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2 marzo 2022

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 507. Occorre dire che questo è un gran bel libro, che ha offerto e continua a offrire tantissime occasioni di riflessione. È un libro che mi sentirei di suggerire alla lettura di chiunque. Anche se non è facilissimo, però ci ha portati anche a una questione interessante, e cioè a un passaggio che a questo punto direi nodale fra l’approccio teorico e l’approccio teoretico. La teoria dice cose su qualcosa, la teoresi considera le condizioni di affermabilità di ciò che la teoria afferma. La teoria afferma delle cose, ma a quali condizioni può affermarle? E può effettivamente affermarle? Di questo, come dicevo, si occupa l’approccio teoretico. È questo un approccio che Heidegger in buona parte segue. Nella lettura che stiamo facendo Heidegger, in effetti, pone sempre la questione della affermabilità di certe questioni su cui si sofferma Platone, cercando di trarne, qualche volta anche dall’etimo greco – qualche volta non sempre, tenendo anche conto che l’etimo non è sempre affidabile – il perché i Greci usavano una certa parola, che cosa dicevano dicendo quella cosa, quali cose evocava, cioè, quali erano in fondo le condizioni per cui affermavano quello che affermavano. Al punto in cui siamo arrivati si pone, come dicevamo l’altra volta, la questione centrale, siamo ormai al cuore della questione e al cuore della questione c’è il λόγος. Il λόγος era approcciato in modo differente dai sofisti e dai filosofi – usiamo il termie filosofi nell’accezione platonica – cioè, dai sofisti e dai dialettici. Il problema è il λόγος ed è questo che Platone cerca di risolvere: il problema del linguaggio. Problema del linguaggio che i sofisti hanno mostrato: questo è il problema e non c’è via d’uscita; invece, Platone ha voluto trovare una via d’uscita, senza riuscirci; come sapete bene, il dialogo si interrompe a un certo punto. Riprendiamo la lettura, stavamo parlando del movimento e della quiete, κίνησις e στασις. Si tratta per Platone di tenere separate le due cose accorgendosi, sì, certo, che avvengono insieme, però, c’è la possibilità di tenerle separate, mentre per il sofista no, non è possibile. E, allora, dice così. Come prima cosa risulta questo. A partire dall’orientamento al λόγος l’ente diventa visibile come una terza cosa accanto a movimento e quiete. Perché entrambi sono enti e poi c’è l’ente che è comune a entrambi. Συλλαβήιν e πιδεν sono da intendersi come modalità di attuazione, entro cui a partire da alcunché di dato, in questo caso due dati, movimento e quiete, viene ravvisato l’uno, l’ente che include entrambi. Quindi, entrambi sono inclusi sia nell’uno che nell’ente, sia nel movimento che nella quiete. Ci troviamo così nella situazione, dice Teeteto, di dare notizia dell’ente come di qualcosa che è un terzo rispetto a movimento e quiete. Dar notizia di qualcosa, come sussistente far sapere qualcosa. Lo Straniero gli risponde “Non è dunque così facile essere già giunti alla fine delle difficoltà limitandosi ad ammettere che entrambi, movimento e quiete, sono letteralmente movimento e non movimento. La difficoltà sta invece proprio in ciò, che l’essere di questi due si evidenzia come un terzo e perciò chiaramente come un τερον (un altro, un’altra cosa, diverso, differente), un τερον τί τατον (un diverso rispetto allo stesso, è lo stesso ma diverso)... Va notato che in queste pagine, che stiamo per leggere, c’è tutto ciò che occorre per intendere il funzionamento del linguaggio. Né Platone né Heidegger se ne sono accorti. …qualcosa d’altro rispetto a loro. L’τερον è qualcosa di altro rispetto sia al movimento che alla quiete. Ma se le cose stanno così, se cioè l’ente in se stesso è qualcosa, e lo è nella diversità rispetto a movimento e quiete… L’ente non è movimento e non è quiete, è un’altra cosa. …allora l’essere non è né in quiete né in movimento, sicché quiete e moto non sono possibili predicati, non possono indicare l’in quanto per la determinazione dell’ν. Se l’ente non è né quiete né movimento vuol dire che non è né in quiete né in movimento. Lo Straniero risponde: “Non vi è luogo in cui ciò sia più facile che altrove, vale a dire, è ovunque egualmente difficile. Se qualcosa non è in movimento allora è pur sempre in quiete e se qualcosa non è affatto in quiete allora si muove. Come ci può essere un τρίτων (un terzo) che stia al di là di mutamento e di non mutamento?”. È il problema del terzo escluso di Aristotele. Come tale si è dunque rivelato evidentemente l’incerto ente di cui si tratta. Con questo terzo siamo pervenuti al massimamente impossibile, a qualcosa cioè che si oppone pienamente a tutto ciò che noi possiamo in generale comprendere e spiegare. Giunti a questo punto dobbiamo riportarci indietro a ciò che avevamo trattato in precedenza, al fatto cioè he, affrontando la questione che cosa dovesse intendersi con non-ente, ci siamo trovati nella medesima difficoltà e non sapevamo come uscirne. In quella occasione la domanda sul non-ente era stata formulata esattamente nello stesso senso di quella che ora concerne l’ente: dove dobbiamo propriamente condurre l’espressione non-essere? Cioè, che cosa intendiamo con non-essere? Qual è l’originario contenuto reale che deve farsi presente per noi