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1 luglio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 669. La logica mostra l’innalzamento dell’Idea fino al grado da cui diventa la creatrice della natura e passa alla forma di una immediatezza concreta, il cui concetto però rompe daccapo anche questa forma per divenire a se stesso quale spirito concreto. A fronte di queste scienze concrete, che però hanno e conservano il logico ossia il concetto per formatore interno come l’avevano per preformatore, la logica stessa è ad ogni modo la scienza formale, ma scienza della forma assoluta, la quale è in sé totalità e contiene la pura idea della verità stessa. Questa è l’idea che si ha della logica: un impianto formale dal quale dovrebbe emergere la verità. Questa forma assoluta ha in ei stessa il suo contenuto o realtà. Il concetto, in quanto non è la volgare, vuota identità, ha nel momento della sua negatività, ovvero dell’assoluto determinare, le diverse determinazioni. Il contenuto non è in generale altro che coteste determinazioni della forma assoluta, - il contenuto posto da questa forma stessa e quindi anche commisurato a lei. Questa forma è pertanto anche di una natura interamente diversa da come usualmente si piglia la forma logica. Essa è già per se stessa la verità… Mentre generalmente si considera che questa forma conduca alla verità. …in quanto questo contenuto è adeguato alla sua fora o questa realtà al suo concetto, ed è la verità pura, perché le determinazioni di quello non hanno ancora la forma di un assoluto esser altro ossia dell’assoluta immediatezza. Questa forma è la realtà ed è anche il suo concetto. La sua verità è il fatto di essere quella forma lì, non è la verità che la formalizzazione deve introdurre, è già lì. Kant, quando nella Critica della ragion pura viene a parlare, relativamente alla logica, dell’antica e famosa domanda: Che cosa sia la verità? spaccia per prima cosa come una volgarità quella definizione nominale che ne fa la coincidenza del conoscere col suo oggetto,… Sarebbe la adæquatio rei et intellectus, cioè l’adeguamento della parola alla cosa. Kant dice che non si tratta di questo. …definizione che è di un gran valore, anzi del massimo valore. Se ci si ricordi di essa a proposito dell’affermazione fondamentale dell’idealismo trascendentale, che la conoscenza razionale non sia capace di afferrare le cose in sé, che la realtà stia assolutamente fuori del concetto, si vede subito che cotesta ragione che non sa mettersi d’accordo col suo oggetto, colle cose in sé, e che le cose in sé che non si accordino col concetto razionale, il concetto che non coincide colla realtà e una realtà che non coincide col concetto, sono delle rappresentazioni prive di verità. Questa è la critica che fa a Kant: come puoi pensare che questa sia una verità se la cosa in sé non la posso conoscere, se non la posso raggiungere mai, e in che modo questa si connette con il concetto che posso averne? Rimangono due cose assolutamente separate e disgiunte. Se Kant avesse mantenuta in quella definizione ella verità l’idea di un intelletto intuitivo, questa idea, che esprime la richiesta coincidenza non l’avrebbe trattata come un parto della mente, ma anzi come verità. “Quello che si vorrebbe avere”, continua Kant, “sarebbe un criterio generale e sicuro della verità di ciascuna conoscenza; sarebbe un criterio tale, che fosse valevole per tutte le conoscenze prescindendo dalla differenza dei loro oggetti. Ma siccome in un criterio simile si astrae da ogni contenuto della conoscenza (relazione al suo oggetto), e siccome la verità riguarda appunto questo contenuto, così sarebbe affatto impossibile e assurdo di domandare un contrassegno della verità di questo contenuto delle conoscenze”. Lo stesso Kant si rende conto che c’è qualche problema a questo riguardo e che, se sgancio questa cosa in sé dal concetto che posso averne, allora l’idea di trovare la verità sfuma definitivamente. A pag. 671. La logica, essendo la scienza della forma assoluta, questo formale, per essere un vero, deve avere in lui stesso un contenuto che sia adeguato alla sua forma, e ciò tanto più in quanto il formale logico dev’essere