1 novembre 2017
Il prossimo sabato ci sarà la mia conferenza sulla questione della verità. L’intenzione è quella di mostrare che, in effetti, la verità è qualcosa che è necessaria al funzionamento del linguaggio. Questo indipendentemente dalle varie definizioni di verità che sono state fornite. La verità è necessaria ma al tempo stesso è fondamentalmente una verità retorica, non c’è una verità logica costrittiva, è sempre retorica. Però, come dicevo, è necessaria al funzionamento del linguaggio. Perché? Ho considerato una cosa. Pensando alle varie definizioni di verità - ne sono state date tante, la questione della verità si pone almeno da Parmenide in poi - ogni definizione di verità cosa descrive, in realtà? Descrive uno stato di cose. Per esempio, Frege diceva che la verità non si può dire, non si può stabilire perché, se stabilisco o descrivo la verità, poi ci vuole una proposizione che verifichi quella proposizione, e poi ci vuole un’altra proposizione che verifichi quell’altra, e così via. Che cosa stava facendo Frege? Stava mostrando come stanno le cose, che le cose stanno in quel modo, e cioè che la verità non si può dire perché ci vuole una proposizione, ecc., ecc. Oppure, Parmenide: l’essere è e il non essere non è. Affermando questo, che cosa fa? Descrive uno stato di cose, le cose stanno così, e cioè che l’essere è e il non essere non è. Quando qualcuno chiede di dire la verità, che cosa chiede in realtà? Chiede di sapere come stanno le cose. Quindi, si tratta sempre di una descrizione di uno stato di cose e questo è determinante perché è, in effetti, il motivo per cui è necessaria che ci sia questa cosa che chiamiamo verità. È necessario, cioè, che sia possibile dire come stanno le cose. Ora, questo naturalmente non significa che la verità abbia una corrispondenza nella realtà, come vorrebbe la c.d. teoria corrispondentista per cui la proposizione corrisponde alla realtà; no, uno stato di cose, e cioè ciò che io credo, voglio, spero che le cose siano, le cose non stanno indipendentemente da me. Però, è sempre una descrizione di uno stato di cose, qualunque affermazione è la descrizione di uno stato di cose. Se affermo qualcosa affermo e dico come stanno le cose. È in questo che non può togliersi, perché sarebbe come togliere la possibilità di affermare qualcosa. A questo punto la questione si sposta dal concetto di verità allo stato di cose. Come stanno le cose?
Intervento: Anche senza il “come”. Stanno le cose?
Sì, quello è il passo successivo, però, la domanda iniziale vuole sapere come stanno le cose, perché se so come stanno le cose allora ogni proposizione, ogni affermazione, che io faccio e che descrive queste cose, che so come stanno, sarà necessariamente vera. È questa la nozione di verità che risulta imprescindibile dal funzionamento del linguaggio. Da qui, naturalmente, la ricerca, sempre esistita, per sapere come stanno realmente le cose. Tutta l’ontologia è andata sempre in questa direzione, e così la metafisica: sapere come stanno le cose, in modo da potere affermare la verità, che a questo non è niente altro che il dire come stanno le cose. Questa è l’accezione più antica, più semplice e banale, di verità. Anche quando Heidegger dà la sua definizione di verità, quando dice che la verità non è niente altro che il disvelarsi di ciò che appare nel modo in cui appare, sta dicendo come stanno le cose, che le cose stanno in quel modo, e cioè la verità è il disvelarsi di ciò che appare così come appare, e non in un altro modo. È curioso come tutto questo riconduca alla nozione di verità più antica e più semplice: come stanno le cose. Il problema è stabilire come stanno le cose. Anche la definizione che fornisce Heidegger, e cioè il disvelarsi di ciò che appare così come appare, è interessante perché “così come appare” ma come? Lui lo dice: nel mondo, cioè come appare a me in questo momento, ciò che mi appare non è astorico, è storicizzato. Quindi, mi appare così in questo momento, fra un quarto d’ora magari mi appare in tutt’altro modo. Probabilmente non ha neanche torto in questa sua definizione perché, sì, si disvela e appare così come appare, qui e