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1 settembre 2021

 

Metafisica di Aristotele.

 

Qui Aristotele fa un lavoro interessante. Fa un elenco di aporie, cioè, di difficoltà che si incentrano soprattutto su tre aspetti. Il primo riguarda le quattro cause, per vedere se le cause sono proprio quattro o sono di più o cosa ci autorizza a parlare di queste cause. Un altro riguarda la sostanza, per vedere se la sostanza è una oppure ci sono molte sostanze, ma se sono molte allora la sostanza non è più un universale; inoltre, se questa sostanza è un universale, vedere se riguarda anche il particolare oppure no. Il terzo aspetto riguarda i principi, e cioè se esiste un principio primo e se questo può attribuirsi a tutte le cose oppure ci sono più principi o una gerarchia di principi. Questi sono i problemi che si era posto Aristotele. La cosa interessante è il fatto che si sia posto questi problemi, come dire che di ciascuna cosa ci si interroga sul suo concetti. Nulla è dato per scontato, ogni cosa è interrogata: è questa la cosa interessante che fa Aristotele; poi, come la articola, come la risolve, questa è un’altra questione. Nel Libro Β che contiene le quindici aporie a noi interesseranno la seconda, l’ottava e l’undicesima, per i motivi che adesso vedremo. Dunque, questo è il Libro B, terzo Libro dopo il Libro Αe il Libro α. È necessario, in relazione alla scienza di cui siamo in cerca, che noi esaminiamo i problemi, dei quali bisogna innanzitutto cogliere le difficoltà. Si tratta di quei problemi intorno ai quali alcuni filosofi hanno fornito soluzioni contrastanti e, oltre a questi, di altri problemi che sono stati finora trascurati. Ora, per chi vuole risolvere bene un problema è utile cogliere adeguatamente le difficoltà che esso comporta: la buona soluzione finale, infatti, è lo scioglimento delle difficoltà precedentemente accertate. Non è possibile che sciolga un nodo colui che lo ignora… Parte, quindi, con le elenco di tutte le aporie. Ma, come vi ho detto, a noi interessano la seconda, l’ottava e l’undicesima. Leggiamo, quindi, la seconda aporia. Capitolo secondo, 996b 30. C’è, poi, anche questa questione: se spetti ad una sola scienza ovvero a più scienze lo studio dei principi della dimostrazione. Della dimostrazione se ne occuperà nel Libro successivo che è dedicato al principio di non contraddizione. Chiamo principi della dimostrazione quelle convinzioni comuni da cui tutti partono per dimostrare: per esempio, che ogni cosa deve essere o affermata o negata e che è impossibile essere e non essere ad un tempo, e le altre premesse di questo tipo. Il problema è dunque di sapere se una sola sia la scienza che tratta di questi principi e della sostanza, ovvero se siano due diverse; e, posto che non sia una sola, con quale si debba identificare quella che stiamo ora ricercando. Ora, che sia una sola, non sembrerebbe cosa ragionevole. Infatti, perché mai dovrebbe essere compito precipuo della geometria, poniamo, piuttosto che di qualsiasi altra scienza, trattare di questi principi? Se, dunque, spetta ad egual titolo a qualsiasi scienza, e se d’altra parte non è possibile che spetti a tutte quante la conoscenza dei principi, come non risulta compito specifico di nessuna delle altre scienze, così non risulta neppure compito specifico della scienza che conosce le sostanze /…/ Per contro, se la scienza della sostanza è diversa da quella degli assiomi… Nel caso della dimostrazione la ricerca è quella degli assiomi, cioè, dei principi primi, dell’universale …quale delle due sarà superiore ed anteriore? Gli assiomi, infatti, sono quanto di più universale esista; e se non è compito del filosofo, di chi altri mai potrà essere compito indagare la verità e la falsità di essi? Tutte queste aporie hanno una soluzione, di cui Aristotele parla nei libri successivi, ed è l’entelechia, l’entelechia e il sinolo, che poi sono le due facce della stessa cosa: potenza e atto, materia e forma. La soluzione, quindi, va sempre lì, con la sua nozione di entelechia risolve ogni problema, cioè ricompone. Lui affianca la tesi all’antitesi, ponendole il più lontano possibile in modo da farle vedere come opposte, ma in realtà non lo sono, sono soltanto – ma per questo ci vorrà Hegel – due momenti dello stesso. Passiamo all’ottava aporia. 