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1 novembre 2023

 

Aristotele Analitici Primi

 

Siamo al Libro Secondo degli Analitici Primi. A pag. 645. Ora, considerato che i sillogismi sono gli uni universali e gli altri particolari, tutti quelli universali traggono sempre a conclusione più cose; tra i sillogismi particolari, invece, quelli positivi traggono a conclusione più cose e quelli negativi solo la conclusione come tale. È una cosa importante perché, in effetti, un sillogismo universale afferma tante cose come “tutte le A sono B”, ma ciò non esclude che la A sia tante altre cose oltre ad essere B. Ma anche quello negativo, perché possiamo dire “nessuna A è B”, ma, di nuovo, può essere infinite altre cose. Infatti, tutte le premesse si convertono, ad eccezione della premessa privativa particolare, che non si converte. La privativa particolare dice che c’è una A che non è B ed è l’unica cosa che esclude la possibilità di altre, perché il problema del sillogismo universale, sia affermativa che negativo, dice che una certa cosa è tutte le altre ma non esclude affatto che sia anche moltissime altre: tutte le A sono B, va bene, ma possono anche essere C, D, ecc., possono essere qualunque cosa. Quindi, l’universale non esclude ma apre a infinite possibilità. Questo è anche un artificio utilizzato dalla retorica che, sapendo questo, se qualcuno afferma che tutte le A sono B, l’interlocutore può sempre aggiungere che, sì, sono B ma possono anche essere C, D, ecc., e in queste cose che si aggiungono potrebbe anche esserci una negazione, può esserci qualunque cosa. Ma la conclusione è discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcos’altro, sicché i sillogismi diversi da quello negativo particolare traggono a conclusione più cose. Ad esempio, se si è provato che A inerisce ad ogni o a qualche B, è necessario che anche B inerisca a qualche A, o se si è provato che A non inerisce a nessun B, è necessario che anche B non inerisca a nessun A, ma questo è un dato ulteriore al precedente. Invece, se A non inerisce a qualche B, non è necessario che anche B non inerisca a qualche A, perché potrebbe inerire a ogni A. Questa è un’altra cosa curiosa. Dice non è necessario che anche B non inerisca a qualche A, perché potrebbe inerire a ogni A. È curioso perché dice che il fatto che non inerisce a ogni A possiamo tradurlo con il fatto che potrebbe inerire ad ogni. Come è possibile se non inerisce a qualche A che inerisca a ogni A? È bizzarro, ma non è l’unica bizzarria. A pag. 651. …il primo punto, cioè che da premesse vere non è possibile trarre a conclusione una falsità, si chiarisce così. Se infatti, quando è A, è necessario che B sia, quando B non è, A deve necessariamente non essere. Se quando c’è la A c’è necessariamente la B, allora quando non c’è B non c’è neanche la A. Dunque, se A è vero, è necessario che B sia vero, altrimenti risulterà che la stessa cosa allo stesso tempo sia e non sia, il che è impossibile. Qui è sempre il principio di non contraddizione che domina tutto. Attenzione però a non credere, per il fatto che è dato solo il termine A, che qualcosa possa risultare di necessità in quanto un’unica cosa è, perché questo non è possibile: ciò che risulta di necessità è infatti la conclusione, e le cose mediante le quali questa viene ad esserci sono almeno tre termini da un lato, e due intervalli o premesse dall’altro. Ci sta spiegando come funziona quella regola dell’implicazione tale per cui l’implicazione è falsa se e soltanto se la premessa è vera e la conclusione è falsa. È l’unico caso in cui l’implicazione è falsa perché, se io dico che questo implica quell’altro, se quell’altro non c’è, allora l’implicazione non funziona. Dunque, se è vero che A inerisce a tutto ciò che inerisce B, e che B inerisce a ciò a cui inerisce C, è necessario che A inerisca a ciò a cui inerisce C, e questo non può essere falso, altrimenti la stessa cosa inerirebbe e non inerirebbe alla stessa cosa nello stesso tempo. Come dire che non c’è una regola che determini perché l’implicazione è sempre vera tranne nel caso in cui la premessa è vera e la conclusione è falsa, tranne il principio di non contraddizione perché, se non fosse così, allora una cosa sarebbe e non sarebbe. A pag. 677. Dove due cose stiano l’una all’altra in un rapporto tale per cui, quando