adesso, non come appare astoricamente ma in modo storico, storicizzato o, come direbbe Heidegger, temporalizzato. Tutto il pensiero occidentale si è dato un gran da fare per riuscire a sapere come stanno le cose perché ne va di tutto. Qualunque affermazione, se non sa come stanno le cose, non può affermare niente, deve sapere o credere di sapere come stanno le cose per affermare qualcosa di vero e, quindi, di utilizzabile, perché poi è di questo che si tratta. Sapere come stanno le cose è apparso, lungo tutta la storia dell’umanità, come qualcosa di fondamentale, è l’unica garanzia di poter dire qualcosa di vero, di potere cioè dire qualche cosa che sia utilizzabile per costruire un discorso, un racconto, una teoria, qualunque cosa. È stato Kant il primo a mettere in dubbio la possibilità, almeno in modo metodico e sistematico, di sapere come stanno le cose: ciò che possiamo sapere è soltanto qualcosa che riguarda non le cose ma i nostri sistemi concettuali, questi li possiamo conoscere, sono loro che organizzano tutto quanto ma questo “tutto quanto” non sappiamo bene che cosa sia, di fatto. Il sapere come stanno le cose sarebbe possibile se fosse possibile accedere alle cose stesse, per riprendere una formulazione di Husserl, ma questo accesso alle cose stesse è possibile? Se sì, allora c’è la possibilità di costruire delle proposizioni vere, sub specie æternitate, cioè, assolutamente vere (sarebbe la nozione antica di ἐπιστήμη, la certezza assoluta), oppure, non è possibile accedere alle cose stesse perché ci accedo sempre attraverso una mediazione. Accedere alle cose stesse, come voleva inizialmente Husserl, sarebbe stato un approccio immediato, cioè, non mediato da nulla, quindi, devo togliere che cosa? Tutto ciò che media questo accesso, il linguaggio, e quindi le mie idee, i mei pensieri, la mia storia, le mie fantasie, i miei ricordi, la mia conoscenza, devo cancellare tutto. Il problema è che, una volta cancellato tutto, con che cosa mi approccio alle cose stesse? Con niente, perché io scompaio e, quindi, non c’è più nulla. Quindi, questo accesso sembrerebbe necessariamente mediato. Non è molto lontano da ciò che diceva Freud, quando parlava di realtà psichica e di realtà materiale. La realtà psichica è ciò attraverso ci pare di conoscere la realtà materiale, ma non è proprio così. Il fatto è che è la realtà psichica a impedire l’accesso alla realtà materiale, perché costituisce il medium attraverso il quale, e solo attraverso il quale, è possibile un accesso. Ma a questo punto affermare l’esistenza delle cose stesse, di una realtà materiale, è un’ipotesi, perché se non ho nessun modo di conoscerla direttamente, se non mediatamente, cioè attraverso di me e tutte le cose che ci metto io, la conoscenza delle cose stesse è un’ipotesi, la stessa esistenza delle cose stesse è un’ipotesi. Ha una sua funzione, ovviamente, sennò non si sarebbe mai posta la questione. Un’ipotesi la cui funzione è di illudere, fare credere che ci sia un qualche cosa fuori dal linguaggio. In definitiva è questo, perché solo se è fuori dal linguaggio allora può essere identico a sé, immutabile, ecc. Anche Tarski fa un discorso che per alcuni versi ha un qualche interesse. Dice che non c’è la possibilità di conoscere la verità finché si analizza questa verità all’interno del sistema in cui opera, sarebbe una petizione di principio. Quindi, per potere parlare di verità in modo corretto occorre uscire dal sistema. È la cosa che poi fece Russell, cioè, andare su un altro registro, dal quale è possibile parlare della verità. Anche Gödel fece una cosa simile rispetto alla matematica. È il metalinguaggio, metalinguaggio che parla di questo altro linguaggio. Si pone, però, un problema che riguarda la certezza che dall’esterno questa nuova nozione di verità possa dire con certezza di quell’altra verità. E siamo di nuovo daccapo, è un problema antichissimo, quello di Aristotele, quello del terzo uomo: occorre un elemento, un mezzo, che mi consenta di mettere in relazione questi due correttamente. Ammesso che lo trovi, occorre poi un altro elemento, fra il primo e quello di mezzo, fra il secondo e quello di