempre considerata così e in seguito guardarsi invece dall’affermare ciò che non è, questo già Parmenide metteva sull’avviso. Gli umani hanno sempre seguito questo criterio: cercare di affermare come stanno le cose e guardarsi dall’affermare come non stanno cioè affermare qualcosa di falso come se il linguaggio, come abbiamo detto tantissime volte, costringesse gli umani di cui per altro sono fatti a reperire comunque sempre la verità cioè quell’affermazione che conclude che quindi è così, le cose sono così, quindi in definitiva che cosa afferma? Che p è veramente p e non è non p, dove p è un’affermazione qualunque, c’è dell’altro che il linguaggio lo fa? Qualcosa che comunque non sia riconducibile a questo? Un’emozione, un gesto di stima, di rispetto. Ha a che fare qualunque gesto con la ricerca della verità? Sì o no?

Intervento: all’interno del gioco, sì

Questo sposta solo la questione, esistono solo giochi? È chiaro che se esistono solo giochi allora ciascun gioco per definizione deve concludere in qualche modo, questa conclusione non è nient’altro che la verità all’interno di quel gioco ma un gesto gentile o un gesto sconsiderato rientrano all’interno di questo, sono riconducibili comunque a un’affermazione vera? Oppure non hanno nulla a che fare? Si racconta che Wittgenstein e Sraffa, Sraffa era un’economista, non mi ricordo se a Londra o a Vienna, fatto sta che Sraffa che aveva letto il Tractatus chiese a Wittgenstein: “allora questo gesto come lo situi in un criterio verofunzionale?” e Wittgenstein non seppe cosa rispondere, il gesto era quello che consisteva nel tenere la mano chiusa con le punte delle dita rivolte verso l’altro e unite, come fanno i napoletani quando vogliono chiedere il perché di qualche cosa, questo gesto è sottoponibile a un criterio verofunzionale oppure no? Cioè è vero o falso all’interno del sistema dove è decidibile se è vero o falso, per esempio, 2 + 2 = 6 è sottoponibile a un criterio verofunzionale, cioè esiste un sistema per stabilire se questa affermazione è vera o è falsa, ma il gesto come lo situiamo?

Intervento: anche lui è sottoponibile a un criterio verofunzionale cioè significa qualcosa per qualcuno… fa sempre parte del linguaggio…

Sì certamente, ma compiendo questo gesto una persona stabilisce qualcosa di vero? Come abbiamo appena detto, che apparentemente gli umani fanno continuamente? Oppure no? È un segno, e al pari di qualunque altro segno rappresenta qualcosa per qualcuno. Anche nel caso in cui significhi una domanda “che cosa vuoi?” anche in questo caso questa richiesta si situa all’interno di un sistema ben preciso, questo sistema comprende una serie di sottosistemi ma alla fine di tutto ciò in realtà una qualunque domanda si formula per sapere la verità, nessuna domanda viene formulata per sapere una menzogna se non all’interno di giochi, di sottosistemi più complicati, ma può il linguaggio domandare qualcosa che sia falso? Il linguaggio strutturalmente non può domandare qualcosa che sa essere falso, non può volere, adesso usiamo questo sistema un po’ animistico per definire il linguaggio, non può volere qualcosa che sa essere falso perché non ha nessun utilizzo e quindi non sa come utilizzarlo, cioè non può utilizzarlo per proseguire e quindi è totalmente inutile, non può domandare qualcosa che è totalmente inutile al suo funzionamento quindi è costretto a domandare qualcosa che sia utile al suo funzionamento quindi qualcosa che possa essere vero o falso, se è vero l’utilizza se è falso lo scarta. Tutto sembra concorrere a indicare in questa sorta di algoritmo che vi ho presentato una sorta di codice sorgente che consente poi l’interpretazione e dunque il funzionamento della macchina, anche il codice sorgente poi viene interpretato, ci sono programmi che compilano il codice sorgente lo trasformano appunto in caratteri macchina, quelli che qualunque computer sa leggere, sequenze di 0/1. Questo codice sorgente viene interpretato cioè la p di volta in volta viene tradotta in qualche cosa, in una elaborazione teorica, in una lista delle vivande, in una dichiarazione d’amore, in una dichiarazione di guerra, in un pensiero estemporaneo, qualunque cosa sia non ha nessuna importanza però sembra da tutto ciò che sappiamo fino adesso e non è poco, che tutto sia riconducibile a quell’algoritmo cioè se una cosa è se stessa allora non può essere altro da sé…

Intervento: l’altra volta dicevamo questo è questo è la stessa cosa dire se p allora p?