la prima è, la seconda deve necessariamente essere, allora quando la seconda non è nemmeno la prima sarà, ma quando invece è non è necessario che la prima sia. L’implicazione è valida anche quando la conclusione è vera e la premessa è falsa. In questo caso potremmo dire che la premessa non c’è ma l’implicazione è valida lo stesso, perché comunque “se questo allora quell’altro”, se quell’altro c’è, l’implicazione è valida. D’altra parte, è impossibile per una medesima cosa dover necessariamente essere sia quando una certa cosa è, sia quando questa stessa cosa non è; voglio dire che è impossibile, ad esempio, che B debba necessariamente essere grande quando A è bianco e debba necessariamente essere grande quando A non è bianco. Infatti, se è necessario che questo qui, B, sia grande quanto quello lì, A, è bianco, e quando B è grande è necessario che C non sia bianco, allora, se A è bianco, è necessario che C non sia bianco. Questo non significa niente, se non quello che abbiamo detto prima, e cioè che è indifferente rispetto alla conclusione, una volta che è stabilita, se la premessa è vera oppure no. I logici facevano un esempio, esempio stupido: se qui siamo in Alaska allora oggi è mercoledì. La premessa è falsa, la conclusione è vera, quindi, l’implicazione è vera: oggi è effettivamente mercoledì; non importa che la premessa sia falsa. A pag. 711. Parla dei sillogismi mediante l’impossibile. È simile, infatti, al rovesciamento e ne differisce solo in questo: si fa un rovesciamento nella misura in cui c’è un sillogismo già fatto ed entrambe le premesse sono state effettivamente assunte, mentre si fa una riduzione all’impossibile non in quanto prima ci si è detti d’accordo sull’opposto del risultato ottenuto, ma perché è manifesto che esso è vero. Ho letto questo passo perché da una parte dice che non è perché prima ci siamo messi d’accordo su questa cosa e allora è vera; no, perché è manifesto che esso è vero. Ma che cosa vuole dire che è manifesto? Significa la stessa cosa, e cioè che ci si è messi d’accordo su ciò che è manifesto perché, se non si è d’accordo su ciò che si manifesta, allora non siamo più d’accordo su niente, e bell’e fatto. Infatti, la parola greca è ϕανερο, come φαίνεσταί, ciò che si manifesta; ma bisogna essere d’accordo sui ciò che si manifesta. Quello che dice Aristotele è quindi curioso, è un’altra bizzarria, perché dice che non è vero perché siamo d’accordo, ma perché è manifesto, perché è così. Certo, ma ci siamo dovuti mettere d’accordo su che cos’è che è manifesto e, quindi, il mettersi d’accordo è ineludibile: dobbiamo essere d’accordo; e per essere d’accordo tutti occorre che ci sia la δόξα, ciò che tutti quanti crediamo essere vero. A pag. 719. …è manifesto che in tutti i sillogismi quello che va posto in ipotesi non è il contrario, ma l’opposto. Il contrario di “tutte le A sono B” è “nessuna A è B”; l’opposto di “tutte le A sono B” è “c’è una A che non è B”. In tal modo, infatti, il risultato sarà necessario e il ritenerlo valido sarà anche comunemente accettato. Perché insiste su questo fatto, e cioè che sia comunemente accettato? È interessante perché da una parte vorrebbe una sorta di formalizzazione che non richiede il consenso perché è vera in modo apodittico, per cui è evidente che è vera; dall’altra, invece, richiede il consenso. Se fosse così evidente il consenso sarebbe automatico. E, invece, no, si accorge che non è così. Infatti, se di ogni cosa è vera o l’affermazione o la negazione, una volta provato che non è vera la negazione, è necessario che sia vera l’affermazione. D’altro canto, se non si pone che l’affermazione sia vera, è comunemente accettato che si ritenga valida la negazione. Sempre comunemente accettato. Invece, ritenere valido il contrario stride da entrambi i punti di vista, perché né è necessario che, se è falso “a nessun”, sia vero “ad ogni”, né è comunemente accettato che l’uno sia vero se l’altro è falso.  