2 febbraio 2022
Il sofista di Platone di M. Heidegger
Siamo a pag. 409. Ci si deve chiedere ora in che senso sia possibile capire il δοξαστικόν (pensiero comune) e con essa l’impossibilità dell’essere della τέχνη ἀντιλογική a partire da questa stessa. Cioè: della tecnica dell’antilogia, del contraddittorio. Qui Platone batte una via peculiare, mostra che la semplice presenza di questa impossibilità (della τέχνη ἀντιλογική, della capacità del sofista) è possibile alla base della semplice presenza di una impossibilità ancora superiore. Egli orienta l’osservazione verso un contesto che non ci è del tutto estraneo. Se uno dicesse di sapere non solo dire e contraddire a proposito di tutto quello che c’è ma addirittura di sapere fare tutto con una sola τέχνη, e cioè di essere capace non solo di quello che abbiamo già visto essere possibile, cioè di parlare di tutto come se fosse già alla portata ma addirittura vantasse la pretesa di fare esistere qualcosa che ancora non c’è e, anzi, proprio tutto quello che non c’è. Ebbene, che cosa gli dovremmo dire? In un primo tempo, Teeteto non capisce esattamente che cosa intenda dire questo discorso, ovvero, Platone vuole spiegare in modo ancora più chiaro che qui si deve effettivamente valutare l’idea di una produzione, di una ποίησις con la quale produrre tutte le cose, vale a dire, tutto ciò che prima era stato annoverato entro l’ambito di possibilità dell’ἀντιλέγειν (contraddittorio). Di fronte a una simile possibilità di condurre all’essere davvero tutto e non solo di discutere si ciò che è lì presente, Teeteto dice una cosa del genere, potrebbe essere soltanto per scherzo. Soltanto per scherzo ci potrebbe essere una condotta tale da avere anche solo l’aria di fare davvero ciò che fa e di produrre davvero quel che produce. Se una cosa del genere è possibile per scherzo ciò significa che questo ποίηιν (produzione) non è un vero ποίηιν. Ma, allora, con quale ποίηιν abbiamo qui a che fare? In che cosa consiste l’inautenticità di questo ποίηιν? Se il sofista dice una cosa del genere, cioè che fa esistere cose che ancora non ci sono, e quell’altro dice che è per scherzo, che non può essere vero, vuol dire che questa produzione, questa cosa che fa il sofista, è finta, e infatti Teeteto dice che è uno scherzo. In che cosa consiste l’inautenticità di questo ποίηιν, che qui ancora viene ammesso sia pure entro certi limiti? Questo ποίηιν è un fare in modo che tutto sembri “come se”; quindi, non è un ποίηιν nel senso del produrre, bensì un fare che gli è peraltro affine, il quale dà a vedere. Qui dovreste ricordarvi di quello che avevamo già sottolineato in precedenza: sussiste una peculiare interconnessione tra l’esistere di un ente prodotto, ovvero di un ente sensibile in quanto tale, e il ποίηιν come ποίηιν δοκεῖν (produzione di un’idea), nel senso del dare a vedere. Anche colui che produce qualcosa nel vero senso della parola, così la pensano i Greci, fa con ciò vedere qualcosa, cioè, offre un’immagine nel suo contenuto reale. Anche nel ποίηιν, nella produzione vera e propria, è implicito il senso del condurre alla presenza e quindi del far vedere. Sapete bene che per i Greci l’essere è ciò che appare, è ciò che si vede, cosa così come la vedo. Qui, invece, in questo ποίηιν non si estende sino alla cosa, bensì fino al δοκεῖν, cioè all’idea, all’opinione, si limita a farla apparire tale senza esserlo. Ciò che è prodotto, dunque, non è la cosa stessa ma il suo μίμεμα, cioè la sua imitazione. Ora, però, tale imitazione viene designata con la stessa parola che indica la cosa essente: l’albero dipinto viene chiamato albero come quello reale. E poiché l’osservazione del mondo e la valutazione che se ne dà nel discorso naturale rimangono nella dimensione della parola, del parlare, sussiste anche la possibilità che in quelle cose, di cui comunemente si discute, ci si basi proprio sulle parole, senza che sia senz’altro possibile desumere dal nome se si tratti di una imitazione oppure di un ente in senso proprio. Ebbene, coloro che sono espressamente intenzionati ποίηιν πάντα δοκεῖν (costruire delle opinioni) procedono in modo da far vedere ciò che mostrano. Da lontano non danno la possibilità di guardare le cose nel dettaglio. Con questo loro modo di far vedere da lontano essi sono in grado di restare nascosti in ciò che realmente fanno. Platone parla del