999a 25. C’è, poi, una questione affine a queste, che è la più difficile di tutte e il cui esame è il più necessario: di questa dobbiamo ora parlare. Se, infatti, non esiste nulla al di fuori delle singole cose come individue, e se le singole cose individue sono infinite, come è possibile acquistare scienza di questa molteplicità infinita? In effetti, noi conosciamo tutte le cose solo in quanto esiste qualcosa che è uno, identico e universale. Sarebbe come dire che conosciamo il concreto soltanto attraverso l’astratto o conosciamo l’infinito soltanto attraverso il finito. Ma se questo è necessario, e se deve esserci qualcosa oltre le singole cose individue, allora sarà necessario che esistano i generi accanto alle cose individue… I generi, cioè, l’universale. Ma si è poco fa dimostrato che questo è impossibile. Inoltre, ammesso che veramente esista qualcosa oltre il sinolo (e si ha il sinolo quando la materia viene determinata da una forma), allora, se questo qualcosa veramente esiste, deve esistere per tutte le cose? Oppure solamente per alcune e non per altre? Oppure per nessuna? 999b, 10. Inoltre, poiché c’è generazione e movimento, è necessario che ci sia anche un limite; infatti, nessun movimento è infinito, ma tutti i movimenti hanno un termine; ne è possibile che divenga ciò che non è possibile che sia divenuto, perché è necessario che ciò che è divenuto esista fin dal primo momento in cui è divenuto. Inoltre, se la materia è eterna, per la ragione che essa è ingenerata, a maggior ragione è logico ammettere che lo sia la forma… Qui chiaramente c’è un riferimento a Platone. … la quale è il termine cui la materia tende nel suo divenire. Se, infatti, non esistesse né questa né quella, nulla affatto esisterebbe; e se questo è impossibile, allora è necessario che esista qualcosa oltre il sinolo, appunto la forma e l’essenza. Qualcosa che esista oltre il sinolo, cioè, l’unione di materia e forma. Dice che la forma è l’essenza, aggiunge l’essenza. Solo che qui la cosa non è così semplice, e anche Aristotele non è molto chiaro, perché la forma è già praticamente sinolo, per cui se c’è materia c’è anche forma. 999b 20. …come è possibile che la sostanza (ossia la forma) sia una sola per tutte le cose? Per esempio, come è possibile che una sola sia la forma di tutti gli uomini? Questo è assurdo. Tutte le cose di cui unica è la forma costituiscono una unità. Le forme saranno, allora, molte e differenti? Ma anche questo è assurdo. La forma è una, non può essere molte. Anche questa aporia verrà risolta dalla entelechia. Da ultima l’undicesima. 1001a 5. Ma il problema che è più difficile da esaminare e, tuttavia, che più di tutti è necessario risolvere per conoscere la verità, è il seguente: se l’Essere e l’Uno siano sostanze delle cose e se ciascuno di essi non sia, rispettivamente nient’altro che Essere e Uno, oppure se si debba considerare l’essenza dell’Essere e dell’Uno come tale da richiedere un’altra realtà come loro sostrato. Cioè: se esistono per sé o se esistono per altro. Alcuni, infatti, intendono la natura dell’Essere e dell’Uno nel primo modo, altri, invece, nel secondo. Platone e i Pitagorici, infatti, affermano che l’Essere e l’Uno non sono nient’altro che Essere ed Uno e che è appunto questa la loro natura (non dipendono da altro), ritenendo che la loro sostanza sia l’essenza stessa dell’Uno e dell’Essere. Invece i Naturalisti la pensano diversamente: Empedocle, per esempio, spiega che cos’è l’Uno riducendolo a qualcosa di più noto; infatti, sembra che egli dica che l’Uno è l’amicizia: in effetti, l’amicizia è causa di unità per tutte le cose. Altri dicono, invece, che l’Essere e l’Uno sono il fuoco, mentre altri ancora l’aria, e dicono che da questi elementi le cose sono costituite e si sono prodotte. 