la forma pura, epperò la verità logica la pura verità stessa. Questo formale dev’essere quindi pensato come molto più ricco, in sé, di determinazioni e contenuto, e così anche come di efficacia infinitamente maggiore sul concreto, di quel che comunemente s’intenda. Ci sta dicendo che il contenuto è infinitamente più ricco di quanto si immagini. Le leggi logiche per sé … vengon di solito limitate, oltreché al principio di contraddizione, ad alcune meschine proposizioni riguardanti la conversione dei giudizi e le forme dei sillogismi. La logica medioevale ruota intorno a questo. Le forme stesse che a questo proposito si affacciano, come anche le loro ulteriori determinazioni, non vengon considerate che quasi storicamente; non assoggettate alla critica per vedere se siano in sé e per sé un che di vero. Dice: sì, noi utilizziamo queste forme, p. es. dei sillogismi, ma chi ci dice che questa forma che utilizziamo ci conduca al vero? Se questa forma sia in sé e per sé una forma della verità, se la proposizione ch’essa enuncia, l’individuo è un universale, non sia in sé dialettica, a questa ricerca non si va a pensare. Non sia dialettica, cioè, non sia mediata, non venga da qualche cos’altro. A pag. 673. Il concetto fu considerato per l’addietro come unità dell’essere e dell’essenza. L’essenza è la prima negazione dell’essere… L’essere che si nega, torna su se stesso e diventa essenza. …che perciò è divenuto parvenza;… Parvenza nel senso che appare soltanto in seguito all’essenza, perché prima dell’essere non potevamo saperne niente. …il concetto è la seconda, ossia la negazione di cotesta negazione; è dunque l’essere ristabilito, ma come la sua infinita mediazione e negatività in se stesso. Come diceva nelle pagine precedenti, a questo punto l’essere è veramente essere; prima, dell’essere non potevamo dire nulla. Essere ed essenza non hanno quindi più nel concetto quella determinazione in cui sono come essere ed essenza, e nemmeno sono in una unità tale, che ciascuno non faccia che parere nell’altro. Sta dicendo una cosa importante, che poi riprenderà anche Peirce, e cioè che il concetto, che è la relazione tra essere ed essenza, nel momento in cui interviene, e non può non intervenire, l’essere e l’essenza non sono più l’essere e l’essenza ma sono gli elementi di una relazione. Esso è la verità del rapporto sostanziale… È sempre un rapporto ciò di cui si tratta. …in cui essere ed essenza raggiungono la loro piena indipendenza e determinazione uno per mezzo dell’altro. Come verità della sostanzialità si addimostrò l’identità sostanziale, che è parimenti e solo come l’esser posto. L’identità sostanziale ha a che fare con il porre qualche cosa. Perché parla di identità sostanziale? Perché nell’essere posto, quando pongo qualcosa, già c’è una mediazione, una mediazione con il suo altro che viene tolto. Ma, togliendo questo altro, che è la sua negazione, io determino il primo elemento, che prima era indeterminato. Pensate al famoso caso dell’essere: senza il non essere non è determinato. L’esser posto è l’esser determinato e il distinguere; l’essere in sé e per sé ha quindi raggiunto nel concetto un esser determinato a lui adeguato e vero, poiché quell’esser posto è appunto essere in sé e per sé. Solo in quanto posto, solo a questo punto si determina. È chiaro che non può essere non posto, però lui distingue tutti i vari momenti in modo che sia chiaro il funzionamento del tutto. Questo esser posto costituisce la differenza del concetto in lui stesso; le sue differenze, poiché esso è immediatamente l’essere in sé e per sé, sono appunto l’intiero concetto, universali nella loro determinatezza e identiche colla loro negazione. Questo intero si pone come universale ma è al tempo stesso, dice, identico con la sua negazione. A pag. 674. In primo luogo dunque il concetto è soltanto in sé la verità; essendo soltanto un interno, non è in pari tempo che un esterno. In quanto interno deve la sua esistenza a un esterno. Il concetto è in primo luogo in generale un immediato… Qualcosa che accade, che si pone. …e in questa configurazione i suoi momenti hanno la forma di determinazioni immediate, fisse. Ciò di cui è fatto il concetto, le