sofista come di colui che si nasconde: la fiera che è sempre nascosta, che non si riesce mai ad agguantare. Questa maniera di procedere, proprio di una τέχνη - far vedere qualcosa da lontano e con ciò spacciarsi per colui che produce le cose – una τέχνη siffatta, come diceva Platone, la possediamo in fin dei conti anche nel campo del λέγειν (dire). Sicché anche in questo caso sussisterebbe un πάντα λέγειν (un dire su tutto), che non sarebbe propriamente un discorso bensì un discorso sulle cose, il quale mostra, fa vedere qualcosa che solo appare, come le cose di cui si parla e precisamente in modo che il discoro verta su tutto. Ciò che viene mostrato, dunque, non è l’εἶδος, l’immagine, e neanche la sostanza, bensì l’εἴδωλον, il simulacro… Il simulacro, qualcosa che imita qualche altra cosa. …non già la cosa stessa come essa è in sé ma unicamente il suo aspetto immediato. Dice, dunque, che il sofista fa questo: mostra non già la cosa stessa ma il suo aspetto immediato. Naturalmente, qui si pone una questione: mostrare la cosa stessa. Per mostrare la cosa stessa occorre sapere che cos’è la cosa stessa, averla determinata, cioè, sapere che cos’è l’ente. Qui, naturalmente, sorgono i problemi e Platone cerca di aggirarli. Vedremo poi che non è così semplice. Ci troviamo in tal modo in un contesto del tutto nuovo. Quale τέχνη, quale abilità del discorrere è interpretata a partire da un tipo di azione completamente diverso? In precedenza, il discorso in senso proprio era appropriazione, ϑέσις e χειροῦσθαι … Questi termini indicano l’appropriazione, il far proprio di qualche cosa attraverso il λέγειν, attraverso il dire; è attraverso la parola che io mi approprio delle cose. …cioè un atteggiamento strutturalmente assai diverso rispetto a vero e proprio λέγειν, nel senso dell’appropriazione, del farsi dare la cosa stessa. Il “farsi dare la cosa stessa” come se la cosa stessa si desse da sé, si mostrasse da sé. Questo ποίηιν, di contro al χειροῦσθαι … La produzione di contro al darsi da sé della cosa. …concerne qualcosa che è già lì presente, che non è un mostrare la sostanza della cosa, bensì è riferito all’opinione, al credere. Vale a dire, non già le cose stesse vengono prodotte nella τέχνη del sofista, bensì un certo modo di darsi delle cose. Il sofista, cioè, non mostra la cosa, non la può mostrare, mostra un modo della cosa, di volta in volta modi diversi in cui la cosa appare, che sono i modi che poi la determinano. Ma la modalità determinata di questo darsi è un darsi a vedere nell’avere solo l’aspetto di qualcosa, cioè nell’εἴδωλον (simulacro). Dunque, come si è detto qui, il λέγειν non è un farsi dare la cosa stessa, bensì un ποίηιν, e precisamente un ποίηιν del mero sembrare come. Quindi, quello che fa il sofista non è l’offrire la cosa in sé ma è costruirla: ποίηιν, produzione. Lui non dà le cose, non presenta le cose come stanno, le cose le produce, nel modo che ritiene più opportuno. Ecco perché la τέχνη σοφιστική, l’abilità del sofista, è una produzione di simulacri, di immagini, e pertanto il sofista è in un certo qual modo un imitatore delle cose che sono. Insiste sempre la differenza tra le cose che sono e la loro imitazione, cioè cose che non sono. Questo è l’approccio di Platone al problema tra ente e non-ente: come accettare che esista il non-ente? Come è possibile parlare di qualcosa che non è? Attraverso questa via indiretta Platone è riuscito ad afferrare già più nettamente ciò cui è riferita questa τέχνη verso cui sono indirizzati gli εἴδωλα (i simulacri). È ciò con cui il sofista ha a che fare, ciò di cui in definitiva si occupa è un ποίηιν e non ciò che invece dovrebbe essere trattandosi di un λέγειν nel senso di un χειροῦσθαι, cioè di un farsi dare. Il sofista non mostra le cose così come si danno, come sono, ma il sofista le costruisce con la sua τέχνη, con la sua abilità. Pertanto, l’ἀντιλέγειν (contraddittorio), nel senso della possibilità del discorso intorno a tutto… All’opposto il sofista è in grado di disporre in certa qual maniera da sé del modo in cui si fa incontro l’ente di cui si deve parlare. Vedete, il sofista produce questo ente parlando. Ecco la famosa questione del sofista, quando Teeteto gli indica l’albero, “vedi quell’albero”, il sofista dice “no, non lo vedo, ma se tu me ne pali allora lo vedrò”. Ciò vuol dire allora che questo ποίηιν non