Se è falso dire “a nessuno” (universale negativa: nessuna A è B), questo non significa, sta dicendo, che sia vera la contraria, e cioè che “tutte le A sono B”. A pag. 725. Dimostrazione per riduzione all’impossibile e dimostrazione diretta. La dimostrazione per riduzione all’impossibile differisce da quella diretta per il fatto di porre ciò che s’intende eliminare riducendolo a qualcosa che siamo d’accordo essere una falsità. Di nuovo siamo d’accordo. Dove sta la cogenza delle conclusioni logiche? Dovrebbero essere universali per definizione. No, invece, è sempre un accordo. La prova diretta, invece, parte da tesi su cui ci si dice d’accordo. Ora, entrambe le dimostrazioni assumono due premesse su cui ci si dice d’accordo. Solo che l’una le assume come quelle a partire da cui viene ad esserci il sillogismo; l’altra, invece, assume solo una delle due tra quelle a partire da cui si produce il sillogismo, mentre l’altra premessa che assume è la contraddittoria della conclusione. Quella diretta assume le premesse da cui viene ad esserci il sillogismo; quell’altra, invece, ciò che assume è la contradittoria, per dimostrare l’impossibilità. Ora, parla del postulare quello che in origine bisogna provare, e cioè la petitio principii. A pag. 743. …quando si cerca di provare per mezzo di se stesso ciò che non è noto da se stesso… Questa è la petizione di principio. …è in quel momento che si postula quello che in origine bisognava provare. Da un lato, lo si può fare nel senso di sostenere fin da subito quello che ci si prefigge di provare; dall’altro, è possibile anche che si passi per alcune cose pur diverse, ma rientranti tra quelle che per natura sarebbero provate per mezzo di esso, e poi ci si avvalga di queste per dimostrare quello che ci si propone all’inizio. Cioè, proporre all’inizio ciò che si deve provare. A pag. 749. Non è da questo che risulta il falso (non propter hoc). È una frase latina che indica una figura, che non è propriamente logica e che dice post hoc ergo propter hoc, questa cosa segue a quella, quindi, questa è la causa. Invece, non è così automatico, ovviamente. L’espressione “non è da questo che risulta il falso”, usata spesso e abitualmente nelle discussioni, innanzitutto occorre in caso di sillogismi per riduzione all’impossibile, quando s’intende contraddire quanto veniva provato con la riduzione all’impossibile. Qualcuno vuole ridurre all’impossibile una mia argomentazione e io contraddico quello che lui dice. Infatti, se prima non c’è stata contraddizione, uno non dirà “non è da questo che risulta il falso”: dirà semmai che tra quanto precede è stato posto qualcosa di falso. Cioè, c’è qualcosa di falso nelle premesse. Né si userà tale espressione nel caso di una dimostrazione probativa, perché qui uno non pone ciò che contraddice. Ed anche quando qualcosa è stato eliminato direttamente mediante A, B, C, non è che si dica “non è da quanto dato in partenza che è venuto ad esserci il sillogismo”. Diciamo, infatti, “non è da questo che viene ad esserci” nel caso in cui, una volta eliminato appunto questo, nondimeno si ottiene il sillogismo, cosa che non può accadere nel caso dei sillogismi diretti, perché qui, una volta eliminata la tesi, non avrà luogo neanche il sillogismo ad essa relato. Nel sillogismo diretto non posso eliminare le premesse, sennò è eliminato il sillogismo tot court; nel caso del sillogismo contraddittorio, invece, bisogna eliminare la contraddizione. È dunque manifesto che “non da questo” si dice in caso di sillogismi per riduzione all’impossibile, e lo si dice in particolare quando l’ipotesi iniziale sta all’impossibile in un rapporto tale per cui, che essa sia o non sia, nondimeno risulta l’impossibile. Cioè, qualunque cosa mi stai dicendo, se muovi di qua, la conclusione è impossibile, è contraddittoria. Ciò, infatti, significa porre come causa ciò che non lo è, come ad esempio se uno, volendo provare che la diagonale è incommensurabile col lato del quadrato, attaccasse l’argomento di Zenone per cui non esiste movimento e operasse la riduzione all’impossibile in tale direzione: in realtà, non c’è alcun punto di congiunzione, in alcun modo e da nessuna prospettiva, tra il falso e l’affermazione iniziale. Come dire che la premessa non c’entra niente con ciò che dobbiamo dimostrare, cosa che accade molto spesso. A pag. 757. Indicazioni per la difesa o l’attacco di una tesi in una discussione. A mano a mano che si va avanti sempre più Aristotele deriva verso la retorica. D’altra parte, sappiamo che la logica è un’arma, viene utilizzata per demolire una tesi avversaria, per rilevare come la conclusione dell’altro sia falsa: a questo serve la logica, a nient’altro che questo. Per evitare che sia tratta