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Parmenide di M. Heidegger

 

 

2-3-2016

 

C’è una questione che può essere utile per intendere meglio la posizione teorica di Heidegger in generale, e in particolare rispetto a ciò che stiamo facendo. Quando parla del velato e della disvelatezza, che cos’è che disvelandosi al contempo si svela? È la parola. Nel momento in cui la parola si svela, si manifesta, si dice, in quel momento è manifesta, appare, ma nel contempo proprio mentre si disvela, si vela, si mostra in quanto differente, si mostra, direbbe Derrida, in un differimento, e in questo senso si vela. Ciò che svelandosi si vela è la parola, è il modo in cui si dà la parola e quindi è possibile considerare che questo disvelarsi della parola sia, sì, un sottrarsi alla velatezza come dice Heidegger, il disvelarsi è un sottrarsi alla velatezza, ma Desaussurianamente non è altro che la parola che si determina, si definisce all’interno della Langue. La Langue è quella nebulosa in cui la parola non è determinata, non è individuata, ma nel momento in cui la parola appare, cioè si disvela, si sottrae alla Langue, a questa nebulosa che contiene ogni possibile esecuzione linguistica ma che ancora non è un’esecuzione linguistica. Come vedete in effetti c’è la possibilità di intendere meglio e in modo più preciso, forse, tutto ciò che dice Heidegger senza staccarsi poi così tanto dal testo di Heidegger, in fondo ripropone, certo con termini differenti, ripropone la questione del segno di De Saussure. Dicevamo qualche volta fa che l’essere è il significato, l’ente, ciò che si manifesta, è il significante, la parola che si dice, la parola dicentesi, e questa parola dicentesi non c’è senza significato, è dal significato, cioè dall’essere, direbbe Heidegger, che trae la sua enticità cioè il suo essere quello che è: una parola, un significante è quello che è perché ha un significato, perché significa qualcosa, infatti “significante” è participio presente di significare, significante cioè che sta significando quindi c’è un significato, ma non solo. Ciò che apparentemente manca nel testo di Heidegger ma che invece non manca affatto è questo: nel segno, nella nozione di segno soussuriana ci sono il significato il significante e la barra, questa barra è ciò che impedisce che il significato si incolli sul significante, che diventino, incollandosi, un unico significato. Heidegger non parla di “barra” ovviamente ma parla di “differenza ontologica”, parla di differenza tra ente e essere e questa differenza è ciò che impedisce all’essere di diventare ente, cioè al significato di essere un significante. Questo modo di leggere, di intendere la posizione di Heidegger a mio parere rende anche più semplice la comprensione di ciò che sta facendo Heidegger nella sua elaborazione tenendo conto che in effetti lui, sì certo, parla di essere e di ente ma questo essere non è nient’altro che ciò che dà all’ente la sua enticità, dà un significato all’ente per dirla in poche parole, dare all’ente la sua enticità è dire dell’ente che significa qualcosa, se no è nulla. A partire da questo è possibile considerare la teoria di Heidegger come una teoria del segno, non è del tutto errato, la differenza ontologica come la differance, come la differenza cioè ciò che non può togliersi, e in effetti per Heidegger la differenza che lui chiama “ontologica” non può togliersi, se la togliamo allora l’essere diventa un ente, un ente qualunque al pari di qualunque cosa, come se togliessimo al significante il suo significato o viceversa. Se togliamo al significato il significante questo significato non ha più modo di dirsi in quanto il significante è la manifestazione apparente, acustica, della parola cioè del segno. Considerando la teoria di Heidegger come una teoria del segno dopo tutto non ci discostiamo poi così tanto anche se, torno a dire, lui usa termini differenti, parla di “essere” di “ente” di “differenza