si realizza in modo autentico, serio, ma solo per scherzo… Perché la seriosità è soltanto della dialettica, che vuole mostrare l’ente come è. Ugualmente anche nel sofista il suo mestiere è reso possibile solo dal fatto che egli si rivolge a coloro che stanno ancora molto lontani dalla svelatezza delle cose e, quindi, non sono affatto in grado di esaminare, a partire dalle cose stesse, ciò che egli presenta loro nei suoi discorsi. Certo, lo straniero fa notare che nel corso del tempo, per tramite dei μάθημα (insegnamenti), dell’esperienza fatta, anche quelli che hanno imparato nella scuola dei sofisti saranno condotti più vicino alle cose. Saranno costretti a intervenire con grande chiarezza, sicché salterà loro agli occhi la differenza che c’è tra le fantasie rispetto a questi discorsi, che nei discorsi sulle cose si limita in un primo momento ad apparire in un certo modo e ciò che vi è di fatto nell’effettivo avere a che fare con le cose, nel misurarsi con queste. Ma anche così ora che la σοφιστική si è rivelata come μιμετική, Platone non si dà pace. Qui Heidegger si rende conto della disperazione di Platone, che cerca in tutti i modi di stabilire con certezza che quello che fa il sofista, che è imitazione, non è e non deve essere la realtà dell’ente. Deve emergere in termini più netti il peculiare essere semplicemente presente della parvenza, in modo cioè da evitare che un qualsiasi banale non-essere possa diventare la base tematica per la discussione cui egli aspira. Questo non-essere, per dirla in modo spiccio, deve essere tenuto a bada molto seriamente. È questo l’aspetto serio di tutta la questione: va tenuto a bada il non-ente in modo che non minacci l’ente con la sua presenza. Per mostrare che di fatto un non-ente c’è Platone non ricorre direttamente al λέγειν, che ha per lui un interesse centrale, nemmeno alla τέχνη del sofista stesso, bensì cerca piuttosto di collocare la τέχνη del sofista nell’orizzonte di un’altra τέχνη, nella quale vi è di fatto qualcosa come il non-ente, che come tale è più accessibile alla comprensione naturale, vale a dire, nell’orizzonte della τέχνη μιμετική. Qui Platone compie quella operazione che compie sempre: non combatte il sofista con le sue armi, cioè, con argomentazioni. Cos’è un sofisma? Non è altro che un’argomentazione che non crede al luogo comune, e, quindi, interroga anche il luogo comune, ciò che è creduto dai più per lo più. Quindi, non ha argomentazioni contro il sofista sufficientemente potenti e, allora, ricorre a degli esempi, a delle analogie. Già in precedenza, quando si è parlato della μοιετική in merito alle indicazioni dell’orizzonte per la determinazione de pescatore, dove tutto è iniziato… Faceva l’esempio del pescatore che con la lenza tira su il pesce per incominciare a vedere di determinare il concetto stesso di τέχνη, cioè di abilità nel fare. …c’è stato occasione di far notare che il concetto di οὐσία (sostanza, essere) è connesso con il ποίηιν e che il ποίηιν non è altro che un produrre. Μιμεῖσθαι significa rappresentare, λέγειν significa rendere manifesto. Tutti e tre questi atteggiamenti possiedono, in relazione a ciò cui sono riferiti, il senso fondamentale del fare vedere. Per i Greci è sempre stato determinante il fare vedere, la vista. Sappiamo anche perché la vista è così importante, è quella che consente da una parte di cogliere con il colpo d’occhio il tutto, l’intero, il concreto, come direbbe Severino, ma consente anche di cogliere tutti i dettagli, a uno a uno, cosa che gli altri sensi non riescono a fare. Ecco perché la vista è prioritaria su tutti gli altri sensi. Il produrre, dunque, inteso come un fabbricare è un rendere disponibile, un porre nella disponibilità, nella presenza e, dunque, far vedere. Ugualmente, il μιμεῖσθαι, il rappresentare nella raffigurazione, è un far vedere e la medesima funzione spetta anche al λέγειν. Qui è interessante il fatto che tutto sommato non distingua il far vedere, come qualcosa che io rappresento – produco una statuetta e la mostro –, ma anche nel λέγειν, nel dire, io mostro qualche cosa. C’è quella famosa figura retorica che indica in modo specifico questo sapere fare, questa τέχνη: l’ipotiposi. L’ipotiposi è quella figura retorica che consiste nel mostrare, attraverso il dire, qualcosa in modo così vivo, così potente, così autentico, che pare di vederlo