la conclusione avversaria, quando l’avversario propone il discorso in termini di domande senza formulare le conclusioni, bisogna fare attenzione a che nelle premesse non sia concesso due volte lo stesso termine, perché noi sappiamo bene che senza un termine medio non viene ad esserci sillogismo, e sappiamo che termine medio è quello che viene ripetuto più volte. E in che modo vada tenuto d’occhio il medio in relazione ad ogni singola conclusione, è manifesto a partire dal fatto che noi sappiamo che tipo di conclusione è provato in ciascuna figura. Questo non ci sfuggirà, perché noi sappiamo come difendere il nostro discorso. Ma ciò su cui raccomandiamo di vigilare se siamo nella posizione di chi risponde, bisogna invece cercare di tenerlo nascosto se siamo noi ad attaccare la tesi avversaria. Questo si fa, in primo luogo, quando non si traggono in precedenza le conclusioni, ma esse rimangono non chiare, pur essendo state assunte le premesse necessarie; in secondo luogo, quando non si propongono domande strettamente collegate, ma quanto più possibile prive di termini medi. Cioè, fare attenzione a una tesi avversaria, quando questa mostra di non avere il termine medio: tu passi da questo a quella conclusione, ma attraverso che cosa? Qual è il medio che consente? Sarebbe come dire che tutte le A sono B, quindi, tutte le A sono C; non posso farlo, come ci arriviamo? Manca il medio. A pag. 769. Infatti, non conosciamo nessuna realtà sensibile che si dia al di fuori della nostra percezione, neppure se ci è già accaduto di percepirla, se non perché ne abbiamo la conoscenza in universale e sì anche quella affine, ma non in atto. Noi abbiamo comunque conoscenza attraverso la percezione o attraverso i sillogismi. Sono tre i sensi in cui si dice che conosciamo qualcosa, infatti: nel senso della conoscenza in universale; nel senso della conoscenza affine alla cosa (analogia); nel senso della conoscenza in atto. Sono questi i tre modi, dice Aristotele, in cui conosciamo. Quindi anche “cadere in errore” si dice in altrettanti sensi. Nulla, dunque, impedisce di sapere e cedere in errore circa la stessa cosa (ma non nel senso di un sapere e di un errore reciprocamente contrari): è appunto questo che accade a chi conosce ciascuna delle due premesse separatamente e non le ha prima sottoposte ad esame. Questi, in effetti, in quanto crede che la mula sia gravida, non ha conoscenza nel senso che non ne ha conoscenza in atto, ma non cede nemmeno, a causa di tale credenza, nell’errore contrario alla conoscenza che ne ha, perché l’errore contrario alla conoscenza nel senso della conoscenza in universale sarebbe un sillogismo. Anche se non vede che la mula è gravida, lui sa che la mula è gravida e lo sa in base a sillogismi. Lo sa mosso dall’esperienza, sa che quella situazione implica che la mula è gravida, così come, per esempio, se una donna ha latte, vuole dire che ha partorito. Ora, prende in considerazione sillogismi che sempre più mostrano la corda, cioè, mostrano di essere sempre di più sillogismi dialettici anziché scientifici, dimostrativi. Mano a mano che procede anche i sillogismi dimostrativi appaiono sempre più sillogismi dialettici, retorici, in fondo. A pag. 775. Pertanto A è preferibile a D, e pertanto C è da evitare in misura minore rispetto a B. ora, ogni innamoramento, in fatto di amore, preferirebbe A e C insieme – dove A è “la persona amata è nella disposizione d’animo di concedersi e C sta per “la persona amata non si concede” – piuttosto che D e B insieme  dove D sta per “la persona amata si concede” e B per “la persona amata non è nella disposizione di concedersi”; ebbene, se è così, è chiaro che A, cioè la disposizione d’animo della persona amata, è preferibile al fatto che questa si conceda. Pertanto, in fatto di amore l’affetto da parte della persona amata è preferibile all’unione fisica. Questa sarebbe la conclusione, ma la facilità con cui si smonta una cosa del genere è straordinaria. Non solo sono opinioni, ma il rapporto fisico, la sessualità, è ciò che consente alla specie di proseguire e il proseguimento della specie è sicuramente superiore all’interesse della persona. Quindi, il rapporto sessuale è più importante dell’amicizia in quanto è solo con il rapporto sessuale che la specie può proseguire e si conserva all’infinito. In questo modo