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1 dicembre 2021

 

Platone Sofista

 

Leggere oggi Il Sofista di Platone ha avuto degli effetti singolari. Innanzitutto, mostra il tentativo di costruire un discorso che tiene conto fortemente della volontà di potenza. Platone non parla di questo, naturalmente, ma ciò che dice rinvia a questo. A pag. 275. Qui discutono lo Straniero e Teeteto. Lo Straniero è un eleate, allievo di Parmenide. Prima stavano facendo un discorso, che ora tralasciamo, su quale sia l’arte del sofista e parte dal considerare che il sofista è colui che cerca giovani ricchi per insegnare cose. E, allora, si chiedono che cosa insegni esattamente. Si chiede: … bisogna, dunque, affermare che dell’arte dell’insegnamento esiste soltanto un unico genere o più? E se più, due determinati generi di essa sono i più importanti? /…/ E mi sembra che per questa via in qualche modo possiamo trovarli molto rapidamente. Sono i generi dell’insegnamento. Parrebbe che il sofista insegni qualcosa. Guardando se l’ignoranza in qualche maniera abbia un taglio nel suo mezzo. Infatti, se essa è duplice, è chiaro che anche l’arte dell’insegnamento deve per forza avere due parti, una per ciascuno dei generi dell’ignoranza. /…/ Mi sembra di vedere una specie ben distinta, grande e pericolosa, che fa da contrappeso a tutte le altre sue parti. /…/ Il credere di sapere qualcosa… Questa questione è molto importante in Platone e in particolare nel Sofista perché l’accusa che Platone rivolgeva ai sofisti era di insegnare cose che non erano il vero ma che somigliavano al vero, mentre il filosofo è colui che trova il vero. Tutto questo discorso, che vedremo mano a mano, è improntato a giungere a un certo risultato, e cioè che è possibile essere in errore. Cosa che per gli eleati non era così automatico in quanto, perché ci sia un errore, occorre che ci sia il vero da qualche parte, e per gli eleati questo era un problema. Ma perché gli interessa questo? Lo interessa perché soltanto se è possibile sbagliare allora è possibile educare, allora è possibile biasimare, allora è possibile essere nella posizione di colui che insegna, cioè nella posizione di chi ha potere. Questo al di là di tutte le considerazioni se sia bene o male, questo non ci interessa minimamente, stiamo soltanto considerando che cosa fa Platone in questo scritto. Il credere di sapere qualche cosa, senza saperlo: è per questo che tutti corriamo il rischio di cadere in tutti gli errori che commettiamo col pensiero. /…/ Ed in particolare credo che a questa sola specie dell’ignoranza venga dato il nome di “incultura”. A pag. 276. E così, infatti, si chiama, Teeteto, presso quasi tutti i Greci. Ma noi dobbiamo indagare ancora se essa sia ormai un tutto indivisibile, oppure se abbia qualche suddivisione degna di un nome specifico. Qui procede con il metodo diairetico, cioè di divisione. Qualcuno aveva accostato il modo di procedere dei dialoghi platonici al sistema di calcolo dei computer, 1/0, vero/falso, criticandolo anche in parte perché ponendo soltanto due possibilità non si tiene conto di altre infinite possibilità ma soltanto di quelle due, che naturalmente servono a Platone per giungere alla conclusione cui vuole giungere. Dell’insegnamento esercitato attraverso i discorsi, una parte mi sembra essere una via più aspra; l’altra sua parte, invece, più piana. /…/ Una, veneranda per l’antichità, “costume patrio”, di cui si servivano soprattutto nei rapporti con i figli, e di cui ancora oggi molti si servono quando, secondo loro, i figli commettono qualche errore /…/ Quanto all’altra, invece, alcuni, quando danno una spiegazione a se stessi, sembrano ritenere che ogni incultura è involontaria, e che chi crede di essere sapiente non può mai volere apprendere nessuna di queste cose di cui crede di essere esperto, e che, anzi, la specie di educazione mediante ammonimenti, pur con molta fatica, ottiene poco. E, allora, qual è il metodo? La confutazione, l’elenchos. Confutazione come arma di purificazione. Certo, la usavano anche i sofisti, ma come la usavano? Potremmo dire così, che la usavano in malafede. Malafede in questo senso, che sapevano bene che non c’è nessun vero e nessun falso, quindi, non resta che utilizzare l’abilità dialettica per convincere l’altro di quello che voglio io, nel senso di una verità da trasmettere. L’intento di Platone è invece quello educativo, e per essere educativo occorre che la verità sia e sia ben stabile, ben visibile. Per questo, per Platone, è necessario concludere che è possibile dire il falso, quindi, è possibile dire il vero, è possibile dire la verità. Per tutte queste ragioni, Teeteto, noi dobbiamo dire che la confutazione è la più grane e la più potente delle purificazioni, e, d’altro canto, dobbiamo pensare che chi non è stato confutato, anche