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1-10-2014

 

L’oggetto dunque. La volta scorsa abbiamo letto un breve articolo di Sini che definiva l’oggetto come una pratica, un intreccio di pratiche nominabili. Per Meinong invece la questione dell’oggetto si pone in modo differente. Intanto occorre dire che questo testo di Meinong è un testo di metafisica, un testo dichiaratamente di metafisica. Molti testi, anche quelli che apparentemente si pongono come obiezione alla metafisica o contro la metafisica in molti casi sono testi comunque di metafisica, ma questo è un altro discorso. Per Meinong un “oggetto” è qualunque cosa e lui dice apertamente che la teoria dell’oggetto che a lui piace chiamare “gnoseologia” cioè un discorso sulla conoscenza in generale, come un qualche cosa che fa pendant, questa la parola che usa lui, con la metafisica, ma va al di là della metafisica; la metafisica si occupa soltanto di ciò che è in quanto è, mentre la teoria dell’oggetto di Meinong si occupa anche di ciò che non è in quanto non è, e quindi si occupa di qualche cosa che va oltre ciò di cui si occupa propriamente la metafisica. Parla di oggetti impossibili, come il quadrato rotondo, il ferro legnoso, cose che non solo non esistono ma non hanno nessuna possibilità di esistere, però possiamo fare un altro esempio che Meinong non fa ma lo faccio io, prendete la serie dei numeri naturali 1,2, 3, 4, 5 eccetera, pensate al più grande numero naturale, ora questo oggetto, perché possiamo considerarlo oggetto secondo Meinong, questo oggetto appartiene a una pratica, in particolare quella numerica, aritmetica, ma non è nominabile, chi può nominare il numero più grande? Qualunque cosa io nomini non sarà quello comunque, ora a questo punto questa cosa che per Meinong comunque è un oggetto, e adesso vedremo perché, per Sini non è un oggetto perché appartiene a una pratica, quella aritmetica nel caso specifico, ma non è nominabile, dunque non è un oggetto. Perché per Meinong l’oggetto è ciò che si pone, lui lo chiama il “positum”, cioè appunto letteralmente ciò che si pone, qualunque cosa sia, potremmo dire ciò che si afferma, qualunque cosa si affermi è un oggetto, qualunque cosa si affermi quindi si pensi. Tutto ciò che si pone in qualche modo, esiste, tutto ciò che è pensabile, ma che cosa è pensabile e che cosa non è pensabile? L’idea di Meinong è che se penso, penso necessariamente qualcosa, se penso “penso qualcosa” e quindi qualunque cosa, anche a un quadrato rotondo, se lo penso, visto che lo sto dicendo, lo sto pensando, allora questa cosa è un oggetto. Questa elaborazione ci interessa soprattutto perché ha a che fare con ciò che dicevamo tempo fa rispetto all’affermare qualcosa quindi al porre qualcosa letteralmente “fermare qualche cosa”, tutto ciò che si pone nel dire e di conseguenza nel pensare ha una sua esistenza, e questa esistenza comporta che questa cosa abbia degli effetti in un modo o nell’altro. Ciò che dicevamo intorno al principio di non contraddizione è interessante in questo perché per alcuni, come per esempio Severino, ciò che viola il principio di non contraddizione è nulla, mentre se io scrivo (A & ~ A), questa cosa che dovrebbe essere nulla, per Meinong è comunque qualcosa. Meinong non si occupa del principio di non contraddizione ma in ogni caso per lui qualunque cosa violi il principio di non contraddizione non è nulla ma è comunque qualcosa, è un oggetto. Essendo tedesco ha a disposizione come sapete due modi per indicare l’oggetto, cioè “Objekt” e “Gegenstand”. “Objekt” è un termine che viene utilizzato nella sua derivazione latina da “obiectum” composto dalla proposizione “ob” che indica “davanti” o anche “contro”, può essere anche oppositivo, e “iacere” che è “gettare”, quindi ciò che è gettato contro, mentre la parola tedesca “Gegenstand” che è di derivazione sassone e non latina indica “gegen” + “stand” lo “stare davanti” “stare innanzi”. In italiano non c’è questa possibilità, c’è “oggetto” e basta. Meinong non