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1-7-2015

 

Essenza del nichilismo di Emanuele Severino a pag. 262, capitolo Sul significato della morte di dio: Le critiche rivolte alla società industriale avanzata, non sono a loro volta che il tentativo di rendere più coerenti e radicali le stesse strutture di fondo della civiltà della tecnica, appartengono cioè al movimento per il quale il nichilismo si rende più razionale e potente, in effetti le capacità tecnologiche attuali consentirebbero già oggi la liberazione dalla fame, dal lavoro spersonalizzato che ha un volume di dolore e di angoscia tuttora sopportato dagli uomini, ci si rende conto che l’apparato produttivo è deviato verso la produzione sempre più massiccia di mezzi di distruzione e di difesa. Il motivo di questa deviazione è dato dalla volontà di difendere una certa struttura ideologica della società democratica, comunista, capitalista o proletaria o cristiana, laica, quello che volete, la si vuole difendere perché si è convinti che in essa l’uomo, o raggruppamento umano privilegiato, possa trovare la strada della felicità, ma la liberazione ideologica dal dolore cristiana, laica, marxista si muove pur sempre all’interno del mondo e all’interno del mondo la liberazione più radicale dal dolore sta diventando la liberazione tecnologica, (cioè è affidata alla tecnologia questa operazione) la difesa delle ideologie e la conseguente mobilitazione offensivo difensiva provoca quindi un ritardo nell’instaurazione dell’effettiva felicità che all’interno del mondo, all’interno cioè dell’essenziale alienazione dell’Occidente, può essere raggiunta dall’uomo (quindi si tratta per Severino di una difesa delle ideologie, di un modo di pensare, e la tecnologia ha buona parte questa funzione cioè una difesa, una costruzione di mezzi di difesa della propria ideologia, perché la propria ideologia è sempre pensata come messa in discussione, in pericolo, minacciata da tutto e da tutti) Ma siamo anche privi di un criterio assoluto sul cui fondamento si possa incontrovertibilmente porre qualcosa come segno e aspetto di altro, l’interpretazione porta nell’apparire i linguaggi, le opere, le cose, ossia vi porta la storia dell’uomo come immenso intreccio della totalità dei rinvii dal segno al designato, ma l’interpretazione è una volontà interpretante che non manifesta la necessità del nesso che unisce il segno al designato, bensì impone il nesso, ossia lo vuole in quanto tale. Sino a che la necessità del nesso rimane sconosciuta e quindi rimane una pura possibilità la storia è la stessa volontà interpretante che nell’orizzonte dell’apparire dell’ente decide che certi enti siano l’aspetto e il segno di altri, dove manca la necessità “νάγκη” è il luogo dove abita la verità, ogni tipo di motivazione tra il nesso e segno e designato è nella sua essenza la decisione di instaurare il nesso, ogni verifica empirica del nesso consolida la decisione ma non ne muta l’essenza (ecco questo è molto importante, quello che sta dicendo lo dice anche dopo ed è che non c’è nulla, lo dice qui nelle prime righe “nessun fondamento incontrovertibile che ci dia la certezza su cui fondarci per stabilire una connessione tra un segno e il designato” e cioè ogni segno è arbitrario ovviamente, ma qui sembra riferirsi più a una questione che riguarda il significato, una questione molto importante che potrebbe dirsi così: ciascuna volta che attribuisco a un termine, a una parola un significato questo significato viene imposto da me a quella parola, questo significato la parola non ce l’ha, questo l’abbiamo già visto varie volte però questo incomincia, al punto in cui siamo, ad avere una serie di implicazioni notevoli che vedremo tra poco) Come apertura dell’assoluta disponibilità delle cose a essere e a non essere, il mondo è l’espressione, la testimonianza originaria della volontà di potenza, la volontà di potenza si esprime originariamente nel modo stesso in cui all’inizio della storia occidentale viene aperto il senso della “cosa” (cioè sta dicendo che dal momento in cui, da Platone, si è incominciato a parlare della cosa, “πρᾶγμα” per i greci antichi, da cui