1001a 30. D’altra parte, se esiste qualcosa che è l’Essere-in-sé e Uno-in-sé, sarà molto difficile comprendere come possa esistere qualcos’altro oltre i medesimi, cioè come gli esseri possano essere più di uno. Infatti, ciò che è altro dall’essere non è: di conseguenza, si verrà necessariamente a cadere nella dottrina di Parmenide, per cui tutti quanti gli esseri costituiscono una unità e questa è l’essere. Ma e l’una e l’altra posizione presentano difficoltà. Infatti, sia che l’Uno non sia sostanza, sia che l’Uno sia sostanza in sé e per sé, è impossibile che il numero sia sostanza. L’ipotesi che l’Uno non sia sostanza, s’è già detto per quale ragione è impossibile; se, invece, è sostanza, sorgerà la stessa difficoltà che si è già veduta a proposito dell’Essere. Come si potrà mai avere, al di fuori dell’Uno in sé, qualche altra cosa che sia Uno? Perché l’Uno è uno e, quindi, esclude la molteplicità; quindi, se c’è l’Uno in sé e tutto è Uno, non possono esserci altre cose. Qui Eraclito era più fine, perché ha detto che “Tutto è uno e uno è tutto”, c’è una simultaneità. Infatti, quest’altra cosa dovrebbe essere non-uno; ma tutti gli esseri o sono uno o sono molti e ciascuno di questi è uno. Inoltre, se l’Uno in sé è indivisibile, in base alla dottrina di Zenone, non è nulla. (Infatti, ciò che una volta aggiunto o tolto, non rende una cosa, rispettivamente, né maggiore né minore, egli dice che non è un essere, convinto, evidentemente, che l’essere sia una grandezza. E, se è una grandezza, è corporeo: il corporeo, infatti, esiste in tutte le dimensioni. Gli altri oggetti matematici, invece, aggiunti in un certo modo, rendono maggiore la cosa cui sono aggiunti; invece, aggiunti in un cert’altro modo, no: così la superficie e la linea; invece, il punto e l’unità non rendono maggiore la cosa cui sono aggiunti in alcun modo /…/ non è chiaro come dall’Uno e da questa disuguaglianza, o come da un certo numero e da questa medesima disuguaglianza, si possano generare le grandezze. Qui c’è una questione che riguarda Zenone. Reale in una sua nota dice a questo proposito Nuova obiezione contro l’esistenza dell’Uno in sé. Aristotele adduce qui un’argomentazione che Zenone di Elea utilizzava contro la molteplicità, ma che vale anche contro l’Uno in sé. Zenone non parla qui dell’Essere unico ma, partendo dall’ipotesi della molteplicità, dice come dovrebbe essere pensata ciascuna delle molteplici cose. Ma in quanto egli dimostra qui che ogni cosa, per essere una, dovrebbe anche essere indivisibile, la sua affermazione troverebbe applicazione anche per l’Essere unico; anche questo deve, per essere Uno, essere indivisibile. Venendo al nostro preciso contesto, ecco il ragionamento zenoniano: un Uno indivisibile è nulla, prova ne è il fatto che sia che lo si aggiunga sia che lo si tolga non fa rispettivamente accrescere né diminuire la cosa cui lo si aggiunge o cui lo si toglie. Il ragionamento zenoniano, dice Aristotele, implica evidentemente che il vero Essere sia la grandezza corporea tridimensionale, perché solo questa fa accrescere in tutti i sensi ciò cui è aggiunta e fa diminuire ciò da cui è tolta, laddove la superficie fa aumentare o diminuire solo in estensione la linea solo in lunghezza, mentre il punto non fa aumentare né diminuire nulla. Il fatto è che Zenone aveva in mente i corpi, le cose, mentre qui l’obiezione che fa Aristotele a Zenone riguarda l’idea che ciò cui si stesse riferendo Zenone fosse un astratto, mentre per Zenone era un concreto. Reale cita il frammento 21 di Zenone, che poi sono frammenti, testimonianze di altri, non esiste il testo di Zenone. Inoltre, se l’Uno in sé è indivisibile, stando alla dottrina di Zenone, non sarebbe nulla. Qui cita Aristotele. Infatti, Zenone afferma che non è un essere, come se fosse fuori discussione che è essere solo ciò che ha grandezza. Questa era la posizione di Zenone: una cosa è perché ha una grandezza, cioè, è misurabile. Ora, se un essere ha una grandezza è corporeo; infatti, ciò che ha grandezza esiste in tutte e tre le dimensioni. In verità, altre cose quando sono aggiunte in un certo senso fanno maggiore la cosa a cui sono aggiunte, in un altro senso no. La difficoltà che Zenone solleva a quanto pare sta nel fatto che ciascuna delle cose sensibili è detta molteplice per i moti suoi predicati e perché è possibile dividerla, mentre il punto egli non ammetteva neanche che fosse un’unità /…/ Qui Zenone, come dice Eudemo, nega anche l’Uno; egli infatti chiama il punto