ontologica”, ma questi tre elementi corrispondono perfettamente a quelli che De Saussure indicava come significato / significante e differenza tra significato e significante. Bene, volevo dirvi questo perché potrebbe tornare utile, a questo punto possiamo riprendere da dove abbiamo lasciato, a pag. 157 stava dicendo del pragma, del pragma come la cosa, pragma viene tradotto come cosa generalmente, quando il greco dice “cosa” dice πργμα da cui “pragmatico”) Per azione (πργμα) intendiamo l’ambito essenziale unitario delle cose presenti sotto mano e dell’uomo che agisce adducendo (quando tu Simona agisci adduci qualche cosa fai qualcosa in più rispetto a ciò che c’è) all’azione così concepita appartiene per necessità essenziale ¹ ὁδός (la via), la via intesa come percorso che apre una prospettiva e che si estende tra ciò che è presente e sottomano e l’uomo che agisce adducendo (quindi questa via è il percorso che apre una prospettiva dal momento in cui l’uomo agisce) agendo si aprono prospettive (agendo potrei anche dire più propriamente parlando) la via ὁδός è detta ρθ£, il greco ὀρθός significa diritto, lungo nel senso della lunghezza vale a dire lungo la prospettiva o lo scorcio sullo svelato, il significato fondamentale di ρθός è differente dal rectum romano, cioè da ciò che è diretto verso l’alto poiché è dall’alto che dirige, comanda e regge cioè governa. La rectitudo romana ha bloccato anche l’ρθότης greca (si intende con ρθότης l’adeguamento della parola alla cosa) che appartiene alla μοίωσις la cui essenza confluisce originariamente nell’ἀλήθεια (cioè nel disvelamento, sono come modi dello svelarsi della cosa) l’adeguarsi disvelante allo svelato entro la svelatezza è un andare lungo e precisamente lungo la via che conduce diritto ρθός allo svelato (sta dicendo come avviene questo svelarsi della cosa) e cioè la svelatezza si manifesta lungo un andare lungo (questo ὁδός) che conduce dritto allo svelato, μοίωσις è ρθότης (lui fa qui questa comparazione fra i due termini μοίωσις che nelle traduzioni comuni sarebbe il medesimo, e ρθότης che è l’adeguato, lui dice che l’uno è l’altro) pensato in greco l’ρθός inizialmente non ha nulla di comune con il rectum romano e con il recht, il diritto in tedesco all’ambito essenziale di pragma vale a dire dell’azione concepita in termini essenziali appartiene la via che va dritta allo svelato (sta intendendo dire che per il greco antico, come dicevamo la volta scorsa, così come lo intende lui, l’agire è ciò che porta alla svelatezza, agire nel senso del pragma) nella misura in cui la nube nascondente porta l’oscuramento alla via che apre una prospettiva viene a mancare quella luminosità che la conduce dritta, dritta allo svelato, la nube (la nube è il nascondimento, la “nebulosa” di De Saussure) trae dunque in disparte la via dell’azione par£ significa “a lato” (ha molte accezioni tra cui anche questa “a lato”) fuori da ciò che è il memorare, il pensare a fondo e il rammemorare guidati dal pudore apportano e del velamento in quanto oscuramento l’uomo si situa in un certo qual modo fuori dallo svelato (sta dicendo che il trovarsi nel velato cioè nella nuvola è ciò che impedisce all’uomo di vedere effettivamente le cose che non possono in questo modo manifestarsi) il dimenticare (ecco questo lui lo utilizza, tutto questo discorso per introdurre la questione della dimenticanza, cosa succede quando si dimentica?) il dimenticare stesso accade già in una dimenticanza, quando dimentichiamo qualcosa non ci siamo già più, siamo via, tratti in disparte (qui riprende una cosa che diceva l’altra volta, in contrapposizione alla posizione Occidentale odierna di soggetto/oggetto dove il soggetto è qualche cosa che dimentica l’oggetto, dimenticando l’oggetto lo cancella, ma il soggetto permane è sempre lì, invece per Heidegger per il greco antico non essendoci né il soggetto né l’oggetto nella dimenticanza avviene un qualche cosa è il dimenticare che coinvolge