sue determinazioni, appaiono come cose fisse, immobili. Esso appare come il concetto determinato, come la sfera del semplice intelletto. Vi ricordate: l’intelletto è il primo atto, al quale segue la ragione e poi il concetto. Siccome questa forma dell’immediatezza è un esserci non ancora adeguato alla sua natura, poiché esso è il libero che si riferisce soltanto a se stesso, è cotesta una forma estrinseca, nella quale il concetto no può valere in quanto in sé e per sé, ma vale come un semplicemente posto, ossia come un che di soggettivo. Sta facendo un percorso in cui ci illustra le varie fasi, per così dire. Inizialmente, c’è soltanto questo concetto immediato i cui elementi, di cui è fatto, appaiono come cose estrinseche, quasi si fossero attaccate al concetto. L’estrinsecità di questo apparisce nell’essere fisso delle sue determinazioni,.. Come sempre, la fissità ha a che fare con l’estrinseco; ciò che è fisso è qualcosa che si immagina venire da fuori. Se qualcosa è preso nella dialettica non è mai fisso, è sempre in movimento e in mutazione. …per cui ciascuna si affaccia per sé come un che di isolato, di qualitativo, che soltanto in una relazione esterna col suo altro. Ma non in una relazione dialettica. Ma l’identità del concetto, la quale è appunto l’essenza interna o soggettiva di quelle determinazioni, le mette i un movimento dialettico per cui si toglie il loro isolamento e con ciò la separazione del concetto dalla cosa e come loro verità sorge la totalità, che è il concetto oggettivo. Questi elementi, nel momento in cui entrano nella dialettica, e non possono non entrare nella dialettica perché sennò non ne sapremmo nulla, da quel momento non sono più isolati – non lo erano neanche prima, in realtà – ma fanno parte del concetto. A pag. 675. In secondo luogo: Il concetto nella sua oggettività è la cosa stessa che è in sé e per sé. Colla necessaria sua determinazione progressiva il concetto formale fa di se stesso la cosa e perde così il rapporto della soggettività e dell’esteriorità rispetto a quella. Dice: Colla necessaria sua determinazione progressiva: man a mano che si determinano tutti i vari elementi del concetto, ciascuno come si determina? Si determina togliendo la sua negazione, ma facendo questa operazione siamo in un processo dialettico. E dice ancora: il concetto formale fa di se stesso la cosa, cioè, si determina; e perde così il rapporto della soggettività e dell’esteriorità rispetto a quella: non è più un qualche cosa di esteriore, che viene da chissà dove, ma è qualcosa di interno al concetto. In questa identità colla cosa il concetto ha pertanto un esserci proprio e libero. Ma cotesta è però ancora una libertà immediata, non pertanto negativa. In quanto uno colla cosa, il concetto è immerso in lei. Le sue differenze sono esistenze oggettive, nelle quali esso stesso è daccapo l’interno. Queste differenze sono oggettive e in queste differenze il concetto è daccapo l’interno nel momento in cui esclude tutto ciò che appare essere esterno; lo esclude perché lo integra (Aufhebung). È qualcosa che appare essere esterno ma, come sappiamo, se davvero fosse esterno non ci sarebbe nessuna possibilità di accesso. Come anima dell’esserci oggettivo il concetto si deve dare quella forma della soggettività che immediatamente aveva come concetto formale. Così esso viene a contrapporsi all’oggettività in quella forma del libero, che nell’oggettività non aveva ancora, e con ciò fa di quella identità con lei, che con lei esso ha in sé e per sé qual concetto oggettivo, una identità ancora posta. Qui parla di oggettività e di soggettività. Quando Hegel parla di soggettività intende il soggetto come qualcosa che agisce, non parla di qualcuno ma dell’agire, di ciò che muove. Ci sta dicendo che questa soggettività, che viene a contrapporsi all’oggettività; sarebbe il ciò che muove l’oggetto, a fronte di ciò che viene mosso. A questo punto, però, dice esso viene a contrapporsi all’oggettività in quella forma del libero, che nell’oggettività non aveva ancora, e con ciò fa di quella identità con lei, che con lei esso ha in sé e per sé qual concetto oggettivo, una identità ancora posta. Qui avviene quel