Uno e ammette però l’esistenza del molteplice. Alessandro ritiene invece che Eudemo citasse qui Zenone come annientatore del molteplice. Come, infatti, racconta Eudemo egli dice: Zenone, scolaro di Parmenide, cercava di dimostrare che non è possibile che esistano molteplici esseri, per la ragione che fra gli esseri non esiste in realtà l’Uno, e la molteplicità altro non è che un certo numero di unità. Che cosa possiamo trarre da tutto ciò? Che ciascuno utilizza le testimonianze o i frammenti di cui ha disposizione nel modo che ritiene più opportuno. Da ciò che si trae dalle testimonianze intorno a Platone, Zenone in effetti può dirsi qualunque cosa. Ciò che rimane di Zenone è ciò che è stato tramandato, e la cosa più importante è quella di cui abbiamo parlato, e cioè del fatto che la divisibilità infinita di qualcosa rende impossibile il movimento. Noi lo abbiamo inteso in questo modo: la infinita produzione di significati rende impossibile la conoscenza. Ora, il fatto che la conoscenza sia impossibile significa soltanto che non si raggiunge l’ultimo termine, l’ultimo significato, ché si può procedere all’infinito. Ciò che qui importa di più è il fatto che Zenone aveva colto che, quindi, come stabilisco la verità? Come stabilisco qualcosa? Come fermo qualcosa? Questo era, invece, il problema di Aristotele. Come dire che, stando a Zenone, non c’era la possibilità di reperire un fine ultimo, un bene. Perché se io voglio parlare del bene e porlo come fine occorre che questo bene sia determinato, cioè, coincida con la verità, verità che deve essere qualcosa di fermo, di stabile, di solido. Ora, Aristotele, quando parla del principio di non contraddizione nel Libro Γ, si trova in una posizione singolare. 1003a 20. C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari... Questa scienza è il sillogismo. 1003a 32. L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. Se voglio parlare dell’essere devo determinarlo, ma per determinarlo devo sapere che cosa è e che cosa non è. Qual è quella scienza che mi dice che cosa una cosa è oppure non è? Naturalmente, questa scienza è per lui la filosofia, poi è diventata la logica. Il principio primo, quello che diceva nella seconda aporia, e che tutti utilizzano necessariamente per dimostrare qualcosa, è, per Aristotele, il principio di non contraddizione. 1003b 25. Ora, l’essere e l’uno sono una medesima cosa ed una realtà unica, in quanto si implicano reciprocamente l’un l’altro (così come si implicano, reciprocamente, principio e causa), anche se non sono esprimibili con una unica nozione. (Ma non cambierebbe nulla anche se noi li considerassimo identici altresì nella nozione: ché, anzi, risulterebbe di vantaggio). Quindi, Essere e Uno sono la stessa cosa, anche se questo Uno che è si dice in tanti modi, ha tante predicazioni. Giunge a considerare che tutti i pensatori che lo hanno preceduto si sono accorti che di ciascuna cosa c’è un contrario, ponendo i contrari come la base di tutto. 1003b 35. Il conoscere che cosa siano queste specie appartiene a una scienza che è la stessa quanto al genere; per esempio, appartiene alla stessa scienza lo studio dell’identico, del simile e delle altre specie di questo tipo, così come dei loro contrari. E quasi tutti i contrari si riducono a questo principio: di ciò abbiamo detto nello scritto intitolato La divisione dei contrari /…/ E poiché ad una scienza unica compete lo studio dei contrari, e poiché all’uno si oppone il molteplice, e, ancora, poiché ad una scienza unica compete lo studio della negazione e della privazione /…/ ne viene di conseguenza che anche i contrari delle nozioni su menzionate – come: il diverso, il dissimile e l’ineguale, e tutti gli altri che derivano da queste, oppure dal molteplice e dall’uno – rientrano nell’ambito di indagine della scienza di cui abbiamo detto. 