colui stesso che dimentica, che non è il soggetto ma che è preso in questa dimenticanza letteralmente cioè scompare anche lui, non scompare solo l’oggetto ma rimane il soggetto, scompare ogni cosa cioè ogni cosa accade nell’oblio, come se ci fosse la nuvola che impedisce a queste cose di svelarsi) se nel dimenticare ci fossimo ancora dovremmo e potremmo pur sempre tenere a mente il dimenticato ma in tal modo non si avrebbe mai il dimenticare, affinché non sia più possibile trattenersi presso ciò che deve cadere nella dimenticanza l’oblio deve anzi tutto avere cacciato via noi stessi dal nostro proprio ambito essenziale, (il nostro proprio ambito essenziale è quello di trovarsi nella disvelatezza quindi noi dimenticandoci di qualche cosa siamo cacciati via dalla disvelatezza) soltanto la parola esplicativa ¢tškmarta che significa privo di segni nel senso di non mostrantesi quindi velante se stesso (dice soltanto questa parola coglie l’essenza del velamento nascondente della dimenticanza quindi “privo di segni”, cosa vuol dire? Che non si mostra perché se non c’è segno non c’è rinvio, se non c’è rinvio non mostra più niente, potremmo dire che la cosa dimenticata, parafrasandolo qui ma neanche poi tanto, la cosa dimenticata è quella cosa che non è più segno, cioè non rinvia e in questo senso è velata, non che non esista più ma è velata. Il velamento qui possiamo intenderlo come un’assenza: è il segno che è velato, è il segno quindi che non mostra più il suo rinvio, non che non ce l’abbia ma non lo mostra, che è ciò che avviene con la parola, una parola deve poter rinviare a un’altra parola per potere essere parola, ma se questo rinvio per qualche motivo è velato è come se la parola non rinviasse più, e quindi come se la parola non ci fosse più, Heidegger illustra così la dimenticanza. Ciò che a noi interessa non è tanto la questione psichica o psicologica sulla dimenticanza, ma il lavoro che fa Heidegger sulle parole, sulle parole inaugurali, per esempio il richiamo che fa qui a una parola greca ¢tškmarta che significa privo di segni, collegando questo con la dimenticanza dice come una parola greca inaugurale mostri di che cosa è fatta la dimenticanza, cioè è qualcosa privo di segno) Tškmar è il segno, il mostrante che mostrando se stesso mostra nel contempo come stanno le cose riguardo l’ente presso cui l’agire umano giunge a dovere giungere (questa è la sua definizione di segno: il segno è il mostrante che mostrando se stesso – cioè mostrandosi in quanto segno – mostra nel contempo come stanno le cose riguardo l’ente presso cui l’agire umano giunge e deve giungere e cioè come stanno le cose rispetto al rinvio di questa cosa “presso cui l’agire umano deve giungere”, l’agire umano intendetelo anche come la parola soprattutto, ciò a cui la parola deve giungere cioè al significato. Questo è il segno per Heidegger) il termine tedesco Wahrzeichen letteralmente “segno del vero” (Wahr) (zeiken –segno)simbolo potrebbe essere adatto posto che si pensi (das Wahre) il vero in senso greco, di conseguenza il mostrante nonché lo svelato indicante può in seguito significare anche meta (e cioè l’andare del segno verso ciò di cui è segno, questo ciò di cui il segno è segno sarebbe la meta, prosegue nella pagina dopo 160): Esperito in modo greco il dimenticare non è uno stato soggettivo (dicevo prima che a noi interessa il modo in cui lui riprende queste parole iniziali, inaugurali, per mostrare che l’uso delle parole che si fa comunemente in realtà si aggancia a delle cose che in queste parole era presente originariamente e poi è stato dimenticato, ma questo non ci interessa per una ricerca etimologica, lui stesso lo dice che non è di questo che si tratta, ciò che a lui importa e che a noi a suo seguito importa, è la possibilità di ripensare, cioè interrogare di nuovo le parole più ovvie, più evidenti, più scontate e cioè rimettere in questione, anzi mantenerle sempre in questione, quindi