Se p implica p allora sì, però l’implicazione di per sé non è equiparabile al segno di uguale perché P può anche implicare q, e p non è uguale a q. Ho cercato di porre la questione in termini più semplici possibile…

Intervento: mi pare che il se allora l’abbiamo eliminato… volevo proprio capire se è la stessa cosa oppure no…

Dire se p allora p equivale a scrivere che p è uguale a p, ma l’implicazione, il ferro di cavallo tanto per intenderci, non è il segno di uguale, tant’è che possiamo anche dire che se p allora q e p non è uguale a q…

Intervento: non è: questo è questo, ma se questo allora questo?

Esattamente, da qui possiamo anche inferire che quindi questo è questo necessariamente…

Intervento: il primo è: se questo è questo?

È difficile stabilire il punto di partenza però tenendo conto di come si insegna a parlare e cioè parlando…

Intervento:…

Lo dice anche la logica certo, ciascun elemento è uguale a se stesso, però la forma dell’implicazione da un elemento in più e cioè dice se c’è questo allora questo è se stesso, se c’è, come dire che pone la necessità che ci sia qualcosa perché qualcosa sia se stessa. Naturalmente questa implicazione comporta nella sua trasformazione la negazione: non (p e non p), cioè non è possibile che p e non p simultaneamente, o una cosa è se stessa o non lo è… quindi è come se venisse prima il principio di non contraddizione…

Penso più a una simultaneità logica, il fatto che l’implicazione se p allora p sia trasformabile in: non (p e non p), esiste una simultaneità e questo è un elemento importante ché in effetti non parte da una negazione ma da un’affermazione che rende implicita la negazione, di conseguenza è come dire che non è altro da sé. In effetti in questa sorta di algoritmo li pongo come una sorta di equivalenza, cioè uno implica l’altro, potremmo anche mettere il connettivo “se e soltanto se”, mettiamo la barretta sotto il ferro di cavallo e diventa “se e soltanto se”, a questo punto c’è una sorta di simultaneità logica. Insomma stiamo affermando che tutto il linguaggio funziona, è costruibile a partire da questo algoritmo il che significa ancora che il linguaggio si attiene rigorosamente e scrupolosamente e senza eccezione a questo algoritmo, cioè non può uscirne, tutto ciò che costruisce è costruito da quello. In questo algoritmo di fatto ci sono i tre principi aristotelici, ciò che stiamo aggiungendo è che è soltanto questo che fa funzionare il linguaggio. Il principio di identità, non contraddizione e terzo escluso che sono tre varianti della stessa cosa: se una cosa è identica a sé allora p è p (identità) e quindi p non è non p (non contraddizione) e se è p allora p esclude non p (terzo escluso). Stiamo dicendo che tutto ciò che il linguaggio costruisce non esce mai da questa forma, come dire ancora che ciascuna cosa gli umani pensino, immaginino, sperino, desiderino, temano e tutto ciò che hanno fatto e pensato in questi ultimi tremilioni e mezzo di anni è stato costruito da questo algoritmo, senza uscirne mai, in effetti non possono affermare qualcosa di falso. Non possono ma lo fanno continuamente però il linguaggio di cui sono fatti non lo può fare, se ciascuno si accorge che ciò che sta affermando è falso non segue più quella strada, questo lo abbiamo detto tanti anni fa…

Intervento: regole di esclusione e regole di formazione…

Esatto, la prima di formazione, se p allora p – la seconda di esclusione non (p e non p) che si implicano a vicenda in una doppia implicazione, se e soltanto se, ma all’atto pratico cosa comporta una cosa del genere? Supponete per un istante di potere avere a disposizione questa informazione inserita all’interno del vostro discorso costantemente, ventiquattro ore su ventiquattro e non potere non tenere conto di questo, che succede? Che succede se una persona non può non tenere conto che qualunque cosa dica, pensi etc., che ciò che fa non è nient’altro che affermare che “questo è questo”? Succede che è in condizioni di ricondurre tutto ciò che pensa, tutto ciò che si aspetta, che desidera etc. a questo algoritmo, in realtà cioè si rende conto che non sta facendo nient’altro che affermare che una certa cosa è se stessa; un buon esercizio per ciascuno sarebbe provarsi a compiere questo: supponiamo per esempio una situazione che apparentemente non ha nulla a che fare con una cosa del genere, supponiamo che una persona desideri fortissimamente conoscere un’altra persona, ché la ritiene importante, questo desiderio più o meno forte è riconducibile a un algoritmo di base? Oppure no? Se sì, come? Come potrebbe essere ricondotto in pochissimi passaggi, in pochissime sequenze all’algoritmo di partenza cioè inserire in questa sequenza di proposizioni l’algoritmo di base: se p allora p se e soltanto se non (p e non p)? Che tutto è costruito per arrivare a questo cioè per confermare che io sono importante perché conosco una persona importante, c’è l’eventualità che non ci sia nient’altro che questo cioè che tutti questi sistemi, questi sottosistemi non siano costruiti per nessun altro motivo se non per confermare qualcosa da cui si è partiti…