1004b 20. i Dialettici ed i Sofisti esteriormente hanno il medesimo aspetto del filosofo (infatti, la sofistica è una sapienza solo apparente, ed i Dialettici discutono di tutte le cose, e a tutte le cose è comune l’essere), e discutono di queste nozioni, evidentemente, perché sono effettivamente oggetto proprio della filosofia. La dialettica e la sofistica si rivolgono a quel medesimo genere di oggetti a cui si rivolge la filosofia; ma la filosofia differisce dalla prima per il modo di speculare e dalla seconda per l’intento per cui specula. La dialettica si muove a tastoni su quelle cose che, invece, la filosofia conosce veramente; la sofistica è conoscenza in apparenza, ma non in realtà. Questa è la critica che fa Aristotele ai sofisti. 1004b 30. quasi tutti i filosofi sono d’accordo nel ritenere che gli esseri e la sostanza siano costituiti da contrari: infatti tutti pongono come principi i contrari. Alcuni pongono come principi dispari e pari, altri caldo e freddo, altri ancora limite e illimite, altri, infine, amicizia e discordia. Anche da questo, dunque, risulta evidente che è compito di un’unica scienza lo studio dell’essere in quanto essere. Infatti, tutte le cose sono o contrarie o derivanti da contrari, e dei contrari sono principio l’uno e i molti. Ora questi appartengono a un’unica scienza, sia che si predichino in senso univoco, sia che non si predichino in senso univoco… 1005a 20. Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare quelli che in matematica sono detti “assiomi” e anche la sostanza. Qui sta rispondendo alla seconda aporia. Orbene, è evidente che l’indagine di questi “assiomi” rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del filosofo. Infatti, essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere. Ogni universale, ogni essere è qualcosa. Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in cui si estende il genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Dunque, lo studio dell’essere sarà lo studio di questi assiomi. 1005b 5. È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno al principi dei sillogismi. Colui, che in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Infatti, dice βεβαιοτάτας άρχάς, i principi più saldi, più sicuri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. È il principio di non contraddizione. Ora, vediamo perché. Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto… questa è la definizione più classica del principio di non contraddizione. È questo il più sicuro di tutti i principi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. Ma Eraclito non ha detto questo. Eraclito non è un negatore del principio di non contraddizione, così come non lo era neanche Hegel. E se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista:… Qui ha detto una cosa importante, perché ha parlato di opinione. …infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi. Come dimostrare il principio di non contraddizione? È dimostrabile? Questo è il punto. Come posso costruire una dimostrazione del principio di non contraddizione se per costruire qualunque tipo di proposizione mi occorre il principio di non contraddizione? Dunque, per Aristotele non è dimostrabile, ma si può dimostrare in un certo senso, per via di confutazione, e cioè confutando chi lo nega. 1005b 35. Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. Ragionano in tale modo anche molti dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi. Adesso arriviamo alla questione. Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione. Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via di confutazione: a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Qui, a questo punto, Aristotele, il quale evidentemente non se ne è accorto, ha centrato la questione e avrebbe potuto, avendo anche gli strumenti teorici, cogliere la questione del linguaggio così come la stiamo ponendo. Dice a patto, però, che l’avversario dica qualcosa, cioè, il principio di non contradizione – ve la dico così, poi la spiego meglio – non è altro che il modo in cui il linguaggio funziona. Perché? Aristotele qui coglie la questione: è nel dire che c’è il principio di non contraddizione, nel senso che se dico, dico necessariamente qualcosa. Questo non lo posso negare. Posso dimostrare che se dico, dico necessariamente qualcosa? La necessità qui è che ci sia la parola, solo se c’è parola c’è principio di non contraddizione, perché il principio di non contraddizione è ciò che rende possibile – adesso diciamola così – parlare. Questo perché il principio