sempre in tensione, quindi problematizzare continuamente l’ovvio, cioè quelle parole più comuni, pensate alla parola, alla copula “è”, non è fra le parole più comuni? Quante volte nell’arco di una giornata uno pronuncia la parola “è”? Ovviamente non solo l’ “essere” però a noi interessa l’essere in particolare e tutte queste parole sono parole che dicono ciascuna a suo modo dell’essere, cioè del modo in cui l’essere si manifesta, cioè svelandosi e al contempo velandosi, come la parola che al momento in cui si mostra, si dice, al tempo stesso si sottrae, che è esattamente ciò che lui descrive dell’essere, dell’essere che si manifesta ma manifestandosi si vela, si sottrae, si manifesta nella Lichtung (radura) di cui parla in Essere e Tempo) Esperito in modo greco il dimenticare non è né uno stato soggettivo né si riferisce solamente a ciò che è passato e al ricordo di esso e nemmeno concerne in generale solo il pensare nel senso del rappresentare, il velamento (che è propriamente l’oblio in questo caso) colloca nel velato l’intera essenza dell’uomo e in tal modo lo strappa via dallo svelato (questo è per Heidegger il dimenticare, l’uomo viene strappato via dalla disvelatezza, viene strappato dall’ἀλήθεια e ritorna o meglio si trova nella λήθη, cioè nel velato. Dice dunque che l’uomo è via dallo svelato, non c’è più) egli trascura e tralascia ciò che gli è assegnato (che cosa è assegnato all’uomo? L’ἀλήθεια, la disvelatezza) il dimenticare è il non esserci più e non già solo un non ricordarsi più in termini di rappresentazione mentale, siamo tentati di sostenere che i greci concepissero il dimenticare non soltanto in riferimento all’atteggiamento conoscitivo e speculativo ma anche all’agire pratico (qui torna il pragma) tuttavia così dicendo pensiamo già in modo non greco poiché il velamento riguarda fin da principio l’intero esserci dell’uomo presso l’ente (dice che nel disvelamento c’è il velamento ma questo velamento, questo velare delle cose è propriamente qualche cosa lungo la quale l’uomo non è più nell’esserci, l’uomo non è più presso l’ente, cosa significa questo? Significa che non è più presso il significante, e cioè il significante scompare, il significante scompare in quanto per dirla in modo molto semplice, se l’essere non si svela, cioè il significato non c’è, il significante scompare, che è esattamente quello che diceva De Saussure dicendo che senza significante non c’è significato, e d’altra parte senza significato non c’è significante. Senza significato una parola non significa niente, non è neanche un significante letteralmente perché significante è participio presente di significare, ma se non c’è significato è significante di ché? Di nulla. D’altra parte un significato che non ha significante è un significato che non ha manifestazione, che non si dice, che non può dirsi, che non ha espressione e quindi è niente, ecco perché per De Saussure non c’è significante senza significato e non c’è significato senza significante, questi due aspetti indiscernibili costituiscono il segno, e lui mette la barra in mezzo, ma Heidegger ci mette la differenza ontologica, per cui l’uno non potrà mai collassare, perdonatemi questo termine, sull’altro) la λήθη, l’oblio è quel velamento che fa cadere ciò che è passato, presente e futuro nel “via” di un’assenza essa stessa assente “mettendo via” nel contempo l’uomo medesimo nella velatezza riguardante questa sottrazione (Heidegger insiste per mostrare come la questione dell’oblio, della dimenticanza e quindi della λήθεια (senza la alfa privativa) non sia un qualche cosa che ha a che fare con la coscienza, con la psicologia, con il cognitivismo eccetera ma, riprendendo il modo del greco antico di pensare l’oblio, la dimenticanza, sottolinea come questa abbia a che fare con la comparsa o la scomparsa dell’essere, cioè con questo movimento dell’essere che si disvela e disvelandosi si ri-vela cioè si vela di nuovo, qualcosa cade nell’oblio. Cade