se fosse il Grande Re, poiché non è stato purificato per quanto riguarda le cose più grandi, è privo di educazione, ed anche brutto, in relazione a ciò in cui, a chi ha intenzione di essere veramente felice, converrebbe essere puro e bello in massimo grado. Qu c’è già un accostamento tra il bello e il vero, cosa che verrà ripresa nel Medio Evo. Ma la cosa interessante è la sottolineatura continua della necessità di educare, di purificarsi dall’errore, ma per purificarsi dall’errore occorre sapere qual è l’errore, averlo determinato, definito, individuato, cosa che con gli eleati era difficile fare. Quindi, Platone deve eliminare gli eleati, utilizzando questa volta il sofista, e cioè cercando di mostrare che ciò che insegna il sofista non è una verità ma una finta verità. Per fare questo, quindi, ha bisogno di distinguere il vero da ciò che è apparentemente vero. A pag. 277. Mi sembra, infatti, che dapprima sia stato trovato come cacciatore di giovani ricchi /…/ In secondo luogo, come importatore ed esportatore di cognizioni che interessano l’anima. /…/ In terzo luogo, non ci si è forse rivelato come un rivenditore al minuto di queste stesse nozioni? /…/ E la quinta forma cercherò di ricordarla io: era, infatti, un atleta nell’arte della lotta fatta con i discorsi, che si è riservato l’arte eristica. /…/ La sesta forma, infine, suscitava perplessità; tuttavia, abbiamo finito col concedergli che egli è un purificatore dell’anima dalle opinioni che sono di ostacolo all’apprendimento. Questo è vero fino ad un certo punto. Per gli eleati non era proprio così, perché per purificare qualche cosa occorre sapere qual è il vero, qual è il giusto, qual è il corretto, cioè, avere già una pre-supposizione. Non comprendi, allora, che se uno si presenta come possessore di molte scienze, ma viene indicato con il nome di una sola arte, questa apparenza non è sana, ma è chiaro che chi si trova in questo rapporto con una determinata arte, non può vedere bene quel punto di essa in cui convergono tutte queste nozioni, e perciò egli indica chi le possiede con molti nomi invece che con uno solo? A pag. 278. Se è possibile che un uomo abbia scienza di tutte le cose. /…/ E dunque, come potrebbe uno, che non ha di per sé scienza, contraddire uno che ce l’ha, e dire qualcosa di valido? Qui c’è una questione importante, perché una cosa del genere è assolutamente confutabile. Una persona, pur non avendo cognizioni tecniche specifiche, è perfettamente in condizione di valutare quello che una persona sta facendo, rispetto al metodo che sta utilizzando, rispetto alle questioni che si sta ponendo, sa valutare se la persona, il tecnico, si è interrogato oppure no su alcune questioni. Quindi, una cosa del genere è surrettizia perché qui Platone dice che soltanto chi è tecnico ha proprietà ed è autorizzato a parlare. In che cosa consiste, dunque, questa meraviglia della capacità sofistica? Era questo che facevano i sofisti, potevano discutere su tutto, ma non sulle questioni tecniche, sui dettagli, ma sulla questione, su che cosa stava facendo chi faceva qualche cosa. Sul modo in cui essi sono capaci di ingenerare nei giovani l’opinione di essere proprio loro i più sapienti di tutti, su tutto. È chiaro, infatti, che, se non apparissero ai giovani, e se, pur così apparendo, non sembrassero affatto, mediante il dibattito, esser più intelligenti, difficilmente – è proprio tua questa affermazione – uno darebbe loro del denaro, volendo diventare loro discepolo. /…/ a noi il sofista si è rivelato come uno che possiede su tutte le cose una scienza apparente, ma non la verità. Uno che sa parlare di tutto ma che non conosce la verità. Ma quale verità? Quella specifica, tecnica? Certo che non la possiede e non la possiede perché non sa cosa farsene, a lui interessa sapere pensare le questioni. A pag. 279. Se uno affermasse di non sapere parlare né contraddire, bensì di sapere produrre e fare tutte le cose con una sola arte… Qui vuole mostrare come chi apparentemente sa fare tutte le cose con un’unica arte, di fatto, non conosce le cose e fa l’esempio del pittore: dipinge tutto quanto, sa riprodurre tutto, ma non sa fare quella cosa, dipinge una casa ma non sa fare la casa. Dunque, di chi si vanta di essere capace di produrre tutte le cose con una sola arte noi sappiamo questo, credo: che, eseguendo con l’arte della pittura imitazioni che hanno lo stesso nome delle cose reali, sarà capace, mostrando da lontano i suoi dipinti, di far credere ai ragazzini ignari di essere capacissimo di portare, di fatto, a termine qualunque cosa egli voglia fare. Questo per Platone sarebbe l’inganno. Molto discutibile, peraltro. A pag. 281. Dunque, non è forse vero che gli artisti di oggi, lasciando perdere la verità, riproducono nelle immagini non le proporzioni reali, ma quelle che