di non contraddizione dice che ciò che è posto è posto. I tre principi aristotelici: quello di identità, A è A; il principio di non contraddizione, non (A e non-A); il principio del terzo escluso, A oppure non-A. Però si può anche intendere in modo più interessante, e cioè in questo modo, che dicendo dico necessariamente qualcosa, e questo non lo posso negare. Perché non lo posso negare? Perché sarebbe come negare che sto parlando, e cioè faccio un qualche cosa e, mentre lo faccio, nego di farlo. Questa operazione naturalmente non è consentita dal linguaggio perché se, per assurdo, fosse consentita il linguaggio si arresterebbe: se parlando non parlo, allora non sto facendo alcunché. L’unico motivo per cui questa cosa non è dimostrabile è che riguarda il modo in cui il linguaggio funziona, e non posso dimostrare il perché il linguaggio funziona nel modo in cui funziona. Posso soltanto rilevare come funziona, posso accorgermi di come funziona, ma cercare una dimostrazione di ciò che è la condizione di ogni dimostrazione è problematico. Ed è proprio questo che ravvisa qui Aristotele quando dice a patto, però, che l’avversario dica qualcosa, perché se dice allora dice qualcosa, e parlando dice qualcosa. E questo non lo si può negare in nessun modo. Aristotele non coglie naturalmente la questione. 1006a 15. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione ver e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio… Se voglio imporre qualche cosa, l’altro mi chiede di dimostrarlo, ma se voglio dimostrare vado avanti all’infinito. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che qualcosa è o non è /…/ ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri. Certo, che dica qualcosa che abbia un significato, ma ci sta anche dicendo allo stesso tempo, che dica qualcosa che rinvii ad un’altra. Questo rinviare di ciò che dico a qualche cos’altro è ciò che fa esistere il mio dire. È per questo che non li posso separare in nessun modo ed è per questo che non lo posso negare, non posso negare che ciò che dico è quello che è in quanto rinvia ad altro, perché se tolgo questo altro a cui rinvia tolgo anche il primo. …e se questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere né con sé medesimo né con altri; se, invece, l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione. In primo luogo è evidente che questo almeno è vero: che i termini “essere” e “non-essere” hanno un significato determinato, di conseguenza non ogni cosa può essere in questo modo e, insieme, non in questo modo. Qui c’è un altro bivio che si apre e che Aristotele segue in una sola direzione. Aristotele si è trovato, come dicevamo prima, nella possibilità di intendere come funziona il linguaggio, cioè il linguaggio si pone e ponendosi non può affermare di non essersi posto: questo non lo può fare (principio di non contraddizione). Ma, a questo punto, il principio di non contraddizione può essere inteso o come qualcosa di strutturale all’atto di parola, qualcosa che non può togliersi in nessun modo perché è il funzionamento stesso del linguaggio, oppure porre il principio di non contraddizione come principio morale, come è stato fatto in seguito. È per questo che prima sottolineavo l’opinione, l’opinione contraria, e cioè “non devi contraddirti, se ti contraddici è male”. Quindi, questo è il bivio in cui si è trovato Aristotele, cioè, o porre il principio di non contraddizione come ciò che è necessario, come ciò che fa funzionare il linguaggio, perché affermandosi non può dire di non affermarsi, se dico qualcosa non posso non dire qualcosa; oppure, il principio di non contraddizione come principio morale. Ma a questo punto la contraddizione riguarda l’opinione, la δόξᾰ, cioè, c’è un’opinione giusta e una sbagliata, c’è qualcosa che devi credere e qualcosa che non devi credere: questo è il principio morale. Posta invece nei termini del funzionamento del linguaggio non c’è nessuna morale, semplicemente dice che se dico, dico necessariamente qualcosa, non c’è nessuna morale, non c’è niente. Diceva alla fine i termini “essere” e “non-essere” hanno un significato determinato, di conseguenza non ogni cosa può essere in questo modo e, insieme, non