Intervento: ecco ma che io sono bravo parte dalla premessa che sostiene tutto il discorso per quella persona…

Certo, di volta in volta p può essere qualunque cosa…

Intervento: certo ma in questo caso e quindi comporta un’ulteriore elaborazione del come avviene che io non voglio essere falso, cioè questo essere bravo deve sempre essere verificato e confermato la strada contraria comporta la falsità, il prestigio mi è dato dalla possibilità di essere interessante per qualcuno, per esempio…

Sì, di risultare vero agli occhi del mondo…

Intervento: ecco ma perché questa necessità di risultare vero agli occhi del mondo? Perché se consideriamo che qualsiasi cosa è un elemento linguistico, io sono un elemento linguistico e quindi agisco le stesse regole del linguaggio perché un elemento falso è un elemento che non ha possibilità di muovere, cioè di utilizzo nel senso che non si aggiungono proposizioni…

Concluda la questione, perché questo signor x deve risultare interessante e quindi vero agli occhi del mondo? Perché sono gli occhi del mondo che mi certificano perché io devo esercitare il mio potere…

Intervento: esatto e qui ci riallacciamo a tutta la questione dell’esercizio di potere…

Sì, l’esercizio di potere massimo è l’affermare che le cose sono esattamente così come penso io, qualunque cosa pensi…

Intervento: questo in funzione del fatto che io immagino di risultare falsa all’interno della struttura e quindi se sono falsa, qual è l’obiettivo del linguaggio? Di costruire proposizioni di poter proseguire a muovere, la possibilità di utilizzo e quindi vero/falso anche in questo funziona…

Se sono falso è un problema, devo trovare qualche cosa…

Intervento: è vero che io ho ragione… ma io ho ragione se è confermato dall’occhio dell’altro, dall’interesse dell’altro…

Abbiamo solo precisato, formalizzato qualcosa che di fatto stavamo già dicendo da tempo e cioè che il discorso degli umani di fatto non fa nient’altro che questo cercare di arrivare a una conclusione vera per potere proseguire, perché se non è vera il linguaggio non prosegue e di conseguenza ci si arresta ma siccome non può arrestarsi deve per forza trovare qualcosa che possa essere riconosciuto, all’interno del gioco che sta facendo, vero, quindi gli umani per tutta la loro esistenza non fanno nient’altro che questo affermare che questo è questo, solo questo, perché di volta in volta la p in questione può essere qualunque cosa, infinite cose e che è la stessa cosa che dicevamo tempo fa e cioè che il linguaggio costituisce un insieme aperto e chiuso simultaneamente…

Intervento: il problema nel luogo comune non si intende che è il funzionamento del linguaggio che obbliga a stabilire che questo è questo… che la verità è necessaria all’interno di quel gioco) esatto gli umani continuano a fare questo come se fosse la cosa più importante del mondo e in effetti non hanno neanche torto è l’unica cosa di cui dispongono non hanno nient’altro però non lo sanno e questo ha degli effetti (di qui la nostra necessità di reperire quell’elemento che è la condizione, la necessità, la costrizione logica, è possibile uscire da questa struttura di pensiero? Cioè modificare il modo di pensare?

Questo abbiamo cercato di farlo in tutti i modi ma senza riuscirci perché non c’è nessuna possibilità, anche perché se paradossalmente ci riuscissimo non potremmo né accorgercene né fare alcunché visto che siamo fuori dal linguaggio. Si tratta a questo punto di continuare a riflettere sulla questione e reperire tutte le implicazioni di una cosa del genere e soprattutto trovare il modo per farla funzionare all’interno di un discorso in modo che ne costituisca una parte integrante…

Intervento: (mi sembra questa la parte più complicata perché la parte teorica, per me no, ma sembra facile…

Le faccio un’allegoria, la Microsoft nota azienda produttrice di software soltanto ultimamente ha consentito a fornire ad alcuni sviluppatori il codice sorgente del suo programma operativo, questo significa che senza il codice sorgente non è possibile modificare il sistema operativo, se si tiene nascosto il codice sorgente non c’è accesso al sistema operativo. È un’allegoria di ciò che avviene nel quotidiano, il codice sorgente è nascosto, non c’è accesso, dunque non è modificabile il modo di pensare delle persone, rendendolo accessibile allora e solo a questa condizione è possibile modificare il loro sistema operativo cioè il loro modo di pensare, si tratta di trovare il modo per cui, per continuare questa metafora informatica, questo codice sorgente possa essere inserito all’interno del sistema operativo. Bene, allora riflette su queste cose, incominciate a farle partecipare del vostro discorso, pensate di cosa siete fatti.