utilizza soltanto Objekt e Gegenstand ma anche un altro termine “Objektiv” che in italiano è stato reso con “oggettivo” per non usare il termine “obiettivo” perché ha spesso una connotazione differente e cioè come “scopo” come “meta” e invece non è questo ciò che lui intendeva dire. Incomincia a dire che ha preso le mosse per giungere alla questione dell’oggetto dal “conoscere” dalla “conoscenza”: si dice qui se certamente non è solo il conoscere ad avere il proprio oggetto (perché se uno conosce, conosce qualcosa, qui c’è tutto un echeggiamento metafisico ma d’altra parte lui dice esplicitamente che sta facendo metafisica) esso lo ha comunque in una maniera particolarissima, tanto che là dove si parla di oggetto si è in prima istanza indotti a pensare all’oggetto del conoscere. Il processo psichico che noi chiamiamo “conoscere” non esaurisce infatti da solo l’intera consistenza della conoscenza quest’ultima è un fatto duplice di cui il “conosciuto” sta di fronte al “conoscere” come qualcosa di relativamente autonomo che non solo costituisce ciò a cui questa (conoscenza) è orientata (come per esempio nei giudizi falsi) ma che piuttosto attraverso il processo psichico è per così dire afferrato e colto, o come pure si trovi ad esprimere in modo inevitabilmente figurato quanto è in realtà indescrivibile (il quadrato rotondo) Se si considera esclusivamente questo oggetto della conoscenza le domande relative ad una scienza dell’oggetto verranno ad essere poste in un primo momento sotto una luce poco favorevole, una scienza dell’oggetto del conoscere: tutto ciò significa qualcosa di più che l’esigenza di elevare ad oggetto di una scienza ciò che in quanto oggetto della conoscenza si conosce già, e con questo renderlo una seconda volta oggetto della conoscenza, in altri termini non si è forse alla ricerca di una scienza che o è costituita dalla totalità delle scienze o dovrebbe compiere quanto tutte le scienze insieme comunque realizzano? (questo per indicare come la sua teoria dell’oggetto e quindi una teoria della conoscenza e quindi una gnoseologia, per lui di fatto sia la scienza delle scienze, “scientia scientiarum” dicevano i latini. Tra l’altro, come curiosità “teoria dell’oggetto” in tedesco si dice “Gegenstand teorie” cioè si usa “Gegenstand” e non “Objekt”, infatti lui usa Gegenstand cioè l’oggetto in accezione più comune, non nell’accezione che preciserà tra un istante) La metafisica ha senza dubbio a che fare con la totalità di ciò che esiste ma la totalità di ciò che esiste con inclusione di quanto è esistito ed esisterà è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti della conoscenza cioè di tutto ciò che è possibile conoscere, che tutto ciò sia trascurato con tanta leggerezza si deve certamente al fatto che l’interesse particolarmente vivo per il “reale”, interesse che appartiene alla nostra natura porta all’eccesso per cui si considera il “non reale” come un puro nulla o più precisamente a considerarlo come qualcosa che non offrirebbe in alcun modo alla conoscenza dei punti di aggancio, oppure forse alcuni ma solo scarsamente apprezzati (qui incomincia a porre la questione degli oggetti che sono fuori dalla metafisica) Quanto poco una simile opinione sia da parte della ragione lo dimostrano gli oggetti ideali (Gegenstand) che hanno sì una certa consistenza, consistono ma non esistono affatto perciò non possono in nessun modo essere reali, uguaglianza e diversità ad esempio sono oggetti di questo tipo, essi consistono forse in questa o quella situazione tra realtà fattuali ma non costituiscono alcun frammento di realtà, la “diversità” di fatto è un concetto. È però fuori di dubbio naturalmente che nella rappresentazione, nell’assunzione e nel giudizio si ha a che fare con simili oggetti e spesso si ha ragione di occuparsene accuratamente, anche il numero non esiste una seconda volta accanto al numerato, ammesso che quest’ultimo esista, lo si riconosce chiaramente dal fatto che si può contare anche ciò che non esiste, (il