in questo modo, cioè, deve essere in qualche modo. Il principio di non contradizione, posto come principio morale, dice che le cose devono essere in un certo modo, ma questo “devono” è da intendere perché lo si può intendere che o devono essere in un certo modo nel senso che per dirle devo determinarle, oppure devono essere in un certo modo in quanto devono riferirsi al τέλος, al bene, al fine ultimo, il che è molto diverso. Questo è stato determinante in tutta la storia del pensiero. Aristotele si è trovato di fronte all’eventualità di seguire i presocratici. In fondo, il dire che il principio di non contraddizione significa soltanto che se dico, dico qualcosa, non significa affatto che non possa dire qualunque cosa e il suo contrario, che, anzi, una certa cosa sia anche il suo contrario, come voleva Eraclito; il principio di non contradizione non riguarda il ciò che si dice, ma il dire, il che è diverso; non riguarda il senso, il contenuto di ciò che si dice, perché questa è l’opinione. Potremmo anche dire, che qualunque argomentazione è eristica, perché non può curarsi della verità, non la troverà. Se volete sapere che cos’è l’eristica dovete leggere l’Eutidemo di Platone. L’eristica era l’arte dell’agone dialettico fine a se stesso, dove non si badava alla verità degli enunciati. Ma non si può badare alla verità degli enunciati, perché qual è la verità dell’enunciato? Pertanto, qualunque argomentazione è eristica.

Intervento: il principio di non contraddizione in senso morale è l’espressione della volontà di potenza.

Serve a dire che in uno scambio di opinioni c’è un’opinione giusta e una sbagliata. Tant’è che negli agoni dialettici che si sono sempre fatti, come nel Medioevo, i gesuiti lo usavano come strumento di formazione, il far cadere l’avversario in contraddizione significava avere vinta la partita: se ti contraddici hai perso. Perché mai? Uno può contraddirsi, non è un crimine. Lo diventa nel momento in cui il principio di contraddizione, diventato un principio morale, indica nel contraddirsi il male. Se non ci si contraddice allora si giunge alla verità, cioè al bene. È questo il criterio fondamentale. Da qui tutta la ricerca della verità come ciò che rende l’essere delle cose. Non è così neanche in Aristotele, propriamente, ma è ciò che è stato inteso dopo che l’ha posta in questi termini. Vedete che qui la cosa si fa molto interessante perché abbiamo sott’occhio il momento in cui qualche cosa, che per Aristotele era giustamente fondamentale, e cioè gli assiomi, i principi primi. Questi sono quelli da cui si parte, senza i quali non è possibile costruire nessuna proposizione, nessuna argomentazione, niente, perché se affermo qualcosa e mentre l’affermo dico che non l’affermo, allora non c’è nulla su cui possa procedere, il linguaggio non può proseguire: è per questo che non è possibile, ed è questo il principio di non contraddizione posto come all’inizio Aristotele sembrava averlo posto: l’importante è che dica, se dice, non importa cosa, dice qualcosa, e questo qualcosa c’è, non può negarlo. Però, questo non giova alla volontà di potenza; la volontà di potenza ha bisogno che, attraverso quella che dopo si chiamerà logica, possa concludere con la verità. Soltanto se c’è una verità allora posso imporla ad altri – se non è la verità, che cosa impongo? – e questa verità è ciò che non si contraddice. Ma fino ancora a Kant ciò che è vero è ciò che non è autocontraddittorio. Quindi, vero è ciò che non si contraddice. Naturalmente, ci sono delle obiezioni, perché questo vero occorrerebbe dimostrarlo e anche dimostrare che ciò che io credo essere la verità sia proprio quella. Cosa che posso fare in un certo senso a condizione di porre il principio di non contraddizione come qualcosa di strutturale al linguaggio; allora, sì, certo, se dico qualcosa, se pongo qualcosa, l’ho posta, non l’ho non posta, ciò che è posto è posto, ciò che ho detto l’ho detto, mentre dico, dico necessariamente qualcosa. Negare questo comporta l’arresto del linguaggio. Il linguaggio per procedere ha bisogno che ciascuna cosa che si ponga si ponga come un qualche cosa che è posta, solo così può proseguire, cioè, può porre altre cose.