pragmatismo, sarebbe la cosità, ecco da quel momento è incominciato a esistere il mondo in quanto cosa fra le cose, gli umani e tutto quanto. Ma tutto questo ha come fondamento, come motore, diciamola così, la volontà di potenza, ci sta dicendo che il mondo è stato costruito dalla volontà di potenza. Poi qui c’è una cosa che è contenuta nella sua risposta alle obiezioni che gli ha rivolto la chiesa) La chiesa rileva che i miei scritti non sembrano ammettere la possibilità che la filosofia sia giudicata sia pure estrinsecamente dalla fede (questa era una delle accuse, perché la filosofia deve essere giudicata dalla fede) mentre la fede lungi dal coartare la libertà di ricerca e la vera autonomia della scienza ne verifica le conclusioni e i mezzi di ricerca e ne illumina il cammino verso la verità (questa era la critica della chiesa) Nel linguaggio teologico di ispirazione tomista ciò significa che se la fede può rinunciare a intervenire nella determinazione del contenuto e dei metodi delle scienze umane non può però rinunciare al giudizio sulle conclusioni di quelle scienze ossia a ciò che appunto viene chiamato “giudizio estrinseco” e tutto ciò che in quelle conclusioni viene rilevato come contrastante la verità della fede è condannato come falso (ve la sto leggendo non tanto perché è la chiesa, la chiesa non può non fare questo, ma perché si riscontra anche al di fuori della chiesa) Viene condannato perché falso. In questo modo la chiesa ritiene di potere salvare da un lato il proprio diritto di giudicare il sapere umano e dall’altro lato la vera autonomia di questo sapere, ma alla base di questo atteggiamento della chiesa si trova la concezione tomista del rapporto fede ragione, non ci può essere contraddizione tra ragione e fede perché in entrambe è presente la verità, il contenuto della fede è verità perché è rivelazione divina (questo lo dice Agostino) i principi della ragione naturale sono per sé evidenti (quella che mi fa dire che questo orologio è sul tavolo e quindi non è per terra, questo fa parte della ragione naturale) e sono dati anch’essi da dio (Agostino) tra la verità della fede e la verità della ragione non vi può dunque essere contraddizione, (la verità della fede è rivelata da dio, e si sa che dio non mente e la verità della ragione, quella è evidente, è di tutti quindi non può essere falsa, quindi non ci può essere contraddizione tra la verità di fede e la verità di ragione, entrambe sono necessariamente vere) perché solo il falso è contrario al vero o perché dio può essere l’autore del falso in noi (e anche la verità della ragione comunque è data da dio, non inganna) o perché ciò che dio dona all’uomo nonostante la rivelazione non può essere in contrasto con ciò che dio da all’uomo in quanto autore della nostra natura (Agostino) (dio non può ingannarci né per quanto riguarda la fede né per quanto riguarda la ragione)pertanto se nell’affermazione dei filosofi (questa è un’altra citazione della chiesa) si trova qualcosa di contrario alla fede questo qualcosa non appartiene alla filosofia, la quale si fonda sul lume della ragione naturale, ma è un abuso della filosofia per difetto di ragione, perciò è possibile procedendo dai principi della filosofia confutare un errore di questo genere o mostrando che è assolutamente impossibile o mostrando che non è necessario (sempre Agostino) quell’abuso viene determinato (Per cui il ragionamento della chiesa cerca di salvare ogni posizione dicendo che per dimostrare che la filosofia non può contravvenire alla fede, perché la filosofia è un ragionamento degli umani e il ragionamento degli umani se è corretto è necessariamente vero perché è auto evidente, è dato da dio ma da dio ci è data la capacità di ragionare e il ragionamento è auto evidente, se io dico che questo aggeggio qui è a destra di quest’altro è un ragionamento evidente che non può essere falso. Una nota pag. 357): La negazione del niente appartiene ma non coincide con l’essenza dell’ente, ente significa determinazione uguale significare che è sintesi di una determinazione uguale del significare e del suo essere, e essere è a sua volta una sintesi. L’“è” della determinazione