sembrano essere belle? Non sarà, dunque, giusto chiamare la prima opera, visto che è simile al vero, raffigurazione? /…/ E poi? Ciò che appare solo somigliante al bello, per il fatto che lo si guarda da un punto di vista non adeguato, se poi uno, invece, acquista la capacità di vederlo adeguatamente in così grandi dimensioni, pur non essendo somigliante a quello a cui pretende di somigliare, come lo chiameremo? Visto che appare – ma non è – somigliante, non lo chiameremo “apparenza”? Platone sta facendo di tutto per dire che il sapere dei sofisti è un sapere apparente: non sanno veramente la verità. In realtà, mio caro, ci troviamo nel corso di una ricerca difficile da tutti i punti di vista. Infatti, questo apparire e sembrare, ma non essere, e il dire, sì, qualcosa, ma qualcosa di non vero, tutto ciò è pieno di difficoltà, sempre, nel passato e nel presente. Come, infatti, si debba parlare per dire e opinare che il falso esiste realmente, senza che, pronunciando questa affermazione, Teeteto, è assolutamente difficile sapere. /…/ Questo discorso ha osato supporre che il non-ente sia… Adesso ci sarà tutta la discussione sul fatto se il non-ente è o non è, perché se il non-ente non è allora non c’è neanche il falso, naturalmente, in quanto il falso qui è stato immaginato come un’opinione rispetto a ciò che non è, al non-ente; se, invece, è tutto vero, anche in questo caso non ci sarà opinione falsa, tutte le opinioni saranno vere. Il tentativo è quello di costruire un discorso che consenta all’ente e al non-ente di convivere. Una cosa abbastanza singolare perché, in effetti, se noi diciamo che il non-ente non è, ma, come sappiamo bene, per poterlo dire, che il non-ente non è, dobbiamo appunto poterlo dire, ma a partire da cosa? Dal fatto che il non-ente è comunque qualcosa per cui diciamo che non è, ma è qualcosa e, quindi, un ente. È una questione, quella del non-ente, cui in parte Platone accenna, ma che avrebbe potuto risolvere con estrema facilità. A pag. 284. Dunque, se diremo che egli possiede una determinata arte di produrre apparenze… Cioè, di cose che sono ma che non sono vere. Per Platone, secondo gli eleati questo era impossibile: se è è vero, se non è non esiste. …facilmente, sulla base di quest’uso dei termini, egli, capovolgendoli, rivolgerà i nostri discorsi nel senso contrario, ogni volta che lo chiamiamo produttore di immagini, ci chiederà che cosa intendiamo propriamente con “immagine”. Gli risponde Teeteto. È chiaro che diremo: le immagini nelle acque e negli specchi, e inoltre quelle dipinte o scolpite, e tutte quante le altre che sono di questo tipo. Lo Straniero. È evidente, Teeteto, che non hai mai vito un sofista. /…/ Quando gli darai questa risposta e gli parlerai di qualcosa negli specchi e negli oggetti modellati, riderà delle tue parole, quando tu gli parli come ad uno che ci vede, e, fingendo di non conoscere né specchi né acque, e nemmeno la vista stessa, interrogherà te soltanto in base i tuoi discorsi. Come dire che il sofista non pre-suppone nulla, semplicemente considera il discorso che gli viene fatto. Non dà nulla per scontato, non c’è nessuna complicità da parte del sofista rispetto al suo interlocutore, nel senso di “sappiamo come stanno le cose, le conosciamo già”. No, non le conosciamo affatto. Ti interrogherà su ciò che attraversa tutte queste cose che tu hai detto numerose e che hai ritenuto opportuno designare, pronunciando la parola “immagine”, con un solo nome per tutte, come se fossero una cosa sola. Parla, dunque, e difenditi senza arretrare di fronte a costui. /…/ Ma con “diverso, ma simile” … Teeteto aveva detto che l’immagine è sì diversa ma simile: l’immagine di quella cosa non è quella cosa ma è simile. …intendi dire un oggetto vero, oppure a che cosa riferisci la parola “simile”? Dice Teeteto: Per niente un oggetto vero, bensì uno somigliante. Lo Straniero. E intendi dire che quello vero esiste realmente? /…/ E poi? Quello non vero non è il contrario di quello vero? Teeteto. Certo. Lo Straniero. Dunque, tu dici che il somigliante non è realmente, dal momento, almeno, che lo dici “non vero”. Teeteto. Eppure, in qualche modo è. Anche un quadro è, se non altro è un quadro. Lo Straniero. Ma non veramente, dici. Dice che è, ma non veramente. Lo Straniero. Dunque, quella che chiamiamo raffigurazione è realmente, pur non essendo realmente. Qui incomincia a fare quel discorso che gli consentirà di dire che il non-ente partecipa dell’ente. Teeteto. C’è il rischio che l’ente si intrecci con il non-ente in un intreccio di questo tipo: molto strano. Lo Straniero. Strano, infatti: come no? Vedi, dunque, che anche ora, a causa di questo intreccio, il sofista dalle molte teste ci ha costretti a riconoscere, pur senza volerlo, che il non-ente in qualche modo è. Qui va contro Parmenide, senza