nell’oblio ma nel senso che dicevo prima, cioè che l’uomo non è più presso l’ente, cioè presso il significante il che vuol dire che non ha accesso al significante se non c’è l’essere. Poi qui fa un accenno alla questione della tecnica che può essere di qualche interesse) pag. 166: Forse il problema molto dibattuto se sia la tecnica a rendere suo schiavo l’uomo o se sia l’uomo a dominare la tecnica è già un problema superficiale perché ci si dimentica di domandare quale sarebbe l’unica specie di uomo in grado di esercitare un dominio sulla tecnica. Le filosofie della tecnica si comportano come se la tecnica e l’uomo fossero due grandezze e due cose in sé lì presenti (come due entità) come se cioè il modo in cui l’essere stesso appare e si sottrae non avesse già deciso circa l’uomo e la tecnica vale a dire circa il rapporto tra l’ente e l’uomo dunque la mano e la parola nonché il loro dispiegamento essenziale /…/ Dal momento che nella domanda riguardo alla λήθη ci si interroga sul riferimento dell’essere all’uomo nel tentativo di chiarire l’essenza del pragma cioè dell’azione della mano dobbiamo accennare alla macchina per scrivere, posto che nella meditazione pensante vi sia comunque un pensiero che pensa alla nostra storia, vale a dire all’essenza di quella verità in cui ciò che è venturo ci viene incontro (allora dice che la questione non è tanto di porre l’uomo e la tecnica come due entità distinte e separate, quindi ci sta già introducendo all’eventualità che non siano disgiungibili, perché dice:) Il rapporto fra l’uomo e l’ente, lo dice qua dunque, la mano e la parola (la mano vi ricordate era ciò che per Heidegger è essenziale in quanto la mano scrive, scrive la parola, in questo senso parla della mano, infatti poi parla di macchina da scrivere in cui non c’è più la mano che effettivamente traccia dei segni perché nella macchina da scrivere si “picchia” sui tasti, non si tracciano segni. Ma la questione essenziale in tutto ciò è che non è possibile disgiungere l’uomo dall’ente, cioè dal significante, l’uomo e il significante non sono disgiungibili, e questo comporta che la tecnica, intesa modernamente come il tentativo di dominio sulle cose, proceda dal fatto che l’uomo è un significante e cioè l’uomo in quanto parlante deve imporre, e qui c’è Nietzsche ovviamente, imporre sulle cose il suo dominio, ripeto la frase “come se cioè il modo in cui l’essere stesso appare e si sottrae non avesse già deciso circa l’uomo e la tecnica”. L’essere che appare e si sottrae in che modo decide dell’uomo e della tecnica? Nel momento in cui l’essere appare, cioè appare il significato allora appare il significante, però l’essere, cioè il significato si sottrae, perché abbiamo visto che nel momento in cui il significante si dice, si certo, c’è un significato, ma dicendosi questo significato differisce. Questo movimento di apparire e sparire dell’essere, questo è il divenire, per questo Severino non è tanto d’accordo su questa cosa, ma dicevo è in questo movimento continuo che si gioca la questione dell’uomo e della tecnica, e cioè nel tentativo di potere controllare questo apparire e scomparire, questa è la tecnica: il tentativo estremo dell’uomo di controllare l’apparire e lo scomparire, per usare termini heideggeriani, dell’essere, averlo sempre a portata di mano, cioè avere il significato delle cose del mondo sempre a portata di mano, sotto mano, a questo serve. Qui fa un accenno alla questione del pudore che ha detto prima) Secondo la parola di Pindaro l’aδώς ovvero il pudore, il pudore con cui l’essere stesso sta a salvaguardia della propria essenza (con “pudore” intende “l’essere stesso che sta a salvaguardia della propria essenza” cioè non si mostra in quanto tale perché se l’essere si mostrasse in quanto tale si mostrerebbe in quanto significante, in quanto ente, e invece no, non può mostrarsi come significante perché allora il significato sarebbe il significante tout court, ma