numero esiste anche se non c’è il numerato) allo stesso modo la connessione non esiste accanto a ciò che è connesso nel coso in cui quest’ultimo esista, che ciò non sia tuttavia essenziale lo dimostra ad esempio la connessione tra l’equilateralità e l’equigonicità nel triangolo, per giunta la relazione di connessione anche là dove si tratti di cose esistenti come per esempio la natura dell’aria o l’altezza della colonna termometrica o barometrica congiunge piuttosto che queste stesse realtà il loro essere o anche il loro non essere, nella conoscenza di una simile connessione si ha dunque già a che fare con quel genere particolare di oggetti per i quali spero di avere dimostrato che essi si trovano dinnanzi a giudizi o ad assunzioni in maniera simile a quella in cui dinnanzi alle rappresentazioni sta il loro oggetto proprio (dunque una connessione tra una relazione e ciò di cui è relazione, tale relazione per Meinong è un oggetto anche quella. Dice che è un oggetto nello stesso modo che abbiamo quando ci troviamo in una rappresentazione, la rappresentazione è una rappresentazione di qualche cosa, questo qualche cosa a sua volta è un oggetto) Ho proposto il nome di “oggettivo” (Objektiv appunto) è mostrato come questo oggettivo potrà a sua volta comparire nelle funzioni di un obietto vero e proprio, in particolare come oggetto (Gegenstand) di un nuovo giudizio ad esso rivolto. Quando dico “è vero che ci sono antipodi” non è agli antipodi, ma all’ “oggettivo” ci sono antipodi, che la verità è attribuita (quindi l’oggettivo è un modo particolare dell’oggetto che indica qualche cosa che di fatto non esiste propriamente, ma all’oggettivo “ci sono antipodi”, che la verità è attribuita, non agli antipodi in quanto tali ma al fatto che ci siano, infatti usa un altro termine non “esistenza” ma “consistenza” in tedesco “bestehen”. Come spesso accade in questi testi alcune parole che potrebbero essere tradotte in un modo o in un altro, per evitare equivoci ci si mette il termine in tedesco, così come alcuni casi in greco poi ognuno se lo interpreta come gli pare) ciascuno comprenderà immediatamente che l’esistenza degli antipodi è qualche cosa che certo può consistere ma da parte sua non può esistere, (certo è un concetto l’“antipodo” quindi non esiste, però consiste, se consiste è qualche cosa) ciò vale anche per tutti gli altri “oggettivi” così che ogni conoscenza che ha per oggetto un oggettivo rappresenta al tempo stesso un caso di conoscenza di un non esistente, (questo è l’oggettivo, che è già una formulazione singolare dire che la conoscenza è conoscenza di qualcosa che non esiste, generalmente si suppone il contrario. Poi cerca di precisare la cosa) Quanto in un primo momento è stato esposto in singoli esempi trova una testimonianza in un’intera scienza di alto anzi massimo sviluppo la matematica, non si vorrà certo accusare la matematica di estraneità alla realtà, nel senso che essa non abbia nulla a che fare con ciò che esiste, è innegabile che le è assicurata un’altissima sfera di applicazione nella vita pratica così come nella trattazione teoretica del reale, in nessun singolo caso tuttavia la conoscenza puramente matematica riguarda qualcosa cui sia essenziale l’essere reale (qui “essere reale” lui, lo intende nell’accezione comune del termine e questo è un problema in questo testo, ché molte volte come in questo caso alcuni termini come “reale” vengono semplicemente utilizzati senza essere precisati, cosa che in un testo del genere occorrerebbe fare, mentre “reale” lo intende nell’accezione comune cioè ciò che c’è ed è percepibile dai sensi) L’essere a cui la matematica che in quanto tale deve interessarsi non è mai l’esistenza e mai essa si spinge in questo senso oltre la consistenza, una linea retta esiste così poco quanto un angolo retto e un poligono regolare tanto quanto una circonferenza, il fatto che ciò nonostante l’uso linguistico dei matematici arrivi eventualmente a rivendicare espressamente una qualche esistenza tra