circa il non-essere? Ricordate che per il greco è importante che qualcosa si faccia presente, che si faccia vedere. Si diceva allora, analogamente al nostro πάντων δύνατοτατον (l’assolutamente impossibile). Pertanto, la difficoltà relativa all’ente non è manifestamente per nulla inferiore a quella concernente il non-ente, anzi, in fin dei conti è persino maggiore. E, tuttavia, sussiste ora la prospettiva poiché entrambi, l’ente e il non-ente, sono egualmente difficili, che se riusciremo a mettere uno di essi in modo più chiaro e netto, con ciò implicitamente anche l’altro diventerà visibile. Questa è un’anticipazione del fatto che con la successiva localizzazione dell’essere sarà propriamente possibile cogliere il non-ente e ciò anche se non dovessimo avvistare nessuno dei due; si ipotizza, cioè, anche il caso di fallimento. Platone non è particolarmente convinto della definitività della trattazione svolta dal sofista. Se anche non si dovesse riuscire a mettere a fuoco uno dei due, vogliamo comunque cercare di mandare avanti, di spingere avanti l’indagine nel modo più appropriato. /…/ Il δγωσόμετα è una lectio incerta. La traduzione del passo suona così “Sermonem igitur quantum possumus decentissime circa utrumque pariter persequamur”, Marsilio Ficino… (Dobbiamo seguire entrambe le direzioni con la stessa determinazione). Ciò di cui si fa questione è il πρόϛ λέγεινVi ricordate che il λέγειν τί è il dire qualcosa. Πρόϛ vuol dire “verso, essere in relazione con”. …nonché una determinata forma del πρόϛ λέγειν che è il δια λγεσθαι Cioè, discorso diviso, nel senso che questo discorso è su qualche cos’altro. Anche nella dialettica, infatti, dato un λόγος, che di per sé pretende anche per il λέγειν la possibilità della κοινωνία (unione). Per prima cosa viene discusso un dettaglio, un esempio, che a quel tempo doveva essere molto in voga nei dibattiti: chiamiamo in causa un uomo dicendone una quantità di cose, cioè riportando determinazioni come colori, figura, grandezza, cattiveria, virtù. Che ne è di tali determinazioni e di mille altre che attribuiamo a un ente? Nel chiamarlo in causa non ci limitiamo a riconoscere il suo essere ma affermiamo pure che lui, questo Uno, al tempo stesso è altro, è infinitamente altro. E lo stesso dicasi di ogni altro ente di cui parliamo. Il peculiare dato di fatto nel λέγειν è questo: in quanto ogni λόγος ci si rivolge sin da principio a qualcosa e si passa quel qualcosa come Uno, il quale è già dato prima di ogni altro discorso, e nel contempo a sua volta quest’Uno diciamo molti e con molti significati. Qui ha colto una cosa straordinaria, e cioè dice che è peculiare il fatto che nel discorso, nel λέγειν, ci si rivolge sin da principio a qualcosa, ma questo qualche cosa è già dato, cioè, dicendo qualche cosa questo qualcosa è già dato, è già nel linguaggio; non è un qualcosa che viene da chissà dove, è già presente. E questa cosa che dico è quella ma è anche moltissime cose. Infatti, ha detto esattamente così: nel contempo a sua volta quest’Uno diciamo molti. E il significato? Il significato è singolare, c’è l’articolo determinativo “il”, ma è infinito. Il contenuto delle tesi deve stare in riferimento alla filosofia. Aristotele adduce esempi. Non è possibile parlare… Qui riprende Antistene, il quale diceva che le cose si possono dire soltanto nominandole, non c’è, nominando una cosa, qualche cos’altro a fianco: se io dico uomo, dico uomo e basta. Il significato di uomo è la parola uomo. …contro qualcosa nel rivolgersi a qualcosa. È appunto la tesi di Antistene: tutto è in movimento, dice anche, come sostiene Eraclito. Di Antistene, dunque, viene citato “non si può dire lo stesso contro qualche cosa”. Detto positivamente, significa: ciascuna cosa può essere detta sempre e solo da se stessa, cioè, ogni cosa è solo se stessa e non altro. Questi sono i pilastri del pensiero occidentale. Ciò implica che non è possibile alcun “in quanto qualcosa” che possa essere addotto in un parlare contro, in un contraddire. Se vogliamo seguire più a fondo la prospettiva di Aristotele possiamo affermare molti αντιλέγειν e αντιϕασιϛ (contraddizione e parlare contro), ma un’αντιϕασιϛ è possibile solo come κατάϕασιϛ e απόϕασιϛ (affermazione e negazione) … Parlando contro qualcosa o affermo o nego. Ma Antistene afferma “Non vi è affatto né affermazione né negazione, bensì posso dire qualcosa solo a partire da se stesso, cioè vi è sempre una sola e semplice ϕασιϛ (parola, dire). Poiché Antistene dice, senza averne chiara coscienza, che c’è solo ϕασιϛ, deve sostenere altresì che non c’è nemmeno alcuna αντιϕασιϛ, non c’è αντιλέγειν, contraddizione, la quale si fonda appunto su affermazione e negazione, ossia contraddizione, αντιλέγειν vi è solo propriamente nel discorso esplicito, che è sempre un rivolgersi a qualcosa in quanto qualche cos’altro. Vedete come, in modo finissimo, sta definendo il funzionamento del linguaggio: il dire è sempre dire qualche cos’altro rispetto a ciò che sto dicendo. Nella pura e semplice ϕασιϛ non c’è alcuna contraddizione e perciò a rigore nemmeno alcuna falsità. Questo nesso diventa più chiaro in un ulteriore passo aristotelico, nel quale viene citato ancora una volta Antistene (Metafisica, Libro V): un λόγος, uno scoprire rivolgendosi a, un λέγειν in senso proprio è falso, come diciamo