realmente. Alcuni scrittori riescono bene in questa operazione, uno molto bravo era Proust. È importante il senso di fondo di questa azione come tale (il fare vedere), è l’identità di tale senso di sfondo a suggerire e a illustrare le modalità del far vedere così come sono presenti nel λέγειν e ciò a partire da μίμησις come fare vedere nel modo del rappresentare e della ποίησις come fare vedere nel senso del produrre. Nella ποίησις il prodotto, che lui mette uguale a οὐσία, essere, uguale a immagine, è qualcosa che viene visto, qualcosa che c’è… /…/ Analogamente anche nel λέγειν, in quanto essa del tipo della μίμησις, il λεγόμενον (detto) è del tipo dell’εἴδωλον (simulacro)… Anche il detto è un simulacro, perché in effetti io dico una cosa, ma se dico una cosa, se descrivo questo accendino, la mia descrizione non è questo accendino. Tutti questi sono tutti modi dell’essere scoperti e come tali sono riferiti al vedere. Qui ciò che fa vedere è il linguaggio. La produzione, il simulacro, sono tutti modi di fare vedere qualcosa. Se dunque Platone colloca la τέχνη σοφιστική, l’abilità del sofista, nell’orizzonte della μιμετική, la scelta di questo orizzonte non è casuale ma fondata nella cosa stessa, cioè nel tipo di interrelazione tra ποίησις e λέγειν, ovvero, tra essere e il detto, in quanto per i Greci essere significa appunto essere presente, essere alla presenza. Quindi, se rendo presente dicendo qualche cosa, quella cosa è. Ne va dunque in questa esplicazione più approfondita del senso dell’εἴδωλον, delle sue differenti possibilità, del rapporto fra rappresentante e rappresentato, ovvero, fra l’immagine e il raffigurato, non dico riprodotto, poiché il riprodurre è solo una determinata modalità del raffigurare. Con il fenomeno dell’immagine, che qui svolge un ruolo decisivo, arriviamo a toccare un contesto moto importante. La figuratività, nel senso dell’essere immagine da parte di qualcosa, ha rivestito in filosofia una funzione rilevante, in parte proprio richiamandosi alla filosofia greca nella spiegazione della conoscenza, in quanto si afferma che in un certo senso gli oggetti fuori di noi, al di fuori della coscienza, si parla altresì di oggetto trascendente, vengono riprodotti da un oggetto immanente, o viceversa, che raggiungiamo l’oggetto trascendente solo a partire da quelli immanenti. Qui c’è chiaramente l’abbozzo di una interconnessione tra il trascendente e l’immanente, tra il tutto, come trascendente, e l’immanente, le singole cose. L’interconnessione strutturale della figuratività assume un ruolo fondativo rispetto all’interpretazione della conoscenza, anche qualora non se ne abbia esplicita consapevolezza… /…/ È quello che Husserl ha evidenziato in termini assolutamente decisivi e irrefutabili da venticinque anni orsono nelle sue Ricerche logiche. Vi si dice che nel fenomeno dell’immagine bisogna anzitutto distinguere l’oggetto immagine. Con esso si intende l’immagine stessa nel senso dell’oggetto che sta, ad esempio, appeso alla parete, della statua posta su un piedistallo, e poi quello che viene chiamato il soggetto dell’immagine, vale a dire, ciò che viene rappresentato nell’immagine stessa. Husserl osserva che la somiglianza tra i due oggetti, fosse anche così grande che i due coincidono nel loro quid, non è ancora sufficiente per dire che l’uno è l’immagine dell’altro e che, invece, perché qualcosa sia immagine di qualcos’altro, sono necessari momenti strutturali essenzialmente nuovi /…/ Qui a Platone non interessa essere l’immagine come tale… A lui interessa potere distinguere l’immagine dal reale. …il fenomeno della figuratività in sé /…/ Egli non dispone nemmeno dei mezzi per mettere a nudo questi nessi strutturali. All’interno dell’interconnessione strutturale della figuratività gli preme piuttosto dimostrare che quello che noi chiamiamo oggetto-immagine, cioè il rappresentante, è invero lì presente. Ma proprio in questa sua semplice presenza non è ciò che esso, come immagine, fa vedere. Questo è l’essenziale per Platone: l’immagine non è la cosa stessa. È questa la differenza che sta a cuore a Platone, il fatto cioè che l’immagine, e con l’immagine che abbiamo lì davanti, c’è qualcosa che non è esso stesso ciò che l’immagine mostra... È questo ciò di cui accusa i sofisti: di mostrare soltanto immagini, εἴδωλα, anziché far vedere come stanno veramente le