questi oggetti può considerarsi solo una peculiarità di questo uso, nessun matematico esiterebbe ad ammettere quanto egli ha in mente con il nome di “esistenza” relativamente agli oggetti che sottopone alla propria trattazione teoretica non sia altro alla fine che quanto si è soliti chiamare “possibilità” (cioè sta dicendo che ciò che i matematici chiamano “esistenza” di fatto è una possibilità) dando forse in ogni caso un notevole accento positivo a questo concetto generalmente caratterizzato in senso negativo (mentre i matematici parlano di esistenza però di fatto questa esistenza per esempio di una sfera è una possibilità che esista, dimostrare che esiste realmente “la sfera” è complicato)Non v’è alcun dubbio che ciò che è destinato ad essere oggetto di conoscenza non deve per questo necessariamente esistere (qui giunge ad affermare questo) le affermazioni precedenti potrebbero ancora dar spazio all’ipotesi per la quale l’esistenza non solo può ma deve anche necessariamente essere sostituita dalla consistenza laddove non v’è alcuna esistenza (sta ripetendo che là dove non c’è alcuna esistenza occorre parlare di consistenza perché comunque c’è qualche cosa anche se propriamente non esiste. (Però dice): anche questa limitazione è illecita lo insegna uno sguardo rivolto alle particolari prestazioni del giudizio e dell’assunzione che ho cercato di fissare attraverso la contrapposizione della funzione tetica e di quella sintetica del pensiero, (“tetico” significa semplicemente “il porre”, “sintetico” è quello che ha un utilizzo esistenziale “esiste” un …) nel primo caso (cioè la funzione tetica) il pensiero coglie un essere, nel secondo (funzione sintetica) un esser così (sosein) (un esser così cioè una determinazione, il giudizio comporta una determinazione mentre la funzione tetica no, semplicemente coglie l’esistenza di qualcosa senza dare nessun giudizio) in entrambi i casi un “oggettivo” (l’oggettivo è quell’oggetto particolare che non ha nessuna esistenza da nessuna parte ma consiste) un “oggettivo” che potrà essere indicato là come “oggettivo d’essere” e qui come “oggettivo d’essere così” il sostenere che si possa parlare di un “esser così” (cioè di una determinazione qualunque) soltanto presupponendo un essere che significa? (adesso cerco di illustrare, l’ “esser così” per esempio di questa penna che è così, è lunga e nera e fatta in un certo modo, però lui dice che generalmente si suppone che l’“esser così” di questa penna presupponga un essere, cosa sulla quale forse non è del tutto d’accordo infatti rileggo “il sostenere che si possa parlare di un “esser così” soltanto presupponendo un essere verrebbe ad accordarsi molto bene col pregiudizio a favore dell’esistenza sopra ricordato” il fatto che quando si parla di qualche cosa si suppone per esempio la “conoscenza” debba conoscere qualcosa che esiste, questo per lui è un pregiudizio) secondo questo pregiudizio in realtà non avrebbe senso chiamare una casa grande o piccola o un luogo fertile o non fertile prima di sapere se la casa o il luogo esistono, sono esistiti o esisteranno. Ma la stessa scienza dalla quale abbiamo potuto desumere sopra le numerose istanze contro di esso (contro questo pregiudizio) permette di riconoscere in modo particolarmente chiaro anche l’insostenibilità di un tale principio, le figure di cui tratta la geometria non esistono come sappiamo e tuttavia le loro proprietà cioè il loro “esser così” possono essere osservate. Senza dubbio un’affermazione relativa all’ “esser così” non si potrà legittimare nell’ambito di ciò che è conoscibile solo a posteriori (poi aggiunge) un certo “esser così” che non abbia immediatamente un essere dietro di sé mancherà di ogni interesse naturale (qui cosa intende esattamente con “naturale” non lo dice, si suppone “naturale” nel senso che non è un elemento di natura, in fondo qui c’è la divisione tra “ens naturæ” e “ens rationis” “ente di natura” e “ente di ragione”, questo tavolo è un ente di natura, la fortuna è un ente