c’è la differenza ontologica, c’è la differance, c’è la differenza tra significante e significato che impedisce che avvenga questo, potremmo dire che la barra tra significato e significante di De Saussure è in un certo senso il pudore che ha il significato a manifestarsi nel significante, perché si manifesta sempre differendosi su altro. Abbiamo detto del pudore che salvaguardia l’essere, vi rileggo la frase:) aδώς ovvero il pudore con cu i l’essere stesso sta a salvaguardia della propria essenza mediante la quale (la propria essenza) essa assegna l’ἀλήθεια all’ente e all’uomo, questo ha come sua opposizione essenziale la λήθη. Ciò che Pindaro dice poeticamente circa la λήθη dimostra che nel mondo greco la reciproca opposizione essenziale fra ἀλήθεια e λήθη (cioè tra disvelatezza e svelatezza) venga non solo esperito ma anche pensato a fondo nel modo originario corrispondente per essere assunto nel pensiero, tale aspettativa viene però disattesa nella grecità né l’ἀλήθεια né la λήθη sono mai espressamente pensate a fondo nella loro propria essenza e nel loro fondamento essenziale e ciò perché ancora prima di qualsiasi pensare e poetare esse sono già essenzialmente presenti in tutto e per tutto come quella essenza che è da pensare (questo è importante, dicendo questo e cioè che il greco antico nonostante si sia trovato ad avere a che fare con questi termini non li abbia mai pensati a fondo è perché non si è accorto, il pensiero antico secondo Heidegger ovviamente, che in questi termini era presente ciò stesso che è da pensare, che cosa è da pensare? Questo movimento tra ἀλήθεια e λήθη, tra disvelatezza e velatezza, tra significante e significato, questo movimento che in effetti risulta, anche per lo stesso De Saussure, quasi indecifrabile, nel senso che per spiegare il significante ho bisogno del significato e per spiegare il significato necessito del significante. Questo movimento continuo e inarrestabile tale per cui nessuno dei due può esistere senza l’altro è per Heidegger proprio ciò che è da pensare, in altri termini ciò che è da pensare è il segno, ciò che è da pensare è la parola.) La Grecia pensa, compone poemi e agisce entro l’essenza dell’ἀλήθεια e della λήθη ma non pensa e non fa poesia su tale essenza né tratta di essa, (cioè “scorda” ciò che è da pensare, come precisa nel saggio Il fine della filosofia e il compito del pensiero, dove dice che i greci hanno pensato straordinariamente bene, ma non hanno pensato, ed è questo che ha consentito la costruzione della metafisica, non hanno pensato ciò che era da pensare, e ciò che era da pensare era l’ἀλήθεια, ma ora, in base a queste cose che sta dicendo non è solo l’ἀλήθεια, ma è il movimento tra l’ἀλήθεια e la λήθη, tra il disvelarsi e il velarsi. Questo movimento è l’essenziale, questo movimento è ciò che è da pensare e che i greci non hanno pensato, cioè i greci non pensando, diremmo noi adesso, alla struttura della parola, non pensando a questo hanno inventato la metafisica. L’invenzione della metafisica è stata possibile non pensando alla struttura della parola, cioè togliendo di mezzo la struttura della parola, solo a questa condizione è possibile costruire la metafisica, quindi la metafisica è impiantata su questa cancellazione, sulla cancellazione della struttura della parola. In quel saggio pone l’accento su questo particolare aspetto del pensiero greco, e cioè ciò che ha costruito la metafisica, come la metafisica si sia costruita su questa cancellazione: non avere pensato ciò che era da pensare, e quindi si è inventata la metafisica, perché la metafisica dicendo che le cose sono quelle che sono non tiene conto della parola, cioè del segno, non tiene conto della differenza, del differimento. Se io dico che questo è questo, o che questa cosa è quello che è, non tengo conto del fatto che dicendolo io mi trovo preso in un differire, dicendo “questo è questo”, ci sono già due “questo”. È la questione dell’identità, A = A, ci sono due A, quindi una, la prima, è quella che è in relazione alla seconda che garantisce che sia quella che è, quindi una cosa è quella che è se non lo è, perché la prima A è se stessa se e soltanto se c’è la seconda A che garantisce che la prima sia quello che è) Dovremmo quindi aspettarci che il rapporto essenziale tra ἀλήθεια e λήθη venga non solo esperito ma anche pensato a fondo nel modo originario corrispondente per essere assunto nel pensiero, tale aspettativa viene però disattesa /…/ Alla grecità è sufficiente essere circondata e interpellata dall’ἀλήθεια stessa, il fatto che il mondo greco al suo inizio non senta il bisogno di pensare l’essenza dell’ἀλήθεια e della λήθη è un segno della necessità che ne domina l’essenza se tuttavia al compimento della grecità prende avvio in un certo modo un pensiero sull’ἀλήθεια allora proprio tale avvio è il segno del compimento, diversamente stanno però le cose nella storia del mondo moderno e delle sue generazioni /…/ tuttavia nell’ambito del dire pensante dei greci l’ἀλήθεια, la λήθη vengono espressamente nominate questo dire ha la forma della saga iniziale ed è μύθος (il mito, il racconto, è curioso che lui dica che l’ἀλήθεια, la λήθη non sono pensate dal greco, non sono pensate come essenziali, vengono dette certo, però dice “laddove nell’ambito del dire pensante l’ἀλήθεια e la λήθη vengono espressamente nominate, questo dire ha la forma della saga iniziale” ed è il mito, il mito, il racconto, interviene come, secondo Heidegger? Intanto ci sta dicendo che il mito interviene là dove l’ἀλήθεια e la λήθη non sono pensate in quanto essenziali, vengono nominate sì certo è necessario che ci sia questo movimento di svelarsi e disvelarsi però non ci si chiede perché, semplicemente lo si accoglie, lo si prende così com’è, ed è lì che nasce il mito, il mito della nascita e della morte, del giorno e della notte, il mito del dio che opera questo e quell’altro, sono tutti miti che cercano di raccontare questo rapporto tra l’ἀλήθεια e la λήθη, tra la disvelatezza e il velamento. Dunque lo raccontano ma senza pensarlo, è questo che sta dicendo Heidegger. Tutto questo ci è utile per cogliere e affrontare in modo sempre più attento, più deciso, determinato, il modo in cui funziona la parola, parlando di questa oscillazione tra ἀλήθεια e λήθη Heidegger sta dicendo dell’oscillazione tra il significante e il significato, dice che non c’è disvelatezza senza velatezza, non c’è significato senza significante è la stessa cosa, ma che cosa significa questo esattamente? Perché è questo ciò di cui si tratta, è questo ciò che secondo lui i greci non hanno pensato, ma che cosa significa, che cosa vuole dire effettivamente che parliamo attraverso segni? Diceva Peirce che qualunque cosa è un segno, perché se è qualche cosa è qualche cosa per qualcuno nel senso che è un qualche cosa perché c’è un rinvio, perché c’è una differenza, perché differisce, perché si riferisce a qualche cos’altro se no non è qualche cosa, se no è niente, cosa significa tutto questo? Per Heidegger significa il crollo della metafisica, perché pensando in modo attento, essenziale, come dice lui, il segno, la differenza ontologica se preferite, a questo punto si dovrebbe eliminare, dico “dovrebbe”, il condizionale qui è d’obbligo, la possibilità stessa della metafisica, poi che sia così oppure no questo è un altro discorso un po’ più complicato, però certamente porre in questi termini così precisi la questione del segno, sia come la pone Heidegger, sia come la pone anche De Saussure impedisce che l’affermare “questo è questo” sia qualche cosa di più di una metafora e quindi se non è nulla più di una metafora allora la metafisica vacilla, perché a questo punto non c’è più la possibilità di poterlo stabilire con certezza, di poterlo affermare con quella che per i romani era la certitudo, cioè fare diventare questa affermazione un pilastro su cui ergersi e dal quale regnare.