abbiamo annientato l’argomentazione di Aristotele con una più potente della sua, perché abbiamo introdotto la specie e la sua conservazione. Ora parla del sillogismo in base ad induzione, poi dell’esempio e, dopo ancora, dell’abduzione. Il sillogismo in base a induzione è quel sillogismo che prevede due premesse particolari e una conclusione universale. Peirce faceva l’esempio dei fagioli: questi fagioli sono bianchi, i fagioli vengono da questo sacco, quindi, conclusione: tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi. Il che non è necessariamente perché, ad esempio, potrebbero essere metà bianchi e metà marroni. Però, in questo modo io costruisco una conclusione universale a partire da due premesse particolari; potremmo addirittura dire che sono contingenti, casuali. Da una osservazione particolare ho costruito un universale e l’universale ha una caratteristica fondamentale, perché l’universale è ritenuto essere ciò che determina il come stanno le cose e questa non è una cosa qualunque. Quindi, l’induzione è quell’opera che costruisce un universale, da eventi fortuiti costruisce un universale, qualche cosa che dovrebbe dire come stanno le cose e che non è più messo in discussione. Ricordate l’esempio che abbiamo fatto mille volte: questa mattina è sorto il sole, così è stato la mattina prima, e così via da milioni di anni; allora, siccome non c’è motivo di pensare che domani sarà diverso, anche domani sorgerà il sole. E questa è l’induzione, cioè, da due particolari – il fatto che questa mattina è sorto il sole e che è sorto da milioni di anni – io induco l’universale, e cioè che il sole sorgerà anche domani e sorgerà sempre. Ho creato dal nulla un’affermazione universale che mi dice come stanno veramente le cose, tant’è che l’universale è talmente importante che viene poi preso come premessa del sillogismo dimostrativo, che parte dall’universale, da un universale che è stato costruito così. Quindi, dal particolare costruisco l’universale; poi, dall’universale, che credo essere la descrizione dello stato di cose, deduco a scendere tutti i particolari che mi interessano. Capite come funziona tutto ciò, è una bizzarria, eppure, funziona così logicamente, è questa la logica. Ora, parla dell’esempio. L’esempio è un’analogia. Infatti, in greco è παράδειγμα, in italiano paradigma, che dice che “è sempre accaduto così, quindi, anche in questo caso…” e, pertanto, non è lontano dall’induzione. A pag. 779. L’esempio si ha quando l’inerenza di un estremo al medio viene provata in virtù di qualcosa che è simile al terzo termine. Deve però essere noto sia che il medio inerisce al terzo termine; sia che il primo inerisce a quello che è simile al terzo. Sono tutte somiglianze, si assomigliano, quindi, è così: analogia. Infatti, fa l’esempio della guerra contro i Tebani da parte degli Ateniesi. Quella guerra che hanno fatto era infausta, è finita male; questa sembra altrettanto infausta, quindi, finirà anche questa male. C’è poi l’abduzione. L’abduzione è interessante, è anche questa una forma di sillogismo. Avete presente l’induzione: due premesse particolari e una conclusione universale. Qui, invece, l’universale viene posto tra i due particolari. L’abduzione è la tipica forma di inferenza, per esempio, nei polizieschi. Faccio un esempio banale di abduzione: questo tizio è sulla scena del crimine (particolare), tutti gli assassini tornano sulla scena del crimine (universale), il tizio è l’assassino (particolare). Questa forma, vi dicevo, è interessante perché è uno dei modi di pensare più comuni che esistano: si prende un caso particolare, si è convinti di poterlo riferire a un universale (tutti gli assassini tornano sulla scena del crimine); quindi, ciò consente di accusare il tizio – che magari passava di lì per i fatti suoi – come assassino. Questo perché c’è questo universale in mezzo, al quale io mi aggancio per essere sicuro di quello che affermo. Il tizio è tonato sulla scena, ma io so che tutti gli assassini tornano sulla scena… E come lo so? Lo so e basta. Però, funziona come garanzia ed è la garanzia che interviene in ogni discorso che si ascolta: c’è un evento particolare, questo evento particolare lo si associa a un universale, che dice che le cose accadono sempre in quel modo; quindi, si conclude con un altro particolare: questa situazione rientra