di ragione) … tutto ciò però non annulla il fatto che l’ “esser così” di un oggetto non è affatto coinvolto dal non essere di questo oggetto (qui la questione è un po’ complessa, e cioè una cosa può essere così senza che questa cosa esista, ci sta dicendo in altri termini che l’“essere così” non è coinvolto dall’essere, per farla breve) e l’ambito di validità di questo principio (quindi è un pregiudizio?) (queste sono cose che lui dice anche contro il pregiudizio perché sostiene che tutto ciò che appartiene alla conoscenza deve avere un essere, mentre lui sta sostenendo che la conoscenza può essere mossa anche da qualcosa che propriamente non esiste) (cioè io so come sono fatti gli unicorni anche se non esistono?) (sì, proprio così) (quindi è un ente di ragione?) (la differenza fra ente di ragione ed ente di natura è una differenza molto rozza, in effetti stiamo andando molto al di là di questo, sì è un ente di ragione, certo. Ente di ragione è tutto ciò che non ha esistenza “reale”, appunto la fortuna, l’ansia) e l’ambito di validità (ecco lui formula questo nei termini di un principio “il principio dell’indipendenza dell’essere così dall’essere” perché è questo che a lui interessa, quindi vuole costruire un “principio di indipendenza”. Per cui l’“esser così” non dipende dall’Essere, come comunemente tutta la metafisica ha sempre sostenuto) e l’ambito di validità di questo principio si chiarisce nel migliore dei modi se si considera il fatto che adesso non soggiacciono solo oggetti che di fatto non esistono ma anche quelli che non possono esistere perché sono impossibili, non solo la celebre montagna d’oro ma anche il quadrato rotondo che è rotondo quanto è quadrato, è naturale che solo eccezionalmente si potranno registrare idee realmente importanti relative a simili oggetti (sta dicendo che magari tutte queste cose sono elucubrazioni che poi nella vita di tutti i giorni non hanno un’importanza fondamentale) con questo non di meno si getta una qualche luce su ambiti che sono in massima misura degni di essere conosciuti (massima misura non in minima) più istruttivo di simili considerazioni che sono comunque piuttosto estranee al pensiero naturale (qui “naturale” sembra essere inteso come il pensiero di chiunque in qualunque momento della sua giornata) è invece il rinvio al fatto triviale che non oltrepassa l’ambito dell’oggettivo d’essere che un qualsiasi non ente deve essere in grado di costituire l’oggetto per lo meno per i giudizi che colgono questo non essere,(rileggo: che un qualsiasi non ente deve essere in grado di costituire l’oggetto per i giudizi che colgono questo non essere. Semplicissimo, un non ente, il “quadrato rotondo” è in grado di costituite l’oggetto – perché è un oggetto anche lui – per lo meno per i giudizi che colgono questo non ente, cioè giudizi che vertono verso il non essere. Il quadrato rotondo non c’è) (perché so che cos’è il rotondo e che cos’è il quadrato?)(perché se tu parli di un oggetto quadrato e rotondo comunque ne stai parlando, dunque è un oggetto (può anche non esistere) e infatti non esiste il quadrato rotondo) in ciò infatti è assolutamente inessenziale stabilire se questo non essere sia necessario o semplicemente contingente, non meno di quanto lo sia stabilire se, nel primo caso, la necessità scaturisca dall’essenza dell’oggetto o piuttosto da elementi che sono esteriori all’oggetto in questione … (Ciò che lui sta facendo è incominciare a mostrare che anche il quadrato rotondo è un oggetto perché comunque è oggetto di un giudizio, di un pensiero e quindi c’è, ma c’è in un altro modo di come c’è questa penna, ovviamente, e infatti parlerà di pseudo esistenza) Osservato dal punto di vista della rappresentazione mi sembra che anche ora si sia colto qualche cosa di davvero essenziale, ma oggi non posso nascondermi che l’oggetto per non esistere ha, se possibile, ancor meno necessità di essere rappresentato che non per esistere, e quand’anche gli fosse necessario dall’essere rappresentato