fenomeno, che nella Fenomenologia dello spirito aveva già posto, dell’integrazione di soggetto e oggetto; addirittura, dice che soggetto e oggetto sono lo stesso. Lo aveva già detto anche nelle pagine precedenti, quando parlava della causa e del causato: non c’è l’uno senza l’altro, non posso parlare di ciò che muove senza il mosso. Siamo a La soggettività, a pag. 677. Nell’accezione di Hegel la soggettività, potremmo dire, è il primum movens, ciò che muove l’agire; l’oggetto è ciò che viene mosso è un altro modo di riformulare la questione dell’in sé e del per sé: l’in sé sarebbe il soggetto che muove, che va verso il per sé, cioè l’oggetto; ma questo oggetto, cioè il per sé, ritorna sull’in sé e fa dell’in sé ciò che è effettivamente. Se l’in sé non tornasse, dopo essere stato “fissato” dal per sé, l’in sé in quanto tale sarebbe nulla. È quel punto d’inizio – per questo parlavo di primum movens – che però incomincia a sussistere e a esistere solo a posteriori: soltanto dopo esiste questo in sé, soltanto dopo posso coglierlo, dopo che questo in sé è diventato per sé ed è ritornato sull’in sé. Per fare l’esempio, che facciamo spesso, rispetto al significante e al significato: il significante senza il significato è niente, il significante deve integrarsi con il significato e solo a questo punto il significante significa qualcosa, cioè è significante, sennò significa niente. Un significante, isolato dal resto del mondo, non c’è. È questo che poi porterà de Saussure a dire che un significante non è altro che una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. In effetti, non è diverso da quello che dice Hegel. Il concetto è dapprima il concetto formale... Un’idea, una forma. …il concetto nel cominciamento, ossia il concetto che è come immediato. Quando Hegel parla di immediato sta dicendo che non è ancora mediato dal suo porsi e togliersi: è questo che costituisce la mediazione. Nell’unità immediata la sua differenza o il suo esser posto è dapprima anzitutto semplice esso stesso, e non è altro che una parvenza, cosicché i momenti della differenza sono immediatamente la totalità del concetto e soltanto il concetto come tale. Concetto come tale, vale a dire, un concetto che ancora non si è riflesso, un concetto, potremmo dire in modo un po’ rozzo, che non sa di essere concetto. Ma in secondo luogo il concetto, essendo l’assoluta negatività… Abbiamo visto che il concetto è fatto di essere ed essenza, cioè, di pura negatività: l’essere si nega e negandosi diventa non essere; questo non essere, cioè negatività, torna sull’essere volgendolo di nuovo in negatività, in non essere, in nulla; è per questo che diceva che l’essere è nulla. …si dirime e si pone come il negativo o come l’altro di se stesso… Cioè: fa di se stesso il suo altro. …e precisamente, essendo esso soltanto il concetto immediato, questo porre o distinguere ha la determinazione che i momenti diventano indifferenti fra loro e che ciascuno diventa per sé. Essendo il concetto immediato non c’è a dialettica e, quindi, i vari momenti sono indifferenti fra loro, cioè, non sono presi nel processo dialettico. Così, come relazione dei suoi momenti posti come per sé stati e indifferenti, il concetto è il giudizio. Quindi, verrebbe da pensare che il giudizio, in effetti, - ma poi riprenderà la cosa in altri termini – non sia nient’altro che un’operazione religiosa: si piò giudicare a condizione di tenere separati i momenti, come se fossero esterni. C’è una nota del Moni. I molti concetti sono il resultato della divisione che il concetto ha fatto di se stesso. L‘unione di due tra cotesti molti concetti (per la quale l’uno diventa il “soggetto” e l’altro il “predicato”) è l’opera di un terzo, l’intelletto estrinseco. Perciò è estrinseca essa stessa, e come i molti concetti paiono tra loro indifferenti, così essa pare arbitraria. Il giudizio è divisione e unione insieme, ma la divisione appartiene in proprio al concetto, l’unione invece si aggiunge dal di fuori. La vecchia logica, e anche qualche hegeliano, appoggiano, nel giudizio, sul lato secondo cui esso è unione;… Come dire che qualcosa viene dal di fuori e unisce questi elementi. …Hegel, ispirandosi anche