mezzo, e così via all’infinito. Anche se ovviamente Tarski non lo dice, però, è come se ponesse questa questione: è possibile parlare con certezza della verità se la verità è fuori del sistema, cioè, fuori del sistema linguistico, fuori del linguaggio. In questo caso la verità sarebbe un quid che sta da qualche parte, identico a sé, immobile, e a questo punto posso manipolarla, posso essere certo che non muti perché non è più vincolato dal linguaggio. Il problema è che se non è più vincolato dal linguaggio, cioè se non è nel linguaggio, con cosa mi approccio? Per approcciarmi devo usare il linguaggio, cioè un medium, e siamo daccapo, vale a dire, non c’è accesso alle cose stesse se non mediato dal linguaggio. Ma questa mediazione del linguaggio, siccome non può togliersi in nessun modo, impedisce l’accesso a quelle che io credo siano le cose stesse. A questo punto non posso più parlare delle cose stesso ma di ciò che io credo che siano; visto che non so che cosa sono posso soltanto ipotizzare, congetturare, ipotizzare che ci siano. Però, è un’ipotesi che non ha nessuna possibilità di essere verificata, perché per verificarla dovrei sbarazzarmi del linguaggio, cosa che non si può fare, quindi, un’ipotesi, che non ha nessuna possibilità di essere verificata, è niente, è una credenza, una superstizione, un luogo comune. È questo il motivo per cui volevo giungere a questo, e cioè che la verità, qualunque definizione si dia, è sempre una verità retorica. Generalmente, si distingue la verità logica, quella che procede da un calcolo proposizionale, razionalmente, dalla verità retorica che, invece, procede da emozioni, sensazioni. Quest’ultima è molto più potente, per un semplice fatto: un’emozione, una sensazione, per chi la prova, ovviamente, è assolutamente vera, perché “la sente” e quindi è vera. Ma se è assolutamente vera, incontestabile, allora, per estensione, è altrettanto incontestabilmente vero ciò che l’ha prodotta, anche può essere assolutamente falso, però, funziona così: la mia sensazione è vera, quindi, ciò che l’ha prodotta è necessariamente vero. È per questo che è più potente della verità logica, però, la verità logica è anche questa una costruzione, cioè, utilizza un sistema che è una costruzione, un’invenzione. Non esiste la logica in natura, è soltanto un metodo inventato per costruire certe sequenze. In questo aveva ragione Wittgenstein: io costruisco delle sequenze, do delle regole, dopodiché seguo correttamente queste regole e giungo alla conclusione. Va bene, ma con questo non ho raggiunto nessuna verità, di nessun tipo, ho soltanto eseguito correttamente ciò che mi ero prefissato di fare. Invece, la verità retorica è interessante, perché è come se dicesse che non posso stabilire una verità se non attraverso emozioni, sensazioni, ricordi, conoscenze, tutto ciò di cui sono fatto. La verità retorica pone l’accento su questo aspetto, la verità logica fa come se potesse evitare tutto questo, cosa che non può fare, ovviamente. Per questo, vi dicevo all’inizio, che la verità è necessaria al funzionamento del linguaggio perché ogni volta che afferma qualcosa afferma uno stato di cose, cioè, dice come tanno le cose. E non può non farlo se vuole affermare qualcosa, affermare è sempre affermare uno stato di cose, ma al tempo stesso questa verità, che è necessaria, risulta anche arbitraria, e cioè una verità retorica, una verità che non è garantita da nulla che sia fuori del sistema, cioè, fuori di me. È una verità storica ma necessaria. Potrebbe anche apparire una contraddizione ma non lo è. Potremmo dirla così: è necessario che ci sia una verità e che questa verità sia arbitraria. Tutto parte dalla considerazione che anche la definizione di verità, qualunque essa sia, è sempre, inesorabilmente, che lo si voglia o no, che lo si sappia o no, sempre la descrizione di uno stato di cose, cioè dice che le cose stanno così. Come quando Lacan dice che la verità si può dire soltanto a metà e non tutta. Che possa a dirsi a metà o a tre quarti, in ogni caso quello che lui afferma è la descrizione di uno stato di cose, che dice che la verità può dirsi solo a metà e non altrimenti.