potrebbe scaturire al massimo una specie di esistenza, l’esistenza nella rappresentazione cioè più precisamente la “pseudo esistenza” (ora ciò che sta dicendo è che rispetto all’oggetto di cui sta parlando e cioè che non ha bisogno dell’essere, non ha bisogno neanche di essere rappresentato, può essere rappresentato ma può anche non essere rappresentato in nessun modo, se è rappresentato in qualche modo allora parla di una pseudo esistenza) per esprimersi in modo più preciso quando affermo “il blu non esiste” non penso assolutamente a una rappresentazione e a una eventualità di questa ma appunto al blu, è come se il blu dovesse prima essere perché per lo più si possa porre la questione circa il suo essere o il suo non essere. (Ora questo passo è importante quando dico il “blu” cosa sto dicendo in realtà? Certo sto ponendo un oggetto, lo sto ponendo letteralmente però il blu in quanto tale non esiste fuori da una sua rappresentazione. Però è come se comunque anche se non esiste il blu in assoluto, dovesse esistere in ogni caso perché io possa valutare del suo essere o non essere, questione metafisica per eccellenza: di qualunque cosa io parli, questo qualche cosa in qualche modo deve esistere perché io possa parlarne, perché ne sto parlando, è una questione antica questa perché era già stata posta da un filosofo medioevale, Fredegiso di Tours, nel suo testo “De nihilo et tenebris”, ma già in Parmenide si può vedere la cosa. Allora:) per non cadere nuovamente in paradossi o in insulsaggini sia lecita l’espressione: il blu, come ogni altro oggetto è in qualche modo già anticipatamente dato alla nostra decisione circa il suo essere o il non essere, in una maniera che non pregiudichi anche il suo non essere. Dal lato psicologico si potrebbe descrivere la situazione in questo modo, se riguardo ad un oggetto devo poter giudicare che esso non è, allora sembro dover prima in un certo modo afferrare l’oggetto per poter poi enunciare il suo non essere o meglio per poterglielo imputare o sottrarre nel giudizio (questo sta dicendo: per potere dire che non c’è, prima è come se dovessi afferrarlo, solo dopo che l’ho afferrato allora posso dire che c’è oppure non c’è) si potrebbe sperare di venire a capo con un qualche rigore scientifico di questa circostanza evidentemente particolarissima nonostante la sua quotidianità, attraverso la seguente considerazione: che un certo A non sia, più brevemente, il non essere di A, è un oggettivo proprio come lo è l’essere di A, (perché è un oggettivo secondo Meinong? Perché di fatto non esiste, è qualcosa che io pongo ma è un concetto, a differenza di questa penna non ha una esistenza reale) e come è certamente legittimo dire che a non è, con la stessa certezza all’oggettivo non essere di a, spetta un essere, o meglio una consistenza, come si è detto sopra (ha fatto bene a precisare perché se no questi “esseri” creano confusione, quindi questi oggettivi anche il non essere di A è un oggetto, che propriamente non esiste ma consiste, prima prende un oggetto che non ha nessuna esistenza, propriamente come la A, poi nega questa cosa che non ha nessuna esistenza, eppure nonostante questo ha una consistenza) ora però l’oggettivo indifferentemente dal fatto che esso sia un oggettivo d’essere o di non essere, l’oggettivo di essere la A, oggettivo di non essere non A, questo sta dinnanzi al suo oggetto in un modo simile in cui il tutto sta dinnanzi alla parte. (adesso lo preciserà) se però il tutto è dovrà essere anche la parte, (se un tutto esiste all’interno ci sarà anche la sua parte, se questo pacchetto di sigarette esiste, esiste anche la sigaretta che ci sta dentro) cosa che trasposta all’oggettivo sembra voler dire “se l’oggettivo è anche l’oggetto che gli appartiene dovrà in un certo senso essere, anche nel caso in cui l’oggettivo sia un oggettivo di non essere (se è l’oggettivo di non essere, cioè non A, anche in questo caso comunque sta dicendo che è un oggetto, che c’è un oggetto) l’oggettivo però proibisce proprio