solitamente noi, o meglio, inganna, in quanto, essendo ingannevole, fa vedere come essente qualcosa che non è. Esso, dunque, non significa che un λόγος falso si riferisce a qualcosa che assolutamente non è, bensì fa vedere come essente qualcosa che non è. Perciò, ogni rivolgersi ingannevolmente a qualcosa e, quindi, ogni ingannevole pronunciarsi su alcunché, è riferito a qualcos’altro rispetto a ciò che è e che è reso visibile dallo scoprire autentico. Ad esempio, chiamare in causa un triangolo come cerchio, e così facendo comunicarlo ad altri, significa che il cerchio, di cui propriamente parlo, non è tematicamente presente come ciò che deve essere fatto vedere. Questo non vuol dire che non ci sia alcun cerchio, come se il cerchio fosse un puro e semplice non-ente, bensì esso non è presente, ciò di cui parlo non è presente. Qui, vedete, c’è tutta la questione tra Platone e i sofisti. I sofisti in fondo mostravano che ciò che vedo non è ciò che credo di vedere, ciò che vedo è altro, è sempre altro. Quindi, era questo per Platone l’inganno dei sofisti. Per i sofisti e per gli eleati questo era il funzionamento del linguaggio, del quale invece Platone voleva sbarazzarsi a vantaggio della dialettica, e cioè del potere mostrare l’ente così come lui è, come se l’ente potesse rispondere da sé, perché poi, in fondo, è questa la questione: si attende che l’ente si mostri per quel che è. Il problema è andato avanti fino a Husserl, ancora si aspettava di vedere la cosa in carne e ossa senza alcuna mediazione, perché una qualunque mediazione altera. Certo, ma come la vedo se non c’è il linguaggio? Non vedo niente. Il λόγος ψευδής è un rivolgersi a, un esprimere in modo ingannevole ciò che viene così espresso. Il modo ingannevole lo abbiamo già visto prima quando dice che il dire è sempre un dire qualche cos’altro: questo è l’ingannevole, è questo che sfugge a Platone e a Heidegger. L’inganno è già presente nel linguaggio, cioè, se io voglio che l’ente si mostri da sé già sono nell’inganno perché, per potere pensare che si sta mostrando da sé, devo già pensarlo, devo costruire una proposizione, devo già attribuire a tutte queste cose dei significati. Quindi, il raggiro del sofista sarebbe questo. Il λόγος, anche come λεγμενον (il detto), è secondo i Greci sempre orientato a essere comunicato, a essere pronunciato per qualcun altro in modo che l’altro possa vedere anche lui. Ricordate: io parlo perché tu veda. Ebbene, nella misura in cui un λόγος illusorio, l’altro non è in condizione di vedere a sua volta un λόγος siffatto non è solo falso bensì è un raggiro. La falsità, insomma, è un affievolimento di quel fenomeno che Aristotele mette a tema a proposito dello ψευδής λόγος (discorso falso). Perciò, è un errore ritenere che Aristotele abbia ricondotto il fenomeno dell’inganno alla falsità del giudizio predicativo, come sostiene Scheler. Per Aristotele ogni λόγος è duplice. Un λόγος chiama in causa un qualsiasi ente, può essere da un lato ς ες (in quanto Uno), cioè di volta in volta Uno, tagliato su misura per un solo ente. C’è un solo λόγος autentico del cerchio, quello che noi chiamiamo definizione. Le determinazioni dell’essenza… Determino tutto ciò che è essente, che necessariamente appartiene a quella cosa. Ebbene da una parte c’è questo λόγος dell’ente, come ciò che esso è; dall’altro lato, però, c’è nel contempo un λόγος, un λέγειν relativo a ogni ente, il quale offre molteplici determinazioni sotto vari aspetti. In un certo senso, infatti, ogni ente coincide con se stesso e con le sue determinazioni. Ogni alcunché è in se stesso e pure nelle sue determinazioni, vale a dire, Socrate, preso di per sé come Socrate, è Socrate sapiente. Poiché qui sussiste una certa interconnessione, in quanto Socrate è quel medesimo Uno che si intende anche come Socrate come tale, poiché in entrambi si intende un τατο, uno stesso. Proprio per questa ragione bisogna distinguere in ciascun ente un duplice λόγος: da una parte il λόγος come ορισμός (definizione), rivolta qualcosa unicamente in se stessa; dall’altra, il λόγος in senso comune, che chiama in causa qualcosa in riferimento a qualche cos’altro, che potrebbe essere un alcunché affatto secondario. Ogni λόγος in quest’ultimo senso è caratterizzato dalla σύνϑεσις di qualcosa nella sua identità… Cioè, del significato come sintesi. Qui sintesi non è intesa esattamente come la intendeva Hegel, però ci si avvicina. …viene attribuito di volta in volta qualcos’altro, ma il λόγος ingannevole non è semplice in relazione ad alcun ente, cioè non è una ϕασιϛ, un dire, bensì ogni chiamare in causa in modo ingannevole è possibile solo nel senso di rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa. Per potere ingannare occorre che ci sia qualcosa. Mancando di fare tale distinzione tra definizione e λόγος in senso corrente, per questa ragione Antistene aveva una concezione davvero ingenua del λόγος, nella misura in cui credeva che nulla possa essere detto se non nel suo proprio λόγος, cioè in quel λόγος che è stato evidenziato come ορισμός, come definizione, l’uno e medesimo come riferimento a se stesso. Qui cita άνϑρωπος, che vuol dire uomo: uomo, non posso dire altro. Qualcos’altro è impossibile a dirsi, così insegnano Antistene e la sua cerchia di allievi; ne risultava per lui che è impossibile