all’etimologia della parola tedesca, sul lato della divisione. Ciò verrà chiarito più avanti. Dice poi Hegel. In terzo luogo il giudizio contiene bensì l’unità del concetto perduto nei suoi momenti per sé stati, ma questa unità non è posta. Il giudizio contiene, sì, questi momenti del concetto, ma tenuti ancora separati, questa unità non è ancora posta, non è ancora in atto. Diventa posta mediante il movimento dialettico del giudizio, che è con ciò divenuto il sillogismo, cioè il concetto completamente posto. Nel sillogismo infatti son posti tanto i momenti del concetto come estremi per sé stanti, quanto anche l’unità che li media. Nel sillogismo, certo, ci sono gli elementi che sono distinti ma che nel sillogismo diventano un’unità. Siccome poi immediatamente questa unità stessa, come medio che unisce, ed i momenti, quali estremi per sé stanti, stanno dapprima come contrapposti tra loro, questo rapporto contraddittorio, che ha luogo nel sillogismo formale, si toglie, e la completezza del concetto trapassa nell’unità della totalità, la soggettività del concetto nella sua oggettività. Siamo al concetto universale. Non c’è mai in Hegel qualcosa di già dato in precedenza che piloti il muoversi delle cose. No, qualunque cosa accada accade nell’atto, ma perché accada nell’atto occorre che qualche cosa si dica, che ciò che si dice incontri un significato, che ritorni sul dire; solo a questo punto il dire è qualcosa, prima è niente. Tutto questo avviene simultaneamente.

Intervento: …

Sì e no. È chiaro che noi troviamo solo a posteriori il cominciamento, ma è come dire che questo cominciamento è possibile solo se c’è già il linguaggio. È questo che deve già esserci. In effetti, in Hegel tutti questi passaggi, tutte queste analisi che fa, in realtà sono un tutto, sono un intero. Lui le scompone ovviamente a scopo descrittivo, per poterne parlare. È ciò che dicevamo l’altra volta rispetto al concreto: per poterne parlare devo distinguere e, quindi, devo astrarre gli elementi, ma tutto questo fa comunque parte di un tutto, di un intero, e questo intero è il linguaggio. È questo intero che deve esserci già. Che è poi quella cosa che Heidegger riprese dicendo che ciascuno nasce nel linguaggio, perché quando nasce è già nel linguaggio, e non può non esserci perché è già immerso dentro questa cosa. È perché è già immerso in questa cosa che il linguaggio può avviarsi. Ecco: l’inizio, l’avviarsi del linguaggio accade perché c’era già prima. A pag. 679. Il concetto puro è l’assolutamente infinito, incondizionato e libero. Qui, dove la trattazione che ha per suo contenuto il concetto comincia, è da tornare ancora una volta indietro alla sua genesi. L’essenza è divenuta dall’essere, e il concetto dall’essenza, epperò anche dall’essere. Questo divenire ha però il significato del suo proprio contraccolpo, cosicché il divenuto è anzi l’incondizionato e l’originario. Il punto di partenza è ciò che è divenuto. L’essere è divenuto nel suo passaggio all’essenza una parvenza o un esser posto, e il divenire ovvero il passare in altro è divenuto un porre, e viceversa il porre, ossia la riflessione dell’essenza, si è tolto e ristabilito come un non posto, come un essere originario. Qui ha descritto in modo preciso il meccanismo, dove la riflessione comporta questo ritorno indietro per cui il primo punto, il cominciamento, si pone come un non posto, come un qualche cosa di originario, cioè di non mediato, appunto l’avvio, avvio che è nel linguaggio, sennò non potrebbe avviarsi nulla. Il concetto è la compenetrazione di questi momenti, che il qualitativo e l’essere originario è solo come un porre e solo come ritorno in sé, e che questa pura riflessione in sé è assolutamente il divenir altro ovvero la determinatezza, la quale quindi è parimenti determinatezza infinita, riferentesi a sé. Questo ritornare a sé è anche la sua determinatezza. Per quanto il concetto sia indeterminato, la sua determinatezza è data dal toglimento della sua negazione; a questo punto diventa determinato in quanto indeterminato, ma è sempre comunque determinato. Questo puro riferimento del concetto a sé … è l’universalità del concetto. Cioè: il concetto che si riferisce