che si prende il nostro a per essente (ha detto che l’oggettivo è qualche cosa che dice di qualche cosa che non ha una realtà propria, mentre qui dice che proibisce che si prenda il proprio A per essente. Qui non specifica “essente” però lo intende in accezione filosofica corrente e cioè come ente) ove, come abbiamo visto l’essere può intendersi non solo nel senso di esistenza ma condizionatamente anche nel senso comune (bestand - qui interviene un altro termine sta dicendo che il nostro A lo si prende come un ente oppure come un oggetto qualunque, una cosa) sembra allora che la necessità di un essere dell’oggetto, necessità che si è sopra dedotta dall’essere dell’oggettivo di non essere, abbia senso solo nella misura in cui ha a che fare con un essere che non è né esistenza né consistenza cioè solo nella misura in cui, se così si può dire, a entrambi i detti livelli d’essere l’esistenza e la consistenza si può affiancare una sorta di terzo livello (è troppo facile con solo due: esistenza e consistenza. Ne aggiunge un terzo) questo essere dovrebbe allora essere attribuito ad ogni oggetto: un non essere dello stesso livello non potrebbe essergli contrapposto poiché un non essere in questo senso nuovo, dovrebbe immediatamente portare per conseguenza delle difficoltà analoghe a quelle che il non essere in senso abituale porta con sé. Per questo essere dalla natura un po’ insolita mi è sembrato per qualche tempo fosse possibile utilizzare senza problemi il termine “quasi essere” (cioè cosa sta dicendo? Sta dicendo che ci sono situazioni in cui non è possibile parlare di esistenza di un ente ma non è possibile neanche parlare di essere di quell’ente, di nessuna delle due, p e allora si parla di un “quasi essere”, infatti dice “si tratterebbe di un essere che non sarebbe né esistenza né consistenza. Dice che ha parlato di oggetti di una “quasi esistenza” quasi trascendenza ma poi di fatto non si trovano da nessuna parte e allora è legittimo ciò che sto facendo? O non serve a niente?) ciò che sembrava spinto verso di esso (cioè il terzo tipo di essere, il “quasi essere”) un vissuto ben osservato A, deve in qualche modo essermi dato (come abbiamo visto prima, se devo cogliere il suo non essere, quando dico non a questo A comunque deve essermi dato, in qualche modo, per potere dire che non è,) ciò comporta però, come ho spiegato altrove A deve essermi dato se devo cogliere il suo non essere (ciò comporta una assunzione di qualità affermativa, cioè per negare A devo prima assumere l’essere di A, per negare prima devo affermare, sta dicendo questo) certamente con ciò faccio riferimento ad un essere di A in qualche modo già dato, ma è nell’essenza dell’assunzione stessa che essa miri ad un essere che non deve necessariamente esistere, (cioè dice che è nel fatto dell’assunzione e nel fatto che essa miri a qualche cosa che non deve necessariamente esistere, perché esiste soltanto nell’assunzione che mira a questa cosa, ma questa cosa non deve necessariamente esistere) si offrirebbe dunque alla fine la prospettiva senza dubbio rassicurante di poter considerare lo strano essere del non ente in tutta la sua assurdità, se l’oggettivo che è non sembrasse esigere in ogni caso un oggetto che è (perché è questa la questione “l’oggettivo che è esige in ogni caso un oggetto che è”, che è qualche cosa, non sta dicendo che è nel senso che sia una realtà, ma che è perché si dà) per ora questa esigenza si basa solo sull’analogia con il comportamento della parte col tutto, l’oggettivo viene trattato come una sorta di complesso, l’oggetto che gli appartiene come una sorta di componente. Sotto alcuni aspetti ciò può essere conforme all’idea, per ora solo così imperfetta, che siano fatti della natura dell’oggettivo, nessuno mancherà di riconoscere che l’analogia era un primo espediente per levarsi dall’impaccio e che non si ha alcun diritto di prenderla sul serio, perciò invece di dedurre sulla base di una dubbia analogia dall’essere dell’oggettivo l’essere del