contraddire, anzi, proprio non sussiste in alcun modo l’inganno: ogni λόγος, in quanto λόγος, è vero. Questa posizione è alquanto coerente. Se, infatti, si dice che il λόγος è pura ϕασιϛ di un Uno, se dunque si esclude ogni possibilità del λέγειν κατά τινός (dire qualcosa di qualcosa), chiamare in causa qualcosa in quanto qualcosa, allora viene tolto ogni terreno anche alla possibilità dell’inganno. E questo è ciò che si continua a credere, che ci sia la possibilità di non ingannarsi. Costoro (i seguaci di Antistene) dicono: non è possibile determinare nel λόγος un τί εστί, un che cos’è… Perché il che cos’è rinvia ad altro, naturalmente. Se dico di qualcosa che cos’è dico altro rispetto a quella cosa. …ma soltanto un ποιν (il questo)… Non il che cos’è ma “questo”, ciò che si mostra. Non è possibile determinare con il λόγος che cosa sia l’argento nel suo essere, ma si può unicamente dire che esso ha l’aspetto dello stagno. È strano, Aristotele sottolinea che la tesi di Antistene, come pure la sua interpretazione del λόγος in quanto mero nominare, contiene comunque qualcosa di decisivo. Sì, è vero, perché si continua a pensare esattamente così ancora oggi. Con ciò egli intende dire che Antistene concede coerentemente quando nega la possibilità di una definizione. In effetti, un ρος (altro modo per dire la parola) deve proprio chiarire qualcosa nel suo portato reale in modo da dire, in relazione a ciò che viene spiegato, alcunché di rilevante, di nuovo sul piano reale. Per altro verso questo λόγος, come ρος, come definizione, deve essere tale da non dire una qualsiasi cosa dell’ente a proposito della sua relazione ad altro, bensì determinazioni implicite in esso stesso. Badate bene, questo problema del chiamare in causa qualcosa che per esso è, senza limitarsi a una mera affermazione della sua identità, è stato visto ed evidenziato per la prima volta da Aristotele in Metafisica Z4; in quella sede egli fa la fondamentale scoperta che vi è un λέγειν nel senso del λέγειν τί κατά ατό, un rivolgersi a ciò che qualcosa è in se stesso. E, invero, non semplicemente alla maniera della vuota tautologia, come quella del nominare di Antistene, ma facendo sì che in questo λέγειν τί κατά ατό, questo dire qualcosa che è quello che è, ciò che viene chiamato in causa è scoperto in ciò che esso è. Ma questa scoperta del λόγος autentico e originario è stata possibile solo perché Aristotele aveva svolto un lavoro preparatorio alla propria dottrina del λόγος. Infatti, ciò che dell’ente viene evidenziato in questo λόγος, rivolto a qualcosa per ciò che esso è, è la sua genesi ontologica, vale a dire, ciò che è sempre già implicito in esso, ciò che esso stesso in un certo qual modo è e che, tuttavia, gli è anteriore. E che cos’è questa cosa qui, di cui parla? Questa origine, questa ρχή, questo γένος che è sempre stato e che rende la cosa quella che è? Aristotele lo dice, una volta sola e poi non lo dirà mai più: è la chiacchiera. È da lì che viene il che cosa veramente è qualcosa, da ciò che si è sempre detto di quel qualcosa, da ciò che si è sempre attribuito a quel qualcosa. Non c’è un altro modo, non c’è un’altra via, non c’è il modo di accedere all’ente in quanto tale, senza λόγος. Quindi, questo γένος, questa origine, che è sempre stata quella che ci consente di dire di quella cosa ciò che veramente è, è la chiacchiera, è ciò che si è sempre detto di quella cosa lì: questa è la sua origine. Questa teoria del λόγος, che rende effettivamente vero nel senso positivo, proprio ciò che Antistene aveva affermato in termini rudimentali, presuppone dunque la scoperta del γένος. E, a sua volta, tale scoperta è stata possibile soltanto perché vi fu un Patone a precedere Aristotele… La cosa si fa sempre più interessante. Questo γένος, questa origine, è ciò su cui si fonda tutto, si fonda la possibilità stessa di affermare ciò che si afferma. Ecco l’indagine teoretica, che arriva fino a fine corsa, fino alla chiacchiera, fino a ciò che i più credono vero, dopo, oltre, non si va perché non c’è niente, cioè, non c’è uscita dal linguaggio, il che è un altro modo per dire la stessa cosa. Ma a questo punto si pone il problema do mettere insieme l’Uno e i molti, questa unione, questa κοινωνία. Platone riflette sulla κοινωνία, sulla comunione e dice che vi sono tre possibilità di interrogarsi sulla κοινωνία: si può porre che nessun ente abbia la possibilità dell’essere-con in riferimento a un altro ente… Tutti separati. …oppure, se è possibile ricondurre tutto al medesimo. Dunque, o ciascun ente non può essere assolutamente con un altro oppure tutti insieme, l’un con l’altro. C’è poi una terza possibilità: in parte una κοινωνία, in parte no. Ciò che a noi interessa è il fatto che, chiaramente, deve escludere che nessun elemento non sia in contatto con nessun altro, perché sarebbe inconoscibile, ma anche se tutto fosse in connessione con tutto sarebbe allo stesso modo inconoscibile, perché sarebbe come dire che ciascuna parola significherebbe tutte le altre simultaneamente, per cui come facciamo a parlare? Rimane, quindi, solo la terza ipotesi, cioè, di una κοινωνία condizionata, legata alle cose in un senso affatto peculiare: essa ha il fondamento nelle cose, nella realtà delle cose stesse ed è da queste prefiguarata. Solo quest’ultima possibilità della κοινωνία