tenere conto di ciò che dice Parmenide, e cioè che essere e pensare è lo stesso. E allora? Come potremmo definire la sua determinata arte e rimanere coerenti con noi stessi? /…/ Quando affermeremo che per quella sua apparenza egli inganna e che la sua arte è un’arte dell’inganno, in quel momento affermeremo che la nostra anima opina il falso per effetto della sua arte, o che cosa mai diremo? /…/ E di nuovo, l’opinione falsa sarà un opinare le cose opposte agli enti, o come? Se opino il falso vuol dire che opino il non-ente, ciò che non è. Intendi dire, dunque, che l’opinione falsa è un opinare i non-enti? /…/ Ed essa opina che non-enti non sono, oppure che gli assolutamente non-enti in qualche modo sono? /…/ E poi? Non si opina anche che non siano affatto gli enti in senso assoluto? /…/ Ed anche questo è falso? Teeteto. Anche questo. Lo Straniero. Anche un discorso, credo, sarà giudicato falso in questo modo per gli stessi motivi: quando dice che gli enti non sono, e che i non-enti sono. /…/ Ma il sofista lo negherà. Oppure, c’è qualche artificio per far sì che un uomo sano di mente lo conceda, quando le ammissioni fatte prima vengano accostate a queste fatte ora? Comprendiamo, Teeteto, quello che il sofista ci dice? Teeteto. Come non comprendere, infatti, che egli affermerà che noi facciamo affermazioni opposte a quelle di poco fa, e che osiamo dire che il falso “è” nelle opinioni e nei discorsi? E che noi infatti siamo spesso costretti a connettere l’ente con il non-ente, mentre poco fa eravamo d’accordo nel riconoscere che questa è la cosa più impossibile di tutto? Lo Straniero. Ti ricordi con precisione. Ma guarda che cosa bisogna fare riguardo al sofista. Infatti, tu vedi quanto facili e numeroso siano le obiezioni e le aporie, se continuiamo a cercare ponendolo nell’arte dei mistificatori e degli incantatori. A pag. 287. Intendo dire, infatti, che in questo esame noi dobbiamo seguire questo metodo, come se essi (i presocratici) fossero presenti e noi li interrogassimo così: “Orsù, tutti voi che affermate che tutte le cose sono caldo e freddo, o qualche altra coppia di questo tipo, che cosa è mai questo che dite di entrambi, quando dite che entrambi sono e che ciascuno è? Forse dobbiamo porre, secondo voi, una terza cosa oltre a quelle due, e dire che il tutto è tre cose e non, invece, due? Infatti, se chiamate “ente” l’una e l’altra di queste due cose, non dite più che entrambe allo stesso modo “sono”: in entrambi i casi, infatti, sarebbero una cosa sola, e non due insieme”. Se tutte queste cose, che sono diverse, sono tutte enti, allora sono un’unica cosa, sono un ente. “Ma volete chiamarle entrambe “ente”?”. /…/ “Ma amici” diremo “anche così verreste a dire, in maniera chiarissima, che le due cose sono una cosa sola”. /…/ “Ebbene, dal momento che noi ci troviamo in difficoltà, chiariteci voi adeguatamente questo problema: che cosa volete significare quando pronunciate “ente”? La risposta è facile: l’ente è qualcosa. “Ciò che è uno, usando due nome per la stessa cosa, o come?” /…/ È chiaro, Teeteto, che per chi ha fatto questa ipotesi non sarà la cosa più facile di tutte rispondere all’attuale domanda, anzi, anche a qualsiasi altra /…/ Riconoscere che ci sono due nomi, anche quando non si pone nulla tranne una cosa sola, sarebbe ridicolo, mi pare. /…/ Ed in generale, accettare che uno dica che un nome è qualcosa, sarebbe privo di senso. /…/ Ponendo il nome della cosa come altro da essa, parla, se non erro, di due cose. Qui Platone coglie la questione: parlando di una cosa parlo di due cose. Nel mio pensare c’è ciò che io penso, quindi, c’è il mio pensare e ciò che il mio pensiero pensa. Pertanto, ci sono due cose, che non posso né disgiungere né separare. Se non penso qualcosa non penso; pensare è pensare qualcosa, sennò non è pensiero. Ed è certo che se pone il nome come identico alla cosa, sarà costretto o a dirlo nome di niente, o, se lo dirà nome di qualcosa, ne seguirà che il nome è soltanto nome di un nome; ma non è tale di niente altro. Dice: questo nome o lo riferisco a niente, e allora è niente, oppure, lo riferisco a se stesso, e allora è il nome di un altro nome. E l’uno, che è nome di “uno” ed è l’unità, a sua volta, del nome. /…/ E allora? Diranno che ‘intero è altro dall’uno che è, oppure che è la stessa cosa di questo? /.../ Se, dunque, l’intero è, come anche Parmenide dice, “da ogni parte simile a massa di ben rotonda sfera; a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche parte più grande / né in qualche parte più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra”, se l’ente è tale, ha un centro e insieme degli estremi; ma, se ha questi, è necessario che abbia delle parti. Qui varrebbe la confutazione di Parmenide, almeno in parte. Una sfera perfetta, dice Platone, ma se è un tutto ha delle