cose. …ovvero qualcosa che non è esso stesso ciò per cui propriamente l’immagine si spaccia. Nell’essere immagine gli interessa il rapporto fra il modo di essere dell’oggetto-immagine e il rappresentato in quanto tale. /…/ Ed ecco saltar fuori un aspetto rimarchevole, come osserva anche lo Straniero, vale dire, la μιμετική τέχνη, nell’insieme pressoché totalmente, procede al modo della τέχνη φανταστική (abilità nel produrre fantasie, immagini, ecc.). Quasi ogni arte è tale, non solo in quello della εἰκαστική ma anche in quello della φανταστική. Lui distingue fra εἰκαστική, come riproduzione esatta della cosa, e il φανταστική, come riproduzione immaginifica della cosa. Se però in questa è presente qualcosa, che è in misura ancora minore ciò che raffigura e se questa φανταστική è il tipo più diffuso della μιμετική, allora l’essere presente di fatto del non-ente non può più in alcun modo essere contestato. Qui è contro Parmenide, che negava l’esistenza del non-ente. Chiaramente, come sappiamo, la questione è un po’ più complessa. Il motivo portante qui è riuscire ad ammettere l’esistenza del non-ente, cioè del falso, l’ente è il vero e il non-ente è il falso. Solo ammettendo l’esistenza del non ente, quindi, del falso, è possibile dire e affermare che il sofista mente, inganna. Così abbiamo evidenziato nella μιμετική un ποιούμενον (un produttore), un alcunché di prodotto, di creato, che non è affatto ciò per cui si spaccia. Quindi, è possibile creare che non è ciò che dice di essere. È la definizione del sofista: il sofista non è ciò che dice di essere. Il sofista dice di essere colui che può mostrare come stanno le cose, può mostrare il modo in cui le cose appaiono, però, dice Platone, lui non conosce veramente le cose, non sa veramente degli enti, quindi, inganna. Perciò Platone sottolinea questa differenza all’interno dell’εἴδωλοποιική (produzione del simulacro) al fine di mostrare in tal modo fino a che punto in ciò che è prodotto dalla τέχνη μιμετική e, in senso traslato, del sofista è contenuto un non-ente. È questo ciò che a lui interessa: mostrare che il non-ente c’è, e se il non-ente c’è allora è possibile mentire. Stando a Parmenide, almeno secondo l’interpretazione che ne dà Platone, non è possibile mentire perché l’essere è necessariamente e il non-essere non è; quindi, se il non-essere non è non c’è possibilità di menzogna: tutto ciò che è, è vero. L’εἴδωλον, nel senso dell’εἰκών (immagine) non è uguale a ciò che esso rappresenta. Il fantasma invece non solo diverge sotto il profilo dell’immagine da ciò che esso rappresenta ma anche nel suo stesso contenuto reale differisce a maggior ragione da ciò che esso non è, sicché il carattere figurativo del fantasma possiede ancor più i tratti del non-ente. Che in questo contesto a Patone interessi mettere in luce il non-ente risulta chiaramente dal fatto che nel seguito della discussione, quando il discorso verte nuovamente su εἴδωλον e fantasma, egli non si sofferma più sulla differenza tra εἰκαστική e φανταστική (sui due modi riproduzione) in quanto gli preme unicamente di sottolineare che nell’εἴδωλον come tale si rende disponibile il fenomeno del non-ente. Platone vede nel simulacro il non-ente, il non-essere. C’è, quindi, la possibilità del falso, per cui è possibile dire il falso. Così come è possibile costruire una statua che non è ciò che rappresenta e, pertanto, dice il falso rispetto al vero, che è ciò che è rappresentato, allo stesso modo il sofista fa questo rispetto ai discorsi: non costruisce discorsi veri, costruisce discorsi che sembrano veri. Questo non-ente corrisponde a ciò che lo stesso sofista produce in quel che fa. Che cosa egli faccia propriamente, che cosa sia ad avere il carattere del non-ente, non risulta ancora davvero chiaro, in questa trattazione non è affatto a tema il λέγειν. L’intera esibizione dell’effettivo essere lì presente del non-ente nel fantasma è invece condotta prendendo in esame la μιμετική. In tal modo ci viene messo davanti agli occhi la semplice presenza del non-ente, ma nel contempo lo Straniero afferma “Il sofista ci è sfuggito, c’è nuovamente sgusciato dalle mani in un sembiante, con il quale non abbiamo più la ben che minima dimestichezza, per cui non abbiamo più alcuna via d’uscita”. Ci troviamo propriamente in questa situazione. Effettivamente il non-ente è lì, fermo nella sua