può essere mantenuta mentre le altre due mettono a repentaglio la stessa possibilità di conoscere. Cosa ci dice qui? Che ha il fondamento nelle cose stesse, cioè, in ciò che si dice di queste cose. E torniamo a ciò che dicevamo prima, a ciò che i più credono che sia: è questa la base di ogni cosa. Andiamo avanti. Qui affronta la questione della dialettica. Fa l’esempio delle lettere dell’alfabeto. Non si tratta, dunque, semplicemente di chiamare in causa l’ente nel modo naturale e immediato con cui si parla delle cose; invece, vengono messi a tema i λόγοι stessi, e precisamente con lo scopo di mostrare la costituzione di ciò che in essi si fa incontro. In altre parole, la dialettica ha il compito di rendere visibile l’essere dell’ente. Se è visibile ha l’immediato consenso di tutti: se è visibile tutti lo vedono. Naturalmente, non ci si deve domandare che cosa vedono, si deve dare come acquisito il fatto che vedano la stessa cosa, perché la cosa è se stessa: questo per il greco. Naturalmente, per potere affermare che è la stessa, non è così semplice, abbiamo ancora un centinaio di paginette per chiarire il concetto, però l’idea è questa: i discorsi fanno vedere le cose e se tutti lo vedono tutti non possono che andare in quella direzione. Per una funzione come questa, dice ora Teeteto, c’è evidentemente bisogno di una τέχνη, cioè dell’πιστήμη μέγιστε (conoscenza suprema). In questa chiarificazione della dialettica, ovvero di ciò che essa tratta, bisogna considerare che qui viene adoperato il termine γένος e precisamente non nel senso di una esplicita differenziazione rispetto a εδος, anzi, Platone usa promiscuamente γένος e εδος (origine e immagine), vale a dire, non ha ancora una effettiva comprensione della struttura del concetto di γένος, la quale può essere illuminata a partire da una più originaria penetrazione del senso dell’essere. Γένος significa ceppo originario, ciò da cui qualcosa proviene, vale a dire, un ente nel suo essere, ossia, ciò che un ente in quanto tale è già sempre. C’è una sola cosa che l’ente in quanto tale è già sempre: nel linguaggio. È l’unica cosa che possiamo dire che è già sempre, mentre per Platone questo essere già sempre significa in qualche modo richiamare l’idea che qualche cosa si è sempre mostrato e, quindi, ciò che si è sempre mostrato dice che cosa veramente l’ente è, perché l’hanno visto tutti. Ecco la questione: tutti l’hanno visto e tutti hanno visto la stessa cosa. Naturalmente, occorre riflettere su che cosa si intende con “stessa cosa”. Ma questo rende le cose complicate. Nel suo senso strutturale εδος non è orientato alla provenienza dell’ente… L’εδος è per il greco l’immagine, ciò che vedo, la forma. …bensì è orientato alla modalità di coglimento dell’essere dell’ente. Εδος è relativo al puro percepire, al νοεν. Esso è ciò che viene avvistato nella percezione pura. È un concetto strutturale dell’essere stesso, εδος è una nozione relativa alla datità dell’essere dell’ente. Cioè, come mi si dà, come lo vedo. Γένος rende già più chiara le interconnessioni ontologiche fondative, ciò che c’è già, il prius, l’a priori, esso presuppone già una più netta penetrazione ontologica. Εδος sottolinea l’autonomo contenuto reale di ciò che è appreso nell’ente. Quindi, questo a priori. Il problema è che il c’è già, il prius, l’a priori, è qualche cosa che propriamente non si trova, lo si costruisce, oltre al fatto che ciò che è primo viene sempre dopo: è con il secondo che io posso cogliere il primo, è con il significato che esiste il significante, è il per sé che fa esistere l’in sé. L’εδος dice della datità, cioè, l’ente deve essere primariamente afferrato nel suo aspetto, vale a dire, nella sua presenza, una presenza data in vista del puro scorgerla e starla a guardare. Poiché questo concetto di εδος guida sin da principio e a tratti sino alla fine la sua problematica ontologica, Platone non trova via d’uscita da certe difficoltà dell’indagine ontologica. /…/ I problemi, dunque, quello fondamentale è che gli enti sono afferrati come detti, come λεγμενα, come ciò che si fa incontro nel λόγος. È qui il problema per Platone: si fa incontro l’ente; sì, ma come? L’ente di per sé? No. L’ente lo colgo nel λόγος, nel discorso. Quindi, tutti i suoi tentativi di sbarazzarsi del λόγος sono vani, perché è l’unico modo che ho per incontrare l’ente, che incontro nel λόγος. Se prendiamo insieme γένη e εδη (origine e idea), in quanto determinazioni dell’ente, come si fa tematicamente nella dialettica, ne risulta che gli enti sono afferrati in ciò che in essi c’è già sempre e che si mostra solo nella percezione pura. Ciò si accompagna in un certo senso a quanto si è detto nella prima determinazione, vale a dire che νος, νοεν e λόγος λέγειν vengono spesso identificati. Anche in Aristotele vige ancora l’eguaglianza εδος = λόγος. Pertiene alla modalità di scoprimento della κοινωνία dell’ente… Cioè, come questo ente sia fatto di tante cose, messe assieme. …il fatto che la molteplicità dell’ente sia ricondotta a un’unità e nel contempo renda però dissociate in senso contrario… Cioè, attraverso la διαίρεσις. La questione è sempre ed unicamente la stessa: l’Uno e i molti, mettere insieme e dividere, significante e significato, concreto e astratto. La διαίρεσις percorre in un certo qual modo la genealogia di un