a sé. L’essere è semplice come immediato;… In quanto immediato l’essere è niente. …perciò non è se non un che di opinato, né di esso si può dire che cos’è; quindi è immediatamente uno stesso col suo altro, il non essere. Che cos’è l’altro dell’essere? Il non essere. Appunto questo è il suo concetto, di essere un tal semplice che immediatamente sparisce nel suo opposto; è il divenire. Il divenire in Hegel è lo scomparire di qualcosa nel suo opposto. Il significante che scompare nel significato, ma, scomparendo nel significato, appare in quanto significante. L’universale al contrario è il semplice che è in pari tempo il più ricco in se stesso, perché è il concetto. L’universale è il contrario del semplice. C’è una nota interessante del Moni. L’essere, essendo quello che non racchiude in sé alcuna differenza (perché per pensarlo si fa astrazione da ogni differenza), per questo appunto è ineffabile, non si può dire che cos’è. Perché è ineffabile, resta quello che il soggetto pensante non può ancora fare atro che opinare, voler dire;… Certo, posso pensare l’essere, ma non posso sapere che cos’è. …e perché è un puro opinato è veramente per il pensiero l’immediato, il suo cominciamento, il punto da cui il pensiero si spicca. Mi rendo che ciascuno di voi non può non avere collegato questa affermazione con Husserl, e anche con Heidegger: la Lebenswelt, il mondo della vita. Da dove incomincia? Da dove e con che cosa incominciamo a pensare, sia che dobbiamo fare la lista della spesa sia che pensiamo alla teoria della relatività? Da dove partiamo? Che cosa sappiamo che ci consente di incominciare a muoverci e a raggiungere poi l’obiettivo che si vuole perseguire? Dal mondo della vita, o, direbbe Heidegger, dalla chiacchiera, cioè, dal dire comune, un dire che, direbbe Hegel, non ha ancora riflettuto su di sé, non sa di essere ciò che è, non sa di essere parola, linguaggio, non sa niente ancora. Ma è da lì che si comincia, è lì, dice giustamente Hegel, il punto da cui il pensiero si spicca, perché senza questa chiacchiera, senza il mondo della vita di cui parla Husserl, cioè senza tutto ciò che gli umani hanno appreso in questi ultimi duecentomila anni, tutto ciò che hanno costruito, pensato, tutto questo costituisce il mondo della vita. La chiacchiera: ciò che le persone pensano immediatamente, cioè, in modo non mediato, non riflesso. La differenza, quello per cui solo è possibile pensare, e dire di qualcosa, che cos’è, questa differenza nell’essere non v’è ancora; sta assolutamente fuori di lui; è una differenza che nel suo protendersi non tocca ad alcun differente, e si perde nel vuoto: il non essere. Al contrario, l’universale racchiude in sé la differenza più alta, la differenza di sé da se stesso, spenta però immediatamente in lui, poiché nella sua semplicità l’universale non è appunto altro che il riferirsi a sé di questa differenza. Dice: la differenza più alta perché è la differenza che ha lui con se stesso. Però, dice, si spegne immediatamente perché è soltanto questo: il riferirsi a sé. Questa è l’unica differenza che c’è tra l’essere e se stesso. La “ricchezza” di una determinazione sta nella varietà e nell’intensità o potenzialità dei momenti o differenze che contiene. Il concetto, che racchiude in sé l’infinito numero dei concetti, è perciò la determinazione più “ricca” che il concetto (il pensiero logico) possa dare a se stesso, come all’incontro l’essere era la più “povera”. Cioè: l’essere nell’immediato è nulla. L’uno e l’altro è semplice, ma la semplicità di questo sta nel non contenere alcuna differenza, la semplicità di quello invece sta in ciò che, essendo la differenza più alta, esso ha fuso nell’unità di questa tutte le altre differenze. Cioè: il concetto universale è quello che ha fuso in sé tutte le differenze. Tra poco ci dirà che l’universale non c’è senza il particolare e, quindi, queste differenze ritornano. Pensate al concetto “uomo”: sì, certo, è universale, riguarda tutti i possibili uomini, passati, presenti e futuri, ma questo uomo esiste senza questo uomo? No, sarebbe un concetto totalmente vuoto, non sarebbe nemmeno un concetto. Occorre questo uomo perché possa darsi l’universale.