parti. Ma certo nulla impedisce che ciò che si trova diviso in parti possa partecipare dell’Uno in tutte le sue parti, e che, in questo modo, essendo un tutto e un intero, sia uno. /…/ È verissimo ciò che dici. Infatti, se l’ente è uno, in qualche modo per partecipazione, è evidente che non sarà la stessa cosa che l’Uno, e, dunque, tutte le cose saranno più che uno. /…/ Eppure, se l’ente non è l’intero, per il fatto che partecipa dell’Uno, e se, invece, l’intero stesso è, l’ente risulta privo di se stesso. /…/ E, secondo questo discorso, privato di se stesso, l’ente non sarà ente. /…/ E, a loro volta, tutte le cose verrebbero ad essere più che uno, poiché l’ente e l’intero hanno ciascuna una propria natura separata da quella dell’altro. Qui introduce la questione della separazione. Giustamente dice che se separo le cose, una cosa dal suo significato, quella stessa cosa, una volta separata, scompare, non è più nulla. A pag. 291. Ebbene, dico che ciò che possiede anche una qualsiasi potenza, o che per natura sia predisposto a produrre un’altra cosa qualunque, o a subire anche una piccolissima azione da parte della cosa più insignificante, anche se soltanto per una volta, tutto ciò realmente è. Infatti, propongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza. Da qui deriveranno la δύναμις e l’ένέργεια di Aristotele, il quale alla potenza aggiunge l’atto, perché senza l’atto la potenza è niente. Però, già qui in Platone si pone la questione, e cioè: se separo le cose, l’una dall’altra, scompaiono entrambi. A pag. 293. …dunque, Teeteto, che se tutti gli enti fossero immobili non ci sarebbe intelletto per nessuno, di nessuna cosa, in nessun luogo. Qui è passato a considerare il movimento e la quiete: se le cose sono ferme o se si muovono. Qui c’è naturalmente un riferimento a Zenone. Eppure, se noi ammettessimo, d’altro canto, che tutte le cose si spostano e sono in movimento, anche con questo discorso elimineremmo dall’ambito degli enti questa stessa cosa. /…/ Ciò che è identico, allo stesso modo, nella medesima relazione, ti sembra che possa mai essere se non in quiete? /…/ Tu vedi che l’intelletto in qualche luogo sia, o sia stato, senza questi caratteri? /…/ È certo che con ogni discorso dobbiamo combattere contro chi, in qualunque modo, insiste su qualcosa, pur annientando scienza, o intelligenza, o intelletto. Chi afferma che tutto è immobile o tutto in movimento nega la possibilità della conoscenza, perché la conoscenza è mutamento, è, come dice lui, l’essere colpito da qualche cosa, l’essere sollecitato da qualche cosa e, quindi, comporta il movimento, non è quiete. Però, se fosse solo movimento, non ci sarebbe la possibilità di cogliere nulla. Ecco perché dice che la quiete assoluta e il movimento assoluto non consentono alcuna conoscenza. Dunque, per chi è filosofo e tiene queste cose in grandissimo onore, è, per questi motivi, assolutamente necessario, come si vede, non accettare, dai sostenitori dell’Uno o delle molteplici Idee, che il tutto sia immobile, e non dare assolutamente retta a quelli che, dal canto loro, mettono in movimento l’ente dappertutto; ma, secondo la preghiera dei bambini, “che le cose immobili siano anche in movimento”, deve affermare dell’ente e del Tutto l’unna e l’altra cosa insieme. /…/ Molto bene, allora. Non dici che movimento e quiete sono massimamente contrari l’uno all’altra? /…/ E dici anche che entrambi e ciascuno, allo stesso modo, sono? /…/ Intendendo che sonno entrambi e ciascuno in movimento, quando concedi che sono? Teeteto dice “Per niente”. Al contrario, vuoi dire che sono immobili, quando dici che entrambi sono? /…/ Forse ponendo che nell’anima l’ente è una terza cosa oltre a queste, pensando che da esso siano abbracciati insieme la quiete e il movimento, raccogliendoli insieme e volgendo lo sguardo al fatto che essi hanno in comune l’essere: e così che dici che entrambi sono? /…/ Dunque, l’ente non è l’una e l’altra cosa insieme, movimento e quiete, bensì una cosa diversa da queste. Ente è una cosa che è diversa sia dal movimento che dalla quiete, perché se l’ente fosse quiete non sarebbe conoscibile, se fosse solo movimento non sarebbe conoscibile. Ma qual è questa terza cosa? A pag. 294. Diciamo, allora, quale modo noi, di fatto, chiamiamo questa stessa cosa, di volta in volta, con molti nomi. /…/ Per esempio, noi parliamo dell’uomo, riferendogli i colori e le figure, e grandezze, ecc. /…/ Onde, credo, abbiamo preparato un vero banchetto per i giovani e per quei vecchi che imparano in tarda età, ecc. A pag. 295. Non dobbiamo congiungere l’essere con il movimento e la quiete, e nessun’altra cosa con nessun’altra, ma dobbiamo, al contrario, porre nei nostri discorsi queste cose come non collegate e come incapaci di partecipare le une delle altre?  