significa che la determinazione rimane presso di sé e non si disperde in un niente, il rimanere presso di sé è il momento positivo e l’ “è” del linguaggio mette in vista questo momento, il “non disperdersi in un niente” è il momento negativo, dire che “qualcosa è” significa che non è un niente, questa affermazione più volte ripetuta nei miei scritti non intende porre una identità tra “è” e “non è un niente” (“niente” vi ricordate che Heidegger lo poneva come non come un nihil assoluto ma come un non ente, ma intende rilevare che il significato concreto di “è” include il non essere un niente, il non disperdersi in un niente, alla “determinazione” che rimane-presso-di-sé (con i trattini per indicare che è una cosa compatta) conviene necessariamente il non essere un niente, la determinazione rimane presso di sé solo in quanto non è un niente e non è un niente solo in quanto rimane presso di sé (un qualche cosa non può diventare un niente perché è presso di sé, è sempre presso di sé, questo è anche il concetto di eterno, che rimane sempre se stessa, “presso di sé” cioè non si disperde in altre cose, non prende parte ad altre cose, rimane chiusa in sé, rimane quella che è) L’Essere come distinto dal non essere un niente è l’Essere che è un non essere un niente (è distinto, dice, l’Essere dal non essere un niente, è l’Essere che è un non essere un niente, non sono distinti l’Essere e il non essere niente, non sono due cose, sono la stessa, quella cosa che rimane appunto presente in sé) dunque i distinti non sono separati, in quanto il predicato conviene necessariamente al soggetto, il soggetto è il soggetto del predicato e il predicato è il predicato del soggetto. Affermare che l’ente può apparire indipendentemente dall’apparire del niente, significa porre come ente ciò che non è ente, appunto perché l’ente è sintesi di una determinazione e del suo essere e l’Essere dell’ente è l’“Essere che è un non-essere-un-niente” e se il niente non appare, non solo non può apparire l’ente come ente ma non può apparire nulla, poiché “ente” è il predicato che conviene necessariamente ad ogni significato. (Era questa la questione finale, fa una critica all’affermazione che l’ente possa apparire indipendentemente dall’apparire del niente, a lui interessa questo, che se si afferma qualche cosa che pone un determinato, questo non può non apparire se non escludendo ciò che questo ente non è, cioè la verità dell’Essere, questo consiste nell’incontrovertibile, nel fatto che qualche cosa è ciò che è e non può essere altro da sé, non può divenire altro da sé. Se invece diciamo che l’ente può apparire anche senza il negare la sua negazione, cioè l’ente può apparire anche senza quella cosa che dice che il non ente è necessariamente e non può non essere, se dovesse apparire significa porre come ente ciò che non è ente. Ci sta dicendo che se noi togliamo all’ente il suo contrario, l’ente cessa di esistere, il suo contrario cioè la sua negazione) Se il niente non appare non solo non può apparire l’ente (come ente) ma non può apparire nulla perché ente è il predicato che conviene necessariamente ad ogni significato (quindi un qualunque significato deve essere un qualche cosa, se è un qualche cosa non è nulla, necessariamente, però qui c’è una cosa importante che volevo dirvi e cioè che tutte queste affermazioni di Severino, e questo lo facciamo come esercizio, possono essere utilizzate contro di lui, e qui c’è una questione notevole però c’è ancora un’ultima cosa)Pag. 372 Ancora una volta i miei scritti intendono esprimere qualcosa di diverso, la verità dell’Essere dice che l’ente in quanto tale quindi ogni ente è impossibile che non sia cioè è eterno, ma la totalità degli enti che appaiono non coincide con la totalità degli enti, (quelli che appaiono non sono tutti gli enti ovviamente) l’apparire è infatti l’apparire di uno sviluppo, la totalità degli enti che appaiono è una interazione, nell’interazione tutto ciò che incomincia ad apparire esce dal nascondimento (questa che sto leggendo è sufficiente a intendere qual è la posizione di Severino per “salvare” il divenire, perché anche lui si accorge che le cose ci sono ad un