ente procedendo sino al punto in cui essa, a partire da ciò che c’è già, cioè dal γένος, perviene all’essere lì presente di ciò che è concreto. Come fa qualcosa a essere qui presente? L’unica risposta è il λόγος, però Platone si scontra contro questa cosa, non vuole che sia proprio così, lui vorrebbe che l’ente si mostrasse da sé, senza λόγος, e così ha risolto tutti i problemi, primo fra tutti l’eliminazione del sofista, che è la cosa che gli preme più di tutte. Anche nell’afferrare la piena concrezione di un ente, così come esso sarà espressamente tematizzato da Aristotele, ne va del odo di farsi incontro dell’ente relativamente al λόγος. Si ripresenta di nuovo la domanda: in che modo qualcosa è presente come λεγμενον (detto)? Poiché sempre e comunque anche nella concrezione ciò che esiste di fatto qui e ora è del farsi incontro nel λέγειν che si tratta. La presenza concreta è anch’essa sempre e ancora εδος (immagine, quindi, λόγος). È proprio in questo, nella sua piena genealogia, rende comprensibile ciò di cui ne va unicamente: la presenza di questo qui. Attraverso il λόγος. Questo πιστήμη dunque, caratterizzata come dialettica, viene qui chiamata la scienza egli uomini liberi, di coloro che in ciò che fanno e in ciò per cui si impegnano, non hanno bisogno di quello che occorre invece alla massa, in ogni cosa che essa intraprende: una finalità immediata e visibile. La gente limitata e ottusa non è in grado di sostenere un lavoro nel quale non sappia sin da principio a che cosa serve. /…/ La nuova caratterizzazione della dialettica. Tenete sempre conto che per Platone la dialettica è l’arma per sbarazzarsi del sofista, e cioè lo strumento che deve condurlo a cogliere l’ente per quello che è, senza linguaggio perché è il linguaggio, che invece il sofista continua a inserire, a ingannare. Viene fatto osservare che è importante scomporre percetti e nel far ciò né cambiare il medesimo per un altro né ciò che è un altro per il medesimo, quindi, scomporre l’ente con ceppi e in questo tenere aperto lo sguardo su ciò che è lo stesso e ciò che è altro, ovvero, sull’identità e l’alterità. Platone sottolinea proprio questi momenti nell’indicare il compito del dialettico... Quindi, il compito del dialettico è individuare ciò che è uguale e ciò che è diverso …perché in seguito sarà appunto questa la scoperta che gli consentirà di muovere passi avanti all’interno della dialettica: comprendere effettivamente l’identità come tale e l’alterità come tale... Ben separate, ben distinte e determinate. …sulla base della penetrazione nel τατον e nello τερον (nello stesso e nel diverso). Ecco perché qui rimarca espressamente che il dialettico deve prestare attenzione all’identità e all’alterità di un ente dato. /…/ esplicita determinazione della dialettica allude a quattro compiti. Ammetto che in questa sezione ci sono alcune cose che non capisco e che alcune frasi, per quanto le abbia girate e rigirate, non mi sono risultate per niente chiare. Posso fornirvi una traduzione solo approssimativa. Il dialettico vede una sola idea attraverso molte. Il secondo compito: il dialettico vede molte idee differenti le une dalle altre in quanto al contenuto reale. Terzo: egli vede che di nuovo questa unica è raccolta insieme in un’unità attraverso molte, tutte. L’ultimo: vede che molte sono del tutto autonome l’una rispetto all’altra. Il dialettico vede tutte queste cose, ma a un certo punto deve decidere che cos’è bene e che cos’è male. …una cosa è chiara: che il λόγος è la modalità di accesso all’ente e che unicamente il λόγος circoscrive possibilità all’interno delle quali si può esperire qualcosa dell’ente e del suo essere. Solo nel λόγος, non c’è altro. Perciò, è importante che tale concetto di λόγος sia da noi chiarito. E allora chiarisce la parola λόγος. Cinque significati. 1) λόγος significa lo stesso che λέγειν, rivolgersi a qualcosa, chiamare in causa; 2) λεγμενον, ciò a cui ci si rivolge, intendendo con questo ciò che è detto, il contenuto di un λέγειν; 3) significa nel contempo ciò a cui ci si rivolge nel senso di quell’ente che si chiama in causa; in un certo senso, quello che la cosa cui ci si rivolge dice di per sé, come essa risponde, per così dire, alle nostre domande; 4) λόγος significa lo stesso che essere detto, la proposizione τό λγεσθαι (l’essere detto); 5) il fatto di essere qualcosa a cui ci si rivolge, vale a dire la struttura di ciò che si chiama in causa nella misura in cui è. Bisogna tenere presente questi cinque significati di λόγος e convocare secondo il contesto l’uno oppure l’altro al fine di comprendere. Bisogna altresì osservare nella determinazione del λέγειν come rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa che l’in-quanto-che-cosa che è in gioco quando si chiama in causa un ente può significare: 1) ci si rivolge all’ente in quanto ente, cioè in riferimento a una concreta determinazione ontologica; 2) ci si rivolge nel chiamare in causa qualcosa come qualche cosa d’altro e può intendere, quindi, un carattere dell’essere non dell’ente… Ricondotta a termini più appropriati, non è altro che l’uno e i molti, sempre e comunque. E cioè: dico una cosa, per dire questa cosa devo dire qualche altra cosa e, quindi, c’è il dire e il dire ciò che il dire dice, che i Greci dicevano con il λέγειν τί, che tra poco diventa