suo oggetto (lui lo deduceva dal fatto di considerare “oggettivo” come il tutto e l’oggetto la sua parte) sarà meglio che siano i fatti di cui ci occupiamo a insegnarci che quella analogia non vale per oggettivi di non essere, cioè che l’essere di oggettivo non dipende in alcun modo dall’essere del suo oggetto (cioè l’oggettivo esiste anche senza il suo oggetto. Cosa molto complicata perché dice) è una posizione che parla per se stessa, se l’intera posizione tra essere e non essere è affare che concerne l’oggettivo e non l’oggetto, è allora in fondo ovvio che nell’oggetto di per sé non può porsi essenzialmente né essere né non essere (qui sta incominciando a dire che l’essere di fatto in un certo senso non c’è, non c’è l’oggetto in quanto tale. Questa cosa che venne ripresa negli anni ’80, molto marginalmente dal testo di Meinong, rispetto all’oggetto come punto vuoto. Quindi l’oggetto che in fondo di per sé non può porsi essenzialmente né come essere né come non essere) parimenti estranea a questa posizione è l’affermazione per la quale rispetto alla natura dell’oggetto è puramente casuale se esso è o non è, un oggetto assurdo come il quadrato rotondo porta in sé la garanzia del proprio non essere in ogni senso, come un oggetto ideale per esempio la “diversità” (quindi si porta appresso che cosa? la propria non esistenza. Il quadrato rotondo che si porta appresso? La sua non esistenza) l’oggetto in quanto tale si potrebbe dire forse il puro oggetto (introduce un nuovo concetto il “puro oggetto”) sta al di là dell’essere e del non essere, in maniera meno stimolante e meno pretenziosa ma a mio avviso più propria, la stessa cosa si potrebbe esprimere all’incirca così “l’oggetto è per natura fuori essente” sebbene in ogni caso dei suoi due oggettivi d’essere, il suo essere e il suo non essere, ne consista necessariamente uno, pertanto ciò che si potrebbe chiamare il principio del “fuori essere” (ausersein) dell’oggetto puro, liquida definitivamente l’apparenza di paradosso che è stato immediato motivo per la formulazione di questo principio, che per così dire non ci voglia nulla di più per cogliere in un oggetto il suo non essere che per cogliere l’essere, diviene chiaro quando si comprende che a prescindere da una particolarità sia l’essere che il non essere sono parimenti esteriori all’oggetto. Un benvenuto complemento a quanto detto rappresentato dal sopracitato principio dell’indipendenza dell’“esser così” dall’Essere (ricordate prima? L’esser così, l’essere fatto a questa maniera è indipendente dall’Essere.) esso ci dice che quanto non è in nessun modo esterno all’oggetto e costituisce invece la sua essenza consiste nel suo “esser così” che aderisce all’oggetto indipendentemente dal fatto che questa sia o meno. Solo ora siamo in grado di comprendere a sufficienza quanto sopra avevamo riconosciuto come pregiudizio a favore dell’esistenza o almeno dell’essere di ogni possibile oggetto di conoscenza, l’essere non è appunto la sola condizione per la quale il conoscere troverebbe un punto di appoggio ma esso stesso è già un simile punto di appoggio, uno altrettanto buono è però allora anche il non essere, inoltre il conoscere trova già nell’ “esser così” di ogni oggetto un campo di attivazione per accedere al quale non è affatto necessario rispondere preliminarmente alla domanda relativa all’essere e al non essere né è necessario che vi si risponda in maniera positiva (questo potrebbe essere di qualche interesse, anche se sembra che si stia un po’ arrampicando sui vetri parlando di qualcosa di “fuori essente”, cioè l’oggetto fuori dall’essere, se è fuori dall’essere allora non è, ma anche non essendo è pur sempre qualcosa. Tutto questo a lui serve soltanto per dire che non è necessario alla “conoscenza” che il conoscere “l’esser così” di qualche cosa sia affiancato dal suo Essere. Che l’essere puro a questo punto, essendo un fuori essere, è fuori dall’essere quanto dal non essere. Dove conduca tutto questo lo vedremo mercoledì prossimo.