Intervento: C’è una relazione tra il descrivere uno stato di cose e descrivere la realtà?
Sì, comunemente si pensa così. Tutto questo che sto dicendo non riguarda una teoria corrispondentista, per cui la verità sarebbe il corrispettivo linguistico della realtà, perché la realtà è pensata come qualche cosa che è fuori del linguaggio. Lo stato di cose, a cui alludo, invece, è ciò che io credo che sia uno stato di cose. Quello che diceva Frege o che diceva Tarski, Russell o chiunque altro, non è la realtà nell’accezione comune del termine, non è la descrizione di come stanno realmente e definitivamente le cose, è la descrizione di uno stato di cose, uno stato di cose storico, storico per chi le pronuncia. Per esempio, Frege ha descritto a modo suo perché in quel momento gli pareva che fosse così, ma ciò che ha fatto è sempre e comunque una descrizione di uno stato di cose, non può pensare che non stiano così le cose, sennò non avrebbe detto quello che ha detto, non avrebbe detto che la verità non può dirsi perché ci vuole una proposizione e che questa proposizione deve essere verificata, ecc., ecc., non l’avrebbe mai detto. Né Lacan si sarebbe mai sognato di affermare che la verità si dice solo a metà se fosse stato convinto che la verità si dice invece tutta. Quello che lui ha descritto è uno stato di cose che lui crede che sia, crede che sia quello stato di cose e non un altro. Questo è il punto centrale: la verità è la descrizione di uno stato di cose, quello che io credo che sia. Accorgersi di questo è ciò che fa la differenza, perché non posso evitare di affermare cose, e affermando cose affermo stati di cose. È peraltro quello che sto facendo in questo istante, però, posso tenere conto del fatto che affermando, cioè descrivendo stati di cose, sto costruendo un gioco linguistico, la cui portata non va oltre il gioco linguistico, e questo mi solleva dalla necessità di credere in quello che dico. Utilizzo quello che dico ma non ci credo, non penso che sia così, che le cose stiano così in modo astorico, è sempre storicizzato, cioè, io posso dire le cose che sto dicendo perché ci ho riflettuto in questi giorni, ho pensato delle cose insieme con altre e tutto l’insieme di queste cose ha fatto sì che giungessi a questa considerazione. Le cose che dice Heidegger intorno al tempo, alla storicità, sono fondamentali, perché è come se dicesse che non può togliersi il linguaggio. È il linguaggio che definisce, in un certo senso, la storicità, è lui stesso che è storico, perché il linguaggio, come dicevamo la volta scorsa, l’italiano nel nostro caso non è stato inventato stamattina, viene da millenni di storia che si porta appresso, è il risultato di una serie infinita di evoluzioni, contaminazioni, ecc. Come sappiamo bene, la lingua cambia continuamente, lentissimamente, perché, di fatto, non c’è nessun motivo per cambiarla, va bene così com’è; ciò nonostante cambia, si aggiungono parole, altre scompaiono, alcune si modificano, è un continuo modificarsi. Perché? Non c’è una ragione propria ma si modifica perché ciascun parlante è storico, cioè, non è isolato dal resto del mondo, ha continuamente commercio nel mondo e, quindi, può semplicemente trovare, per esempio, più agevole utilizzare una formulazione anziché un’altra; poi, qualcun altro la trova al pari più agevole, oppure gli è piaciuta questa formulazione, oppure perché lui è un’autorità, ecc., comincia a seguire quella via e la lingua prende quella strada lì. La lingua che utilizziamo è l’esempio più ovvio e più immediato