Intervento: Proslogion di Anselmo, logica medioevale…

Nel Medioevo la logica ha avuto un grandissimo impulso. Dovevano stabilire le regole per giungere alla verità, cioè, per giungere a Dio, che Dio è, e per questo occorre un percorso, che muove da Anselmo, è lui che ha dato l’impronta da cui muoversi: se dimostro l’esistenza di Dio logicamente allora, se la dimostrazione è vera, Dio esiste, perché la conclusione è vera e, quindi, Dio c’è, esiste. Adesso qui Aristotele fa una serie di ragionamenti abbastanza irrilevanti per quanto riguarda il principio di non contraddizione, cioè, tutte le possibili confutazioni a chi lo nega, ma si riducono tutte a questa: se neghi il principio di non contraddizione non puoi parlare. Solo che non sa perché non può parlare. Aristotele dice che si dice una cosa ma anche il contrario, e allora? Non è questo che impedisce di parlare, ma è il principio di non contraddizione come elemento strutturale al funzionamento del linguaggio. È questo che impedisce di proseguire: il porre qualcosa dicendo che non lo si pone. Se non lo pongo non c’è parola e, quindi, non c’è niente, non c’è neanche la possibilità né di affermare né di confutare; difatti, se non dico nulla, chi può confutarmi? Volevo però vedere un’altra cosa. Tutto si impronta alla necessità per Aristotele di stabilire l’essere in quanto essere. Sì, va bene, certo, l’essere è l’uno, ma torniamo a Eraclito “L’uno è tutto, l’essere è tutto”, perché l’essere si dice di qualunque cosa che è, ma essere è l’uno. Ecco, allora: uno è tutto, tutto è uno. Diceva Eraclito: έν πάντα εναι, tutto è uno. Con questo aveva ben inteso la questione, anche se ancora non entrava propriamente il linguaggio. Aristotele lo ha fatto entrare a pieni titoli, solo che lo abbandona immediatamente volgendosi verso la δόξᾰ, verso le opinioni, per cui fa dei sillogismi, della retorica poi, uno scontro di opinioni, una gara. E, infatti, è poi diventata quella, ed è per questo che ha avuto tanto successo presso i Romani. Pensate a Cicerone: lui doveva vincere le cause, doveva abbattere l’avversario. Ma come lo si abbatte? Ponendolo in contraddizione, perché la contraddizione è diventata il male. Ciò a cui si tende è la verità, la verità è il bene, e la verità è una, perché se sono molte non è la verità ma sono solo opinioni. Se la verità invece è una allora è quella a cui bisogna tendere perché quello è il bene; se non si tende a questo, allora si è nel male. La parte di cui ci occuperemo mercoledì prossimo è molto interessante, perché Aristotele cerca di confutare Protagora di Abdera, il quale, secondo Aristotele, avrebbe negato il principio di non contraddizione. Non è sicurissimo che sia così, però ad Aristotele faceva comodo pensare così. Il capitolo è il quinto: Confutazione dl relativismo protagoreo in quanto negatore del principio di non contraddizione. Vedremo anche nelle testimonianze se è proprio vero, perché per volere negare il principio di non contraddizione occorre partire dal fatto che non si dà la verità, che ciascuna cosa rinvia ad un’altra all’infinito, e che, quindi, non c’è contraddizione. Ma mi riesce difficile pensare che Protagora non si accorgesse che dicendo queste cose utilizzava degli assiomi, e cioè che quello che stava dicendo, e cioè che non c’è contraddizione, non fosse il suo contrario: se affermo che non c’è contraddizione allora non posso affermare che non c’è contraddizione, inesorabilmente. Ma vedremo come si destreggia Aristotele con Protagora di Abdera, sofista.