il πρός λέγειν. Πρός è l’essere in relazione. La scienza dialettica, così descritta, è possibile soltanto qualora uno sia in grado di filosofare in modo puro e appropriato, cioè, soltanto per chi sa muoversi nel νοεν (pensiero), insomma per colui che vede proprio ciò che con gli occhi sensibili non si vede. Può fare dialettica solo chi dispone del puro vedere. Soltanto in questo luogo, la dove cioè nel νοεν si guarda all’ente nel suo essere si può trovare il filosofo. Ma la difficoltà è quella di vedere che il filosofo e il sofista sono tra loro differenti. Il sofista, infatti, va a nascondersi nell’oscurità del non-ente, è nel suo oscuro mestiere che si abbarbica. È difficile da vedere a causa dell’oscurità del luogo in cui soggiorna. Il filosofo, invece, è completamente dedito all’ente, là dove questo è veduto in modo puro. È difficile da vedere a causa della luminosità del luogo in cui deve soggiornare. Infatti, questa luce acceca poiché l’occhio non esercitato è indegno, non vede la differenza… Il sofista vede l’ente nel concreto, lo vede nel tutto; il filosofo, il dialettico, vuole vedere l’ente in quanto astratto. Il problema sta nel come vedere l’ente come astratto senza tenere conto del concreto. Il filosofo si chiarisce da sé e lo fa unicamente nel suo stesso lavoro filosofico. Il sofista, invece, deve essere tematizzato sin da principio, proprio perché, finché rimane incompreso, condanna all’impossibilità di ogni indagine filosofica. Proprio lui, l’incarnazione del non essere, deve essere rimosso affinché lo sguardo del filosofo sull’essere dell’ente e sulla sua molteplicità possa diventare libero. Ecco, qui ha messo a tema l’obiettivo di Platone: rimuovere il sofista, perché se no, non è possibile costruire alcuna teoria, la filosofia è impossibile. È impossibile perché se ciascun elemento è simultaneamente anche ciò che non è, capite bene che è impossibile la costruzione di qualunque teoria. Da qui la distinzione che facevo all’inizio tra teoria e teoresi: la teoria fa delle affermazioni su qualcosa, la teoresi chiede conto delle condizioni di queste affermazioni e, chiedendo conto di queste affermazioni, mostra che le affermazioni sono arbitrarie, infondate o, se vogliamo, fondate sulla chiacchiera. Adesso qui introduce un termine importante. Il presupposto fondamentale di questo compito dialettico e del suo svolgimento è ciò che Platone ha sviscerato sin qui attraverso i confronti metodologici che ha operato con le altre ontologie. Essere non significa nient’altro che δύναμις κοινωνειν, del poter essere nel senso dell’essere insieme. Occorre che l’essere insieme sia possibile, perché non è che lui colga i molti, ma ci sono ed è con questi che deve fare i conti. Ma per poterci fare i conti deve sapere bene con che cosa ha a che fare. Questi molti sono tenuti insieme come? Che cosa rende possibile questa κοινωνία, questa comunanza di cose, di enti? Ci sono strutture ontologiche tali da essere presenti capillarmente ovunque, compenetrando ogni dettaglio, e nulla impedisce che esse abbiano comunanza con il tutto. Qui introduce l’esempio delle vocali. Cerca cose che ci sono sempre già, è sempre quello l’obiettivo: cercare qualche cosa che c’è sempre stato. Per la prestazione che si deve seguire, dice Platone, l’importante è che noi non impostiamo un’indagine su tutti i possibili εδη, in odo da non rimanere irretiti nella molteplicità delle strutture. Invece, selezioniamo alcune tra le cose eminenti a cui ci siamo rivolti, vale a dire, quelle cui ci si rivolge sempre in ogni λέγειν. Si tratta, quindi, di una certa selezione, non però fatta arbitrariamente, bisogna individuare ciò che pertiene a ogni ente in quanto ente. Ciò che non si può togliere dall’ente. Ma che cosa non si può togliere? Le strutture e i risultati che emergono possiedono essi stessi una valenza ontologico-universale. /…/ in fondo, come stiano le cose circa la possibilità di stare insieme con gli altri enti. Bisogna quindi considerare i caratteri ontologici indirizzandosi 1) all’aspetto che hanno in se stessi nel loro proprio portato categoriale (come ci appaiono), alla loro possibile funzione categoriale all’interno della κοινωνία dell’ente (come si rapportano); come ciascuno è quello che è e come ciascuno, che è quello che è, si rapporta agli altri. /…/ La trattazione comincia enumerando i μέγιστα γένη che sono il suo oggetto: τό ατό, l’essere stesso, στσις e κίνησις, quiete e movimento. Queste sono i generi più importanti e bisogna vedere come possano stare insieme: il movimento con la quiete e lo stesso con l’altro. Come possono stare insieme? Perché stanno insieme e lui se ne rende conto, non può negarlo, ma il suo obiettivo è tenerli separati, indeterminati, certo, ma tenerli separati. Questi tre concetti, τό ατό, l’ente in quanto tale, il movimento e la quiete sono già dati. Sarebbe l’a priori kantiano. Essi sono quei ceppi originari su cui si è concentrata la precedente disamina critica dell’ontologia. Così con essi è già dato l’intero orizzonte di cui si tratta in questo dialogo, nel senso che nel movimento e quiete è determinato il conoscere, ovvero ciò che è vero è falso, e unitamente a ciò è possibile oggetto della conoscenza l’ente stesso. L’ente stesso ma qualcosa in quanto dura, che permane, che è quello che è. Al tempo stesso