nell’universale e, quindi, il tizio è l’assassino, le cose stanno così. Spesso l’universale è un proverbio, una massima. Tutte queste cose che stiamo dicendo, in effetti, ci fanno sempre più e sempre meglio rendere conto di che cosa sia di fatto la logica, e cioè una sequenza di proposizioni costruite: io mi invento, attraverso l’induzione, un universale, dopodiché, attraverso delle regole altrettanto inventate, deduco da questo universale dei particolari a seconda di queste regole che io ho stabilito: questa è la logica, nient’altro che questo. C’è poi l’entimema. L’entimema è quel sillogismo a partire da cose probabili o da segni, dimenticandosi Aristotele che tutti i sillogismi partono da cose probabili, sia che si tratti di induzione, sia che si tratti di deduzione; anche il sillogismo dimostrativo, quello perfetto, è sempre e comunque probabile. Probabile nel senso che la certezza che veicola è una certezza che io ho stabilito: sono io che dico che tutte le A sono B. Quando poi vado a tradurre questa formula, che di per sé non significa assolutamente niente, ecco che allora salta fuori la probabilità. E, infatti, l’altra volta dicevo che la forma sarebbe “se tutte le A fossero B e se tutte le B fossero C, allora e solo allora tutte la A sarebbero C”; ma è “se”, è un’ipotesi, una probabilità. Quindi, l’entimema è quel sillogismo che muove da una probabilità, come tutti i sillogismi; solo che qui la cosa è più evidente. Ad esempio, a pag. 787, …provare che una donna è incinta perché ha latte, è a partire dalla prima figura: infatti, “ha latte” è il termine medio. A starà per “è incinta”, B per “ha latte” e C per “donna”. Altro esempio. …provare che i sapienti sono persone di valore perché Pittaco è persona di valore, è mediante l’ultima figura. A starà “persona di valore”, B per “i sapienti”, C per “Pittaco”. Ebbene, è vero predicare di C sia A sia B, solo che uno non lo si dice perché è risaputo, mentre l’altro viene espressamente assunto. Invece “una donna è incinta perché è pallida” vorrebbe essere mediante la seconda figura… Tenete conto degli esempi che riporta. Non significano niente, è come se si arrampicasse sui vetri per dimostrare che le sue regole sono valide. Non lo sono, tutte quante sono solo possibili. La cosa migliore che possiamo dire è che non è impossibile che sia così. Cosa ci ha detto fin qui Aristotele? Che la logica non è nient’altro che questo: uno stabilire in modo totalmente arbitrario una premessa maggiore; considerarla un universale, sempre in modo arbitrario; e poi, stabilita la premessa universale, dedurre da questa, attraverso sillogismi dimostrativi dimostrano che cosa? Dimostrano niente perché devo restare all’interno di quelle regole stabilite da lui, e allora ecco che all’interno di queste regole dico di dimostrare. Ma queste regole non sono nient’altro che un programma eseguibile, non dicono affatto come stanno le cose. Ecco che ritorna la famosa frase di Wittgenstein: chi dimostrerà la dimostrazione? Una volta che ho fatto la mia bella dimostrazione, ho soltanto dimostrato che ho accettato le premesse da cui sono partito, ho accettato le regole di inferenza e mi sono attenuto scrupolosamente a tutto questo: questa è l’unica cosa che posso dimostrare, tutto il resto no. E questa è la logica che, come avrete notato, è qualcosa di totalmente differente da quanto si pensa generalmente. La logica è retorica, affonda nella retorica e ritorna alla retorica, non può fare altro. È un po' il percorso che Aristotele fa anche nella Metafisica: parte dall’unico principio, che è la δόξα, per tornare alla δόξα, perché qualunque cosa si affermi non è provabile se non all’interno della δόξα. Si rimane sempre nella δόξα, tutto ciò che diciamo non è mai uscito né uscirà mai dalla δόξα, cioè, dall’opinione: si pensa così, si crede così, si suppone così, e la logica ne fa direttamente parte. E con questo abbiamo terminato gli Analitici primi. Gli Analitici secondi, invece, li inizieremo mercoledì prossimo. Nel frattempo, riflettete bene sulla questione dell’abduzione, è la forma di sillogismo più diffusa in assoluto: questa cosa è così, ma io so come stanno le cose e, quindi, riporto questa a come io so come stanno le cose e, quindi, traggo la mia bella conclusione. Questa è l’abduzione, che è il modo di pensare più diffuso in assoluto.