Se sono tutte slegate non c’è nessuna connessione e se non c’è nessuna connessione non c’è nessuna conoscenza, dato che la conoscenza è relazione. Oppure dobbiamo ricondurle tutte alla medesima cosa in quanto tali da potere avere reciproca comunanza? Oppure alcune sì e altre no? Quale di queste alternative, Teeteto, diremo che essi sceglieranno? Naturalmente, la terza. E inoltre, il discorso più ridicolo di tutti lo farebbero coloro che non consentissero di denominare una cosa in base alla comunanza che essa ha con l’affezione di un’altra cosa. /…/ Sono costretti, in tutti i casi, a valersi di espressioni come “essere”, “separatamente”, “dagli altri”, “per sé” e mille altre, e, poiché di esse non possono fare a meno, e non possono non connetterle nei loro discorsi, non hanno bisogno di altri che li confutino, ma hanno, per così dire, in casa il nemico che li contrasterà e, mentre parla dentro di loro, come quello strano Euricle, essi camminano portandoselo sempre in giro. È come se accennasse al problema del linguaggio: se penso penso qualcosa, non posso pensare se non penso qualcosa. Questo pensare non può esistere senza il qualcosa che penso, non posso tenere separate le due cose in nessun modo: come divido il mio pensiero da ciò che penso? Quindi, c’è quella che lui chiama mescolanza tra l’ente e il non-ente, tra ciò che è qualche cosa e ciò che quel qualche cosa non è, perché il mio pensiero non è ciò che il mio pensiero pensa; in un certo senso lo è, ma sono due cose distinte, non separabili ma distinte. Quindi, io penso qualche cosa e questo qualche cosa è altro dal mio pensiero, sono altre parole, altri racconti. È come se Platone avesse avvertito questa divisione che c’è nel linguaggio, divisione che naturalmente non può accogliere, anche perché, se l’accogliesse, direbbe quello che dicevano gli eleati. Era dopotutto l’accusa che Aristotele rivolgeva a Protagora oltre che a Parmenide, e cioè l’impossibilità di determinare qualche cosa, perché appunto i due contrari si uniscono, sono l’uno la condizione dell’altro. Platone chiama questo “parricidio” perché, secondo lui, Parmenide aveva proibito di pensare il non-essere, per cui c’è solo l’essere e il non-essere non c’è. È chiaro che se poniamo il fatto che per Parmenide l’essere è pensiero, allora se non c’è pensiero non c’è niente. Invece è stato inteso che l’ente c’è e il non-ente non c’è, ma già dicendo che l’ente non c’è mi contraddico infatti, diceva Platone di stare attenti ai sofisti, uomini dalle mille teste – e mi contraddico perché dicendo che non c’è evidentemente so che non c’è. Ma come faccio a saperlo? Da dove traggo questo sapere se non da un sapere sul non-ente? Quindi, se c’è un sapere sul non-ente c’è un sapere, quindi, una relazione, una connessione. Qui sembra che abbia quasi scoperto la differenza tra l’uso del verbo essere come esistenziale e l’uso del verbo essere come copulativo. Se dico che “Cesare è” lo uso in modo esistenziale, cioè affermo l’esistenza di Cesare; se dico che “Cesare è italiano”, allora l’“è” non è usato in modo esistenziale ma copulativo, cioè mette in relazione Cesare con l’essere italiano. È chiaro che questa seconda forma pre-suppone la prima, perché non posso dire che “Cesare è italiano” se non presuppongo che Cesare esista; quindi, per poterne parlare devo dare per buono che Cesare esista. E così anche per il non-ente: se io dico che il non-ente non è, non è cosa? Come lo so che il non-ente non è? In base a che cosa lo affermo? Parla poi della grammatica e fa l’esempio dell’uso delle vocali, delle consonanti, ecc. Parla dell’arte della grammatica, dove ciascuno degli elementi trova la sua posizione e ognuno, dice, sa quali lettere è possibile che siano in comunione, possibile con alcune ma non con tutte, ma non per questo le altre lettere non ci sono, ci sono ma si connetteranno con altre cose. Dice poi che si tratta di trovare la scienza, che non è quella del sofista, perché il sofista, secondo Platone, è colui che, sì, purifica ma usa questa arte della purificazione a scopo di lucro, anziché per educare le persone. A pag. 296. Questa scienza, dunque, Teeteto, come la chiameremo? Per Zeus! Senza rendercene conto, ci siamo forse imbattuti nella scienza degli uomini liberi, e rischiamo, mentre stiamo cercando il sofista, di avere trovato prima il filosofo? /…/ Il dividere per generi e non ritenere diversa una Forma che è identica, né identica una Forma che è diversa, non diremo che è proprio della scienza dialettica? /…/ dunque, chi è capace di fare questo, discerne adeguatamente una sola Idea che si estende da tutte le parti attraverso molte altre, ciascuna delle quali rimane una unità separata, e molte Idee diverse tra loro, abbracciate dal di fuori da una sola Idea… Coglie, cioè, il particolare dall’universale e li distingue. Importantissimi tra i