sono fissati in tal modo quei termini chiave della domanda sull’essere che avrebbero impegnato l’antica indagine ontologica greca. /…/ Per prima cosa viene ribadito che fra quiete e movimento sussiste un rapporto di esclusione. Avevamo già detto prima che movimento e quiete sono ναντιώτατα, cioè si oppongono l’uno all’altro al massimo grado. Movimento e quiete rappresentano una totale esclusione reciproca, come è detto dal termine non mescolabile. Per altro verso, però, l’essere è mescolato a entrambe, vale a dire, l’essere c’è in entrambe; l’una e l’altra, infatti, in qualche modo sono e l’essere di entrambe è stato chiarito dalla precedente analisi del fenomeno γιγνώσκειν (conoscenza), il quale in quanto è implica in sé movimento e quiete. L’essere c’è perché l’essere non è altro che la conoscenza. Sappiamo che la conoscenza è fatta di movimento e di quiete, non può essere solo movimento e non può essere solo quiete. Quindi, sono già dati per la disamina dialettica tre γένη (tre ceppi), già in una determinata interconnessione, movimento e quiete in reciproca esclusione ma in comunità con l’ente. Alla fine di … viene il vero e proprio quesito, che per così dire spalanca una nuova interrogazione fenomenica di tali strutture ontologiche. Accade però che ciascuna delle due sia rispetto all’altra un altro e nel contempo se stessa: ciascuna è rispetto a sé uno stesso. Ma, di nuovo, che cosa abbiamo detto quando diciamo stesso e altro? Tornando a chiedere che cosa sia stato detto nella fase precedente, la quale diceva che ciascuno delle due è τερον e τατον (è altro e anche lo stesso). Questo è il vero primo passo che la dialettica compie. Ora viene chiaramente esplicitato che cosa dica propriamente quando dice che questo λέγειν è τερον, ovvero, in altre parole, adesso viene formulato n termini più precisi ciò che la preparazione dell’analisi indicava semplicemente come due opposti non mescolati fra loro. Ebbene, quando diciamo che movimento e quiete sono diverse, le nostre parole implicano che in entrambi ci sia sempre qualcosa rimasto finora per noi occultato e che concerne la loro reciprocità, vale a dire τατον e τερον (lo stesso e altro). Ciò che qui viene dunque evidenziato rispetto al detto, e su cui ci siamo or ora soffermati, viene immediatamente sottoposto al criterio dialettico, vale a dire, interrogato circa il suo carattere di δύναμις κοινωνεν (possibilità di stare insieme). È possibile far stare insieme la quiete e il movimento? Come? Questa è la domanda sulla δύναμις κοινωνεν, sulla possibilità che stiano insieme, visto che si escludono necessariamente. Ma ci sono tutti e due. Per esempio, nella conoscenza, nell’essere, diceva prima, ci sono entrambi, perché senza movimento e quiete non c’è conoscenza. Quindi, già nella conoscenza questi due ci sono insieme. Quelle che da queste domande formulate dovessero ricevere risposta positiva ne risulterebbe allora che sarebbero cinque anziché tre… /…/ Ribadisco espressamente l’intero carattere non deduttivo di questa trattazione dialettica. Diciamo che esse, τατον e τερον, sono qualcosa? Vale a dire, siamo alla fin fine ciechi di fronte a questi due fenomeni, τατον e τερον, e non vediamo che essi presentano qualcosa d’altro rispetto agli altri tre (ente, movimento e quiete). Più sopra, infatti, nella precedente disamina della critica delle ontologie più antiche, si argomentava proprio alla cieca riguardando a questo, cioè, senza vedere il τατον e lo τερον. Ma adesso ciò deve finire, è ora che questo λανθνειν (nascosto) sia scoperto, dobbiamo renderci ben conto di questo: abbiamo davanti a noi nuovi caratteri dell’essere che non coincidono con i tre già dati (τατον, movimento e quiete). Si tratta, pertanto, di una esplicita esibizione dell’autonomia di τατον e τερον e nel contempo della loro universale presenza in ogni possibile alcunché. Qui già ci dice come stanno le cose: sono colti come differenti l’uno dall’altro, certo, ma si ribadisce la presenza in ogni possibile alcunché di questi due elementi. Naturalmente, qui la presenza dei due elementi è una presenza che viene gestita, non è la presenza come è per il sofista, per il sofista sono due momenti dello stesso, per Platone no. Ciò a cui ci rivolgiamo in entrambe, cioè nel movimento e nella quiete come compresenze, non può essere una delle due presa per sé. Ciò che può essere attribuito in egual modo a entrambe, sia alla στσις che alla κίνησις, è qualcosa che non si può identificare con la κίνησις come tale e nemmeno con la στσις fin tato che regge la πόθεσις che esse siano differenti l’una dall’altra. Tale impossibilità risulta chiara già guardando ai due fenomeni del movimento e della quiete. Se, infatti, una di esse, per esempio il movimento, fosse l’altra, è come se la costringesse a capovolgersi nel contrario della sua stessa Φύσις. Se, dunque, la κίνησις fosse un τερον, che qui vuol dire l’altro, allora la στσις dovrebbe diventare κίνησις, movimento, e viceversa. La questione è se in generale movimento possa avere la determinazione di τερον senza diventare στσις. Questo è il problema centrale qui di Platone: voglio che il movimento sia considerato come altro ma non altro da sé, perché sarebbe la quiete; però, è anche altro, ma altro rispetto a che? E qui si introduce la questione del πρόϛ τί, del relativo a.