Intervento: …

Quando Hegel parla di uomo intende l’umanità. Per lui l’uomo è un concetto, non è qualcuno di sessualmente definito. Avrebbe potuto sostituire uomo con umanità o con persone, o come esserci, come ha fatto Heidegger, che non parla più dell’uomo perché lo ritiene un concetto complicato, obsoleto e soprattutto abusato; quindi, parla dell’esserci. Dicevo della persona universale ha bisogno di questa persona per potere darsi, per potere essere pensato; e così al contrario: se io parlo di questa persona devo avere già il concetto di persona in testa, quindi, di un universale. È la via lungo la quale Hegel incomincia a porre l’unità tra universale e particolare, cioè, di nuovo, non c’è l’uno senza l’altro. A pag. 682. L’universale all’incontro, anche quando si pone in una determinazione, vi rimane quello che è. È l’anima del concreto, nel quale risiede, non impedito ed eguale a se stesso nella molteplicità e diversità di quello. Non vien trascinato via nel divenire, ma si continua non turbato attraverso adesso ed ha la virtù di una immutabile, immortale conservazione. Il concetto universale non cambia perché non è altro che l’unità di tutte le differenze. Prendete tutte le differenze di questo mondo, le mettete assieme, e questo è il concetto universale. Quindi, vedete, non può cambiare, in che modo lo cambio? Il concetto non è l’abisso della sostanza informe ovvero la necessità come identica interna di cose o stati diversi fra loro e limitantisi, ma è come assoluta negatività quello che forma e crea, e siccome la determinazione non è come termine, ma è assolutamente come tolta ossia come esser posto, così la parvenza è l’apparire come apparire dell’identico. Ci sta dicendo che il concetto non è l’abisso della sostanza, cioè, l’impossibilità di determinare la sostanza; no, dice, non è questa la questione, ma piuttosto il concetto si pone come l’assoluta negatività. Infatti, il concetto si pone come la prima negazione dell’essere, poi la seconda negazione dell’essenza, che viene tolta, quindi come nulla. Il concetto, potremmo anche dire, seguendo Hegel, è nulla. È per questo che consente l’apparire dell’identico, perché l’identico non è nient’altro che l’assoluta negatività, cioè, ciò che forma l’intero. A pag. 683. La determinatezza non si assume dunque dal di fuori, quando se ne parla a proposito dell’universale. Come negatività in generale, ossia secondo la negazione prima… Ricordate la negazione prima: è semplicemente l’esser posto dell’ente di fronte alla sua negazione. La negazione seconda è il negare la prima negazione e, quindi, il tornare dell’opposto… immediata, l’universale ha in lui la determinatezza in generale come particolarità;… Una volta che lo determino, l’universale diventa, dice Hegel, qualcosa di particolare. …come secondo, come negazione della negazione esso è assoluta determinatezza, ovvero individualità e concrezione. Dapprima, dunque, la prima negazione, il primo elemento contro cui si pone. Però, il fatto di avere un opponente già lo determina come particolare, ha qualcosa di fronte che lo limita. Naturalmente, ciò che ha di fronte è il suo opposto, quindi, è determinato, non è più soltanto universale ma è anche particolare. Poi, dice, c’è la seconda negazione, quella che toglie l’opponente, facendolo tornare su di sé; e, allora, ecco che parla di assoluta determinatezza, ovvero individualità e concrezione. L’universale è pertanto la totalità del concetto; è un concreto, non è un vuoto, ma ha anzi un contenuto per mezzo del suo concetto, - un contenuto in cui non solo esso si mantiene, ma che gli è proprio e immanente. Si può ben astrarre dal contenuto; così però non si ottiene l’universale del concetto, ma l’astratto, che è un momento isolato, imperfetto de concetto e non ha verità alcuna. Questo richiama Severino. Quando isolo dal concreto la proposizione “questa lampada che è sul tavolo”, che sarebbe il concreto, il tutto, perché questa proposizione non parla di questa lampada che è sul tavolo in particolare, ma è come se creasse uno scenario, in cui c’è tutto un