generi, certo, sono quelli che abbiamo or ora trattato: l’ente in sé, quiete e movimento. /…/ E diciamo che certamente due di essi non sono mescolabili tra loro. /…/ Ma l’ente, almeno, è mescolabile con entrambi: infatti, entrambi sono, se non erro. /…/ Questi, quindi, vengono ad essere tre. /…/ Dunque, ciascuno di essi è diverso dagli altri due, ma identico a se stesso. Che cosa sono mai, d’altro canto, questi che ora abbiamo chiamato l’identico e il diverso? Sono due generi determinati, altri da quei tre, sempre necessariamente mescolati a quelli, e dovremmo condurre il nostro esame su di essi considerando che sono cinque e non tre, oppure, senza rendercene conto, usiamo questa espressione, “l’identico e il diverso”, per denominare uno di quelli? /…/ Ma, certo, movimento e quiete non sono né un che di diverso né un che di identico. /…/ Qualsiasi cosa noi predichiamo in comune di movimento e di quiete, questa non è possibile che sia né l’uno né l’altra dei due. Né il movimento né la quiete sono identici né diversi. Perché dice questo? E il diverso è sempre in relazione a un diverso: non è vero? Se è diverso sarà sempre in relazione a qualcosa rispetto a cui è diverso. Non lo sarebbe, se l’ente e il diverso non fossero assolutamente differenti. Ma se un diverso partecipasse di entrambe le Forme, come l’ente, ci sarebbe qualcuno anche dei diversi che non sarebbe diverso in relazione a un diverso. Cioè, se c’è l’ente, ci sarebbe qualcuno, anche dei diversi, che non sarebbe diverso in relazione a un diverso, vale a dire, l’ente non è diverso in relazione al diverso. Ora, invece, assolutamente ci risulta che qualunque cosa sia diversa, necessariamente è quello che è, cioè diversa da una diversa. Se necessariamente è quella che è, vuol dire che non è altro. Dunque, dobbiamo dire che la natura del diverso è quinta tra le Forme nell’ambito delle quali abbiamo fatto la scelta. A pag. 299. Così allora diciamo di queste cinque Forme, riprendendo da capo una per una. /…/ In primo luogo, dal movimento, che è assolutamente diverso dalla quiete. /…/ E, pertanto, non è quiete. /…/ Ma è, perché partecipa dell’ente. /…/ Di nuovo, da capo, il movimento è diverso dall’identico. /…/ Dunque, non è identico. /…/ Ma, certo, esso era identico, almeno perché tutto partecipa a sua volta dell’identico. Se qualche cosa è qualche cosa è perché è identica. Bisogna, allora, riconoscere che il movimento è identico e non-identico e non dobbiamo protestare. Infatti, quando diciamo che il movimento è identico e non-identico, non lo diciamo dallo stesso punto di vista, ma quando lo diciamo identico, diciamo così di esso per la sua partecipazione all’identico; quando, invece, lo diciamo non-identico, è per la sua comunanza col diverso, grazie alla quale, separato dall’identico, non diventa quello, ma un diverso, cosicché è di nuovo corretto dirlo non-identico. /…/ Diciamo, allora, daccapo: il movimento è diverso dal diverso, come prima era altro dall’identico e dalla quiete? /…/ Dunque, è non-diverso, in un certo senso e diverso, secondo il discorso attuale. Platone ha introdotto il diverso tra l’essere e il non-essere assoluto. Solo che questo essere e non-essere assoluto è una cosa che ha inventata lui per poterla contrastare. Gli eleati non avevano mai detto una cosa del genere. Certo, Parmenide dice che l’essere è e il non-essere non è, ma dice anche che l’essere è pensare. E anche Zenone, dice che il movimento non posso coglierlo se non come quiete, perché se lo penso lo fermo, lo determino e, quindi, posso pensare il movimento solo in quiete. Il che è come dire che nella quiete c’è movimento, perché senza la quiete non posso pensare il movimento. In ogni caso questi sono sempre e comunque intrecciati tra loro, non sono separati. Quello che, invece, tenta di fare Platone è di separarli, e come fa? Fa così. A pag. 300. Quando diciamo il “non-ente”, come sembra, non diciamo qualcosa di contrario all’ente, ma soltanto qualcosa di diverso. /…/ Per esempio, quando diciamo qualcosa “non-grande”, ti sembra che in tal caso noi esprimiamo con questa espressione il piccolo piuttosto che l’uguale?  /…/ Quando si dica che una negazione significa opposizione, noi non lo concederemo, ma “ammetteremo” soltanto questo, che le particelle negative, preposte, indicano qualcosa d’altro rispetto a nomi che lo seguono… Ecco, qui compie un’operazione che è discutibile, perché il “non” preposto a qualche cosa nega il qualche cosa che lo segue. Ma che cosa significa qui che lo nega? Lui insiste sul fatto che questo “non” indica soltanto che è diverso ma non lo nega. Il problema è che diverso è ciò che comunque nega, solo che a lui ciò che interessa è che non si neghi che l’ente sia, perché se l’ente è allora è possibile affermarlo, è possibile imporlo. La sua operazione è quella di tentare in tutti i modi di eliminare la possibilità che ente e non-ente siano la stessa cosa, e allora introduce il diverso, perché se sono la stessa cosa, come per gli eleati, due momenti dello stesso, direbbe Hegel, allora come posso affermare il falso se non affermando simultaneamente il vero, e viceversa? Come li separo? Questo tentativo di Platone è in un certo senso scorretto. A pag. 301. Dunque, come tu hai detto, il diverso non è affatto difettoso di essere rispetto a nessuno degli altri generi? E bisogna ormai avere il coraggio di dire che il non-ente possiede in modo stabile la sua natura. Come il grande era grande, il bello era bello, il non-grande non-grande e il non-bello non-bello, così anche il non-ente, per la stessa ragione, era ed è non-ente, ossia un’unica Forma, che rientra nel novero dei molteplici enti? O abbiamo ancora qualche dubbio, Teeteto, nei confronti di esso? /…/ Sai, dunque, che abbiamo disubbidito a Parmenide, andando molto al di là del suo divieto? /…/ Noi, spingendoci nella ricerca ancor più avanti di quanto egli ci ha vietato di indagare, ne abbiamo fornito una dimostrazione. /…/ Poiché egli dice in un certo luogo: Inoltre questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero. Ma a pag. 302 dice una cosa interessante: Slegare ogni cosa da tutte le altre è il più completo annientamento di ogni discorso… Cioè: tutto vero, tutto falso. …infatti, è dal reciproco intreccio delle Forme che nasce il nostro discorso. /…/ Vedi bene come era opportuno poco fa che noi polemizzassimo con uomini di questo tipo, e li costringessimo a permettere che un genere si mescoli con un altro. Cosa che nessuno ha mai negato. Prendiamo Zenone e la freccia: la freccia è, sì, in movimento, Zenone lo vedeva benissimo, ma per poterla pensare devo pensarla solo in uno stato di quiete, devo determinarla, finirla, devo inserirla in un tempo finito. Ecco perché Zenone dice che in ciascun istante la freccia è ferma, in ciascun istante in cui la penso è ferma; poi, è chiaro che è in movimento, lo vedo. A pag. 303. Ora, è evidente che il non-ente partecipa dell’ente, e così, in tal modo, forse, il sofista non potrà più polemizzare. Probabilmente, però, potrebbe dire che alcune delle Forme partecipano del non-ente, ed altre invece no, e che discorso e opinione sono di quelle che non ne partecipano, che l’arte della raffigurazione e dell’apparenza, in cui noi diciamo che egli si trova, assolutamente non è, dal momento che discorso e opinione non hanno comunione con il non-ente; infatti, il falso non esiste affatto, se non sussiste questa opinione. Certo che per gli eleati il falso non esiste se non commisto con il vero, non esiste in quanto tale ma esiste in quanto l’altro momento del vero, e non possono darsi l’uno senza l’altro. Invece Platone costringe il sofista a pensare che i due elementi siano separati, ma è lui, Platone, che lo pensa, non il sofista. A pag. 306. Dice che il discorso è sempre un discorso su qualche cosa. Ma se non riguarda nessuno, non può essere affatto neppure un discorso; abbiamo, infatti, dichiarato che è impossibile che sia un discorso e sia un discorso che non riguarda nessuno. Certo, nessuno glielo nega. Ma è come se Platone fosse costretto ad attribuire all’eleate, al sofista, delle credenze, delle certezze che il sofista non ha mai sostenuto. Scredita qualcuno, cosa che faranno poi Aristotele e altri, attribuendo a questo qualcuno cose che questo qualcuno non ha mai detto. Ecco, questo è il sofista. Alla fine si chiederà che cos’è il sofista. A pag. 310. Ebbene, essa sarà l’imitare l’arte che produce contraddizioni, parte simulatrice dell’arte di produrre opinioni, del genere che produce apparenze sulla base della capacità di produrre immagini, sezione non divina ma umana dell’attività produttiva, cioè quella parte che fa meraviglie nei discorsi: chi dirà che “di questa stirpe e di questo sangue” è il vero sofista, dirà, come sembra, la cosa più vera. Il sofista è colui che crea immagini, che costruisce discorsi e li confuta. Li confuta perché per il sofista vero e falso sono due facce dello stesso, ed è per questo che può confutare qualunque cosa. Invece, Platone vuole costringere il sofista, annientarlo, per dire che la sua è un’arte falsa, inducendo con questo il lettore a pensare che c’è un’arte vera, che è quella del filosofo, cioè quella che ricerca la verità. Che poi Platone stesso in certi punti dice che le cose sono intrecciate, però non gli va bene, perché se sono intrecciate allora il bene come lo diffondo? Come mi impongo sugli altri se non determino che esiste il falso? Se non c’è il falso, in che modo li biasimo? In che modo li educo? In che modo li domino? Ovviamente ho fatto una lettura specifica rispetto a ciò che a noi interessa, e cioè che cosa ha voluto fare Platone scrivendo Il sofista.