semplice presenza, e qui il sofista è, se così si può dire, la mutevole fatticità del non-ente. Ma proprio in tal modo la perplessità si fa totale in quanto è ben legittimo il principio che dice “l’ente è, il non-ente non è”. È significativo che Platone sottolinei in vario modo in questo contesto che il sofista sia sparito come inabissandosi, si è immerso, dice, in un luogo che non ha vie d’accesso né vie d’uscita. Il non-ente non ha vie d’accesso, se è un non-ente come vi accedo? Non ha neanche vie d’uscita perché se non posso entrarvi non posso neanche uscirne. È sfuggito, è andato a nascondersi nelle tenebre del non-ente. È oscuro, egli stesso risulta difficile da vedere. Evidentemente, il sofista potrà essere stanato dal suo nascondiglio nelle tenebre soltanto se si trova un’immagine, un εἶδος di ciò che egli è, ossia, del μή ὄν. Questo μή ὄν appare qui come l’indeterminato, una specie di ἄπειρον, avrebbe detto Anassimandro, di cui non si può dire niente, non si può determinare, non si può dominare, e lui dice che il sofista è andato proprio lì a nascondersi, nel non-ente. E, allora, dobbiamo determinare questo non-ente per stanare il sofista, per farlo venire in luce, per vedere di che cosa è fatto. La Sezione seconda riguarda la localizzazione ontologica. L’essere del non-ente. Ricapitolando in termini che potremmo dire affatto formali, la semplice presenza di immagini e la fatticità del sofista ci hanno offerto qualcosa che possiamo indicare così: abbiamo la fattispecie del φαίνεσθαι (ciò che si mostra), del mostrarsi come se, ovvero, dell’apparire come se ma senza esserlo, ovvero, rivolgersi a qualcosa o, più precisamente, farlo vedere rivolgendosi a esso chiamandolo in causa, ma non farlo vedere nel suo essere scoperto… Sta qui tutta la questione che sta riassumendo. Tutto ciò, afferma lo Straniero, è colmo di difficoltà e non soltanto adesso ma sempre. Ed è estremamente difficile, è come se uno affermando che si dà effettivamente uno ψεύδῆ λέγειν (un discorso falso) non si trovasse necessariamente nella condizione di parlare contro se stesso. Chiunque dichiari che si dà uno ψεῦδος λόγος (discorso falso) è costretto a parlare contro se stesso, sta infatti affermando che c’è un λόγος, un manifestare, e che questo discorso è falso, è precludente. Ci, dunque, dice che c’è uno ψεῦδος λόγος dice che si dà un far vedere occultante, che è come un aprire ostruente. Può essere un aprire ostruente, un far vedere occultante? Sì, è ciò che fa il linguaggio. Però, per Platone questa cosa deve essere dominata, deve essere addomesticata. Proviamo a fare un esempio. Conoscenza vera e propria non è la percezione sensibile di un tavolo. Questo tavolo qui, inteso come un certo qui e ora, bensì rendersi conto del fatto che qui vi sia qualcosa come un tavolo. Questa è la conoscenza vera e propria, dice Platone: il sapere che c’è un qualche cosa qui. È un tavolo, certo, potrebbe essere qualunque cosa, ma c’è qualcosa. Pertanto, la conoscenza vera e propria non è mirata a questo qui ma al suo che cosa. Non è mirata al tavolo in quanto tale, non è mirata all’astratto, come direbbe Severino, ma al concreto, cioè al tutto, a ciò per cui questo tavolo esiste. Se non fossimo nel linguaggio questo tavolo non potrebbe esistere, né nessun’altra cosa. Perché qualche cosa sia occorre che prima io sappia che c’è qualcosa da vedere, che c’è qualcosa; solo allora posso incominciare a determinare, ad astrarre. Ma cosa mi fa sapere che c’è qualcosa? È questo il punto. Il tavolo in sé e per sé non è qualcosa che io possa vedere con gli occhi, posso invece soltanto reputarlo, cioè vederlo nel senso del puro vedere con l’anima, con il νοῦς (intelletto). È dunque a questo, già nel Teeteto, si orienta la conoscenza vera e propria. Sebbene Platone non abbia ancora ben chiaro come stiano propriamente le cose, a proposito di questo vedere e reputare… Lo diventerà più chiaro quando costruirà la sua dottrina delle Idee. …rimane comunque che egli determina la δόξα come λόγος. La δόξα, ovvero il vedere e il reputare, è un discorso che l’anima percorre a fondo presso di sé con se stessa e ciò collima con la perifrasi della dialettica come un rivolgersi a, discutere, percorrere a fondo ciò che essa stessa, l’anima. Nel proprio campo visivo è invero l’anima di per sé sola senza la percezione sensibile. Naturalmente, questo