mondo, e io stesso sono questo mondo incluso in questa proposizione. Ora, quando astraggo, magari perché voglio vedere se questa lampadina è fulminata oppure no, devo considerare la lampada in quanto tale e, quindi, la astraggo dal concreto, la tolgo via da questa proposizione, ma, facendo questo, questo astratto per potere esistere deve di nuovo essere inserito in un concreto, in un universale. Questo perché l‘astratto non c’è senza il concreto, ed è questo che è mancato a Severino di intendere bene: se io astraggo questa lampada la inserisco in un altro concreto, in un’altra storia, in un’altra scena dove la lampada ha un suo ruolo, ha un suo movimento. Tutto questo, perché pone un problema che Severino ha soltanto sfiorato, e cioè, di fatto, questa proposizione, questo concreto che include il mondo intero, questa proposizione esiste nel momento in cui io posso considerarla e, considerandola la astraggo. La astraggo nel senso che devo prendere in considerazione qualche cosa di quella proposizione; se, p. es., faccio l’analisi logica di questa proposizione, in ogni caso io astraggo delle cose, non posso non farlo. La cosa diventa più chiara se si intende il concreto, il tutto, come linguaggio. Allora, sì, mi rendo conto che non posso non astrarre qualche cosa per poterlo prendere in considerazione. Ma lo astraggo da che cosa? Dal linguaggio; faccio come se potessi toglierlo dal linguaggio, solo che, immaginando di toglierlo dal linguaggio, lo inserisco di nuovo in un’altra scena, ma rimane ovviamente sempre nel linguaggio, non posso toglierlo da lì. Però, l’illusione è quella di toglierlo dal concreto, dal linguaggio e, quindi, di poterlo, come direbbe Heidegger, conoscere, manipolare ed elaborare. Astrazione che non potrebbe avvenire se questo astrarre non fosse già nel concreto, perché senza il linguaggio, senza il tutto, senza il concreto, non è neanche pensabile un’operazione del genere. Per poterla pensare devo essere nel linguaggio, devo essere nel concreto. A pag. 684. Il vero universale, l’universale infinito, che è immediatamente in se stesso tanto particolarità quanto individualità, è ora anzitutto da considerar più dappresso come particolarità. Esso si determina liberamente; il suo rendersi finito non è un passare, che ha luogo soltanto nella sfera dell’essere; è una potenza creativa come negatività assoluta, che si riferisce a se stessa. Ci sta dicendo che il linguaggio, attraverso questo percorso, dove l’universale infinito, che è immediatamente in se stesso tanto particolarità quanto individualità, questo universale infinito non è altro che ciò che crea. Crea nel momento in cui si pone come negatività assoluta, lo dice qui: una potenza creativa come negatività assoluta, che si riferisce a se stessa.

Intervento: …

Questa uguaglianza non è qualcosa di immediato, è qualcosa che sorge nel momento in cui l’universale riflette se stesso; allora, a quel punto, sa di essere universale e assoluta negatività.

Intervento: …

Rimane sempre universale. Anzi, l’universale è l’unità di tutte le differenze possibili. Qui c’è una questione interessante: come per Hegel il pensiero crei le cose, che crea attraverso la negatività, vale a dire, ponendosi un elemento stabilisce di non essere altro da sé, e quindi pone un altro da sé. Se dice che non è altro da sé, pone un altro da sé, per dire che non lo è, ma lo pone. Lo pone per potersi affermare ed ecco che ha creato la realtà.

Intervento: …

Sì e no. Sì perché ogni volta che si afferma qualcosa si mette in atto la volontà di potenza. Tuttavia, bisogna tenere conto di quello che diceva Hegel quando, parlando della religione nelle sue tre fasi – religione naturale, religione artistica e quella disvelata, dove c’è l’anima bella – dice a un certo punto che la religione occorre che cessi nel momento in cui dio lo portiamo in terra, nel senso che ci si accorge che tutto ciò che veniva attribuito a dio sono io. Tutte queste cose che io gli attribuivo sono io. Bisogna però accorgersene. La Fenomenologia dello spirito è quel cammino che dovrebbe giungere a questo.