certo punto e poi non ci sono più) ma l’ente è non un niente anche quando rimane nascosto (perché dice che nell’interazione tutto ciò che incomincia ad apparire esce dal nascondimento, era nascosto, non che non ci fosse) ma l’ente è non un niente anche quando rimane nascosto (anche quando rimane nascosto l’ente è comunque) il grano è nel pugno del seminatore anche prima che la mano si apra e lo butti nel campo, ma una volta gettato nella mano non resta più nulla invece la scorta non viene esaurita dall’apparire per quanto abbondante possa essere la semina degli enti, poiché ogni ente è anche la totale manifestazione cioè l’apparire totale dell’ente non può attendere per essere che giunga il suo turno nell’interazione dell’apparire, la totale manifestazione dell’ente è già da sempre compiuta, questo compimento non è un “poi” rispetto al “prima” dell’incompiutezza, quindi ogni “poi” raggiunto dall’interazione dell’apparire ogni più abbondante semina degli enti non colma la differenza tra i già da sempre compiuto e ciò che è ed è destinato a rimanere in via di compimento (la totalità degli enti, adesso ve la faccio semplice, è quella che è sempre, questo però non significa che degli enti non possano entrare in una sorta di nascondimento, e cioè non apparire nell’immediato, qui e adesso, questo non significa affatto che se l’ente è l’ente non sia, l’ente è comunque anche se io non lo vedo, se qualcuno lo nasconde. Severino introduce la totalità degli enti, ma non dovete pensarla come un insieme di elementi, questa accezione potrebbe essere sviante, quando Severino parla di totalità degli enti indica che qualunque ente, se appare in qualunque modo, questo è nella totalità degli enti e vale a dire che questo ente è e non può non essere come qualunque altro ente possa mai apparire in qualunque modo. La totalità degli enti è la totalità di tutto ciò che è destinato ad apparire, e cioè “apparire” tenete sempre conto che è l’evidenza, è destinato a essere evidente ciò che appare è perché è necessario che appaia, non è che prima non c’era e adesso c’è, c’è ed è sempre, ma un “sempre” che non è temporale, nel senso che un’ora fa non c’era, questo “sempre” è da intendere nell’atto. Questo ente trascendentale è l’apparizione di dio, è lui che è al di sopra del tempo, cioè domina il tempo, è lui quindi che ha la possibilità di fare divenire le cose, e qui c’è tutto il problema di cui dicevamo la volta scorsa: che dio faccia apparire le cose comporta il divenire, c’è qualche cosa che esce dal nulla e rientra nel nulla, e questo è in contrasto con l’idea che dio sia eterno perché se lui fa questa operazione anche lui non è eterno. Volevo sottolineare un aspetto particolarissimo che riguarda, come dicevo prima, il significato. C’è una questione che potrebbe essere determinante se applicata alle stesse cose che dice Severino) Siamo privi di un criterio assoluto su cui, sul cui fondamento si possa incontrovertibilmente porre qualcosa come segno e aspetto di altro (quindi ogni rinvio è un rinvio che non ha fondamento, o almeno fondamento incontrovertibile, questo comporta che qualunque discorso in cui compaiano significati, cioè ogni discorso, è costruito in modo tale per cui gli elementi che intervengono in questo discorso sono connessi nel loro significato e non possono non esserlo, perché qualcuno impone questa connessione, la impone, non c’è senza tale imposizione. Ma a questo punto che dire del lavoro di Severino? Quando parla di “incontrovertibile”, questo termine “incontrovertibile” ha un significato ovviamente, se dovessimo attenerci a quello che dice Severino è un significato che lui, Severino, gli impone, quindi l’incontrovertibile non è qualche cosa che c’è comunque al di fuori di ogni relazione, questo lui lo sa, ma non tiene conto che questa sua posizione che ritiene “incontrovertibile” è sorretta dal significato che lui ha imposto al termine “incontrovertibile”, e a tutti gli altri significati, se questo significato che lui impone dovesse essere un altro e allora sorgerebbero dei problemi, come dire che “incontrovertibile” è quell’ incontrovertibile di cui lui parla, non perché l’incontrovertibile