di storicità in atto, cioè, di temporalità che si temporalizza, nel senso che è presente qui, adesso. È la manifestazione di come infinite cose, che la lingua si porta appresso, decidono del modo in cui io parlo, quindi, del mio modo di pensare, del modo in cui io approccio le cose, decidono di tutto. È per questo che Heidegger insiste tanto sulla questione del tempo tanto da giungere, anche se non lo dice, a considerare che l’essere “è” tempo, l’essere è la storicità. Per Heidegger l’essere non è mai quella roba ferma in qualche iperuranio, che da lassù controlla che tutto funzioni, ma è la storicità, per cui qualche cosa è quella che è, sì, nella gettatezza ma questa gettatezza non viene dal nulla, viene da tutto ciò che io sono, sono stato e immagino che sarò, perché anche questo interviene, anche questo fa parte di me. quindi, l’essere “è” tempo, cioè, l’essere è storico. Non c’è un altro modo, secondo Heidegger, di pensare l’essere se non come storicità. Come dire che io sono storicità, l’Esserci è storicità. In questa storicità Heidegger ci mette dentro tutto: per esempio, la Cura. La Cura non è casuale, è storica. Il fatto che io mi prenda cura di qualche cosa non è così avulso da tutto. Dire che la Cura è storica è come dire che tutto ciò che io faccio, penso, dico, ecc., tiene conto di ciò che io sono. Freud direbbe delle fantasie, cioè, della mia realtà psichica. Ne tiene conto e non può non tenerne conto perché io sono fatto di questo, non posso non tenerne conto perché essendo questo, che ne voglia oppure tenere conto… Anche il fatto di tenerne conto oppure no, comunque è storico.
Intervento: Umanità e storia…
Heidegger le direbbe, probabilmente, che ciò che lei dice è possibile pensarlo perché l’Esserci è storico. Solo a questa condizione è possibile pensare alla storia dell’umanità. Se l’Esserci non fosse storico, e cioè non avesse tutto il suo bagaglio intellettuale, culturale, ecc., non gli verrebbe neanche in mente di pensare all’umanità e alla sua storia. Qualunque cosa può venirmi in mente solo perché io sono un essere storico. Questa è la portata, almeno in buona parte, del pensiero di Heidegger, che non è molto lontano da ciò che andiamo dicendo praticamente da sempre, cioè, io posso pensare tutto quello che penso perché sono “linguaggio” e, essendo linguaggio, non posso non essere storico, perché il linguaggio che decide, io non ho deciso di essere o no nel linguaggio, sono nel linguaggio e, di conseguenza, posso fare, posso pensare tutte le cose che faccio e che penso. Tutte queste cose sono storiche, storiche in questo senso ovviamente, storiche adesso, è questo il senso della temporalità che si temporalizza, e cioè che avviene adesso, in questo momento. Ecco che allora anche tutta la questione del progetto gettato, della gettatezza di cui l’Esserci è fatto, acquista un significato più preciso. L’Esserci è gettatezza e non può non esserlo, e la sua storicità, cioè il fatto di essere una serie di cose che gli consentono di pensarsi e che lo costringono a occuparsi sempre di qualcosa. L’Esserci non può esimersi dall’essere gettatezza, non può arrestarla perché lui stesso è gettatezza. Per Heidegger l’essere è tempo, questo dice del fatto che questa gettatezza non è casuale ma è sempre pilotata dalla sua temporalità, dalla sua storicità; non esisterebbe la gettatezza senza la storicità, cioè senza essere una serie infinita di cose. Come dicevo prima, questa gettatezza non viene dal nulla, viene dal fatto che l’essere qui e adesso… già il termine