in Platone. È chiaro che lui sostiene la sua teoria delle Idee. Per Platone, io ho idea di questo tavolo perché esiste un’idea che precede questo singolo tavolo ed è attraverso questa idea che io posso vedere questo tavolo, sennò non lo vedrei mai. Un bruco non può vedere questo tavolo perché non è nel linguaggio, per lui non c’è un qualche cosa da vedere, non c’è niente. Per Platone questo è un discorso che non viene pronunciato verso qualcuno, bensì, come ho detto sopra, verso se stessi, non al modo dell’espressione verbale ma in silenzio a se stessi. In questa differenziazione si fa chiaro al contempo quale sia altrimenti la struttura del λόγος comunemente inteso: il parare a un altro con un altro, alla maniera dell’espressione sonora. Qui, invece, il λόγος non è un rivolgersi a un altro ma silenziosamente a se stessi, e ciò significa unicamente che in questo parlare ne va dell’appropriazione e non della comunicazione a un altro. L’appropriazione. Io mi approprio di qualcosa parlando. Nella parola si dice qualche cosa, se parlo dico qualche cosa, ed è di questo qualche cosa che parlando io mi approprio o cerco di appropriarmene. Mi approprio nel senso che propriamente lo faccio esistere. Tutto in questo λόγος è orientato all’appropriazione di quanto visto, alla sua svelatezza, l’appropriazione di ciò che è stato avvistato, nel senso stesso in cui la δόξα è interpretata come λόγος, nel sofista è la διάνοια, cioè il pensiero vero e proprio, l’autentico ritenere a essere espressamente caratterizzata come διάλογος. /…/ Soltanto ora affiora il significato delle definizioni apparentemente scolastiche di sofista. Platone si trova qui di fronte a una scelta. Può continuare a condividere un dogma di scuola di Parmenide (l’essere è e il non essere non è), di antica tradizione e, dunque, non vi è alcuno ψεῦδος λόγος… Per Parmenide, almeno in teoria, non c’è nessun discorso falso se c’è soltanto l’essere, quindi, il vero. …e allora però non è possibile ἀντιλέγειν περί πάντα (contraddire intorno a tutto). In tal caso egli dovrà ammettere che non c’è alcun sofista… È questo che fa il sofista, per cui se non è possibile non ci sarà nemmeno il sofista. …perché è impossibile che vi sia. In altri termini, conoscendo il dogma scolastico di Parmenide, egli dovrà riconoscere i sofisti come filosofi, ma dovrà rinunciare a se stesso dato che non sussiste nessuna differenza tra ciò che essi fanno e il suo modo di porsi in contrasto con loro; oppure, invece, dovrà riconoscere la sussistenza di fatto, la semplice presenza del sofista e, pertanto, del non-ente, del falso, accogliere per quel che è il darsi di fatto dell’inganno, della contraffazione e della distorsione; dunque, trasformare la teoria dell’essere. Adesso si pone quindi questa alternativa: o concedere alle cose stesse il loro diritto e con ciò impegnarsi per esse a non avere alcun rispetto nei confronti di qualsiasi teoria precostituita, oppure, limitarsi ad attenersi unicamente alla tradizione, perché questa è venerabile, e con ciò rinunciare a sé e alla ricerca, dato che questa è sempre indagine sulla realtà delle cose. /…/ In Platone il principio di Parmenide non viene semplicemente rovesciato con un colpo di mano ma, anzi, dopo aver riportato tale principio egli ribadisce “Vogliamo metterlo alla prova, vogliamo verificare come stanno le cose a proposito di tale principio, il quale afferma: mai tu potrai imporre, nel senso di poter affermare, mai potrai affermare che il non-ente sia, bensì tieniti lontano, allontana il tuo pensiero, il tuo meditare, il tuo vedere da questa via di indagine. Se dirigi a ciò il tuo sentire non giungerai affatto al tema dell’effettivo ritenere, pensiero”. “Contro tale divieto”, disse allora lo Straniero, nel senso di una domanda, “vogliamo osare a esprimere in qualche modo ciò che non è affatto”. È questo che stiamo facendo? chiede lo Straniero. Platone vuole determinare il non-ente e, allora, lo Straniero, nel dialogo, gli chiede “Ma è proprio questo quello che vogliamo fare: determinare ciò che non è affatto?”. Fate attenzione, si tratta di esprimere un λέγειν in senso ben preciso. Teeteto risponde “Perché no?”. Non ha alcun impedimento intendere ciò come una cosa ovvia (parlare del non-essere, del non-ente), non vede alcuna difficoltà, cioè, si richiama del tutto spontaneamente alla chiacchiera, a ciò che finora abbiamo fatto costantemente. Non ha alcuna difficoltà perché non compie alcun tentativo di verificare che cosa potrebbe propriamente intendere l’espressione μή ὄν, che risulta senz’altro comprensibile a ciascuno. Dice le parole με ὄν senza una visione rigorosa di ciò che in realtà egli voglia dire usandole. Che è ciò che accade sempre: ciascuno dice cose ma non sa, di fatto, di che cosa stia parlando. Ma ora lo Straniero lo incalza “Non si tratta di parlare per scherzo o per una discussione qualsiasi, bensì adesso il discorso si fa serio. Io pretendo da te una risposta dopo che tu hai preso visione della cosa insieme a me. Soltanto allora dovrai rispondermi in merito a che cosa vada appropriatamente attribuito questa espressione μή ὄν”. Come dire: di che cosa parliamo se diciamo non-ente? Certo, chiunque può dire non-ente, ma che cosa sta dicendo esattamente? Questo è un problema: che cosa vuol dire? Che cosa mi è dato quando pronuncio sensatamente tale espressione μή ὄν? Cosa mi è dato? Cosa mi giunge? Un nome, una parola, non è una semplice manifestazione sonora, nel senso di un rumore che viene emesso. Nel suo caso non avviene di certo che un suono si faccia udire, nel contempo del tutto occasionalmente ne affiora la cosiddetta rappresentazione. Nella parola stessa, invece, ed è questo il suo senso primario, è inteso qualcosa. Già nel parlare naturalmente assieme, nel colloquio, non siamo orientati ai suoni stessi che sentiamo, bensì, in primo luogo e in modo del tutto naturale, a ciò che è detto. Non ascoltiamo i suoni ma il significato dei discorsi che la persona sta facendo. Sì, certo, sentiamo suoni ma essi non ci sono affatto dati tematicamente come suoni né come tali sono colti. Non cogliamo i suoni in quanto tali. Persino quando non capiamo un discorso parlato e, quindi, non siamo in grado di seguire un insieme di parole quanto al suo significato, pure in tal caso non udiamo rumori ma, appunto, parole e frasi incomprese. /…/ La modalità primaria dell’affermare è la comprensione di ciò che viene detto. … il nome come tale, e qui anticipo queste nozioni per chiarire bene il contesto, implica già ἐπί, orientamento verso la cosa. Anche ἐπί vuole dire molte cose, vuole dire: orientamento, sopra, relativo a… Dunque, orientamento verso la cosa. Una parola che sentiamo ci orienta verso qualcosa. Sta dicendo questo: quando noi ascoltiamo il discorso di qualcuno, quello che ci dice ci orienta verso qualcosa. Una parola allude a qualcosa in un senso affatto peculiare del denotare e implica, mostra qualcosa. La domanda è dunque questa: rispetto a che cosa adoperiamo l’espressione μή ὄν? Come è fatta questa cosa? Quando io dico μή ὄν, questa parola non-ente, verso cosa mi indirizza? Qual è il suo significato? È questo che sta dicendo. Che cosa vogliamo mostrare a colui che domanda che cosa s’intenda dire? Cosa gli diciamo, cosa gli mostriamo. Questo è molto greco: nel dire mostro qualcosa. La risposta di Teeteto suona già essenzialmente diversa: “Sono del tutto perplesso ora nel risponderti”. Allora lo Straniero viene in aiuto: “Innanzitutto, è palese, è chiaro che ‘espressione μή ὄν non può essere orientata quanto al suo significato a qualcosa che abbia il carattere dell’ὄν”. Teeteto si dichiara d’accordo. Adesso lo Straniero fa compiere al pensiero un passo avanti nella direzione di chiarire che cosa significhi in generale τί λέγειν (parlare di qualcosa). Evidentemente, riallacciandoci a quanto già detto, anche se volessimo riferire a qualcosa il significato dell’espressione με ὄν, non condurremmo rettamente tale espressione nella direzione giusta. Certo, perché se vogliamo dire qualche cosa correttamente sul non-ente, nel dirlo lo trasformiamo in ente e, quindi, non stiamo già dicendo più niente del non-ente. Dunque, μή ὄν non può intendere un ὄν… Se è un non-ente non può intendere un ente. …ma non-ente non può intendere nemmeno un τί, un qualcosa. È pur chiaro che quando diciamo τί ogni volta lo riferiamo a un qualche ente. Il fatto è questo: dicendo necessariamente dico qualcosa. Ma se questo qualcosa lo pongo come non-ente, diventa un problema perché se dico, dico necessariamente qualcosa, ma questo qualcosa non c’è. Diventa un grossissimo problema perché se non c’è questo qualcosa che io dico non c’è nemmeno il mio dire, perché sono le due facce dello stesso.