Esserci allude alla questione, questo Ci indica il qui e adesso. Se sono qui e adesso questo significa che sono in un modo particolare, specifico del momento in cui io, per esempio, sto pensando, momento che tiene conto di ciò che mi è venuto in mente prima, per esempio, e di infinite altre cose. In effetti, questa questione, di cui parlavo prima, della verità come descrizione di uno stato di cose, tiene conto di queste indicazioni di Heidegger circa la storicità, nel senso che potremo formulare così: la verità è la descrizione storicizzata di uno stato di cose, che è storico anch’esso, ovviamente, non è fuori della storia, non è fuori di me, non è fuori del linguaggio. In altri termini, io sono già sempre storicizzato. Ricordate quando Heidegger diceva che l’Esserci è già da sempre quello che è. Non è che lo diventa, no, è già da sempre storicizzato perché, se è quello che è, è perché è storicizzato. È la stessa cosa rispetto al linguaggio, non è che a un certo punto io decido di entrare nel linguaggio, mi ci trovo, con tutto ciò che questo comporta, naturalmente. Non è una mia decisione. L’unica decisione, di cui parla Heidegger, è quella di uscire fuori dalla deiezione, dalla chiacchiera, ma di sicuro non è una decisione dell’Esserci di essere Esserci, di essere qui e adesso, io non posso decidere di non essere qui e adesso, ovunque io sia e qualunque cosa io faccia. Per questo, diceva, che la temporalità non è l’essere, non ha niente a che fare con l’essere, vale a dire, non dipende dall’essere, “è” l’essere stesso. Non sono due cose distinte, ed è per questo che non c’è l’essere del tempo, perché l’essere “è” tempo.
La Cura è il prendersi cura innanzitutto di sé da parte dell’Esserci, cioè pone se stesso come un utilizzabile e si usa, come? Come gettatezza, non può usarsi se non così. Questa sarebbe l’autenticità: l’Esserci che usa se stesso per l’unico uso che può farsi, e cioè come gettatezza.
Intervento: Il pensiero che pensa se stesso…
Sì. Tantissime cose che dice Heidegger hanno fatto comparsa in quello che diciamo tantissime volte ma Heidegger ci offre l’opportunità di pensarle ancora. Non è facile trovare qualcosa che fornisca questa opportunità di potere continuare a pensare in modo interessante qualcosa che si è già pensato. È in fondo il “messaggio” di Heidegger: pensare ciò che è da pensare, ma ciò che è da pensare non è niente altro che ciò che si manifesta, ciò che accade. Questo sarebbe l’Esserci autentico. Pensare ciò che accade comporta, ovviamente, che l’Esserci usi se stesso come gettatezza, vale a dire, accorgersi, tenere conto che il pensare qualche cosa fa parte di un progetto, un progetto, sì, autentico ma sempre all’interno di un progetto che non può non essere storico, non può non tenere conto di tutto ciò che sono, cioè, del mondo che io sono. Però, questa sera non abbiamo letto nulla di Heidegger. Possiamo leggere questa a pag. 398. La comprensione, intesa in senso originariamente esistenziale, significa: essere-progettante per un poter-essere in-vista-di-cui l’Esserci sempre esiste. Il progetto autentico è sempre per un poter essere. Per un poter essere, non per qualche cosa, per accendersi una sigaretta o che altro, non è questo il progetto autentico, è il progetto della chiacchiera. Quello della comprensione, dell’apertura, è essere-progettante per un poter-essere in-vista-di-cui l’Esserci sempre esiste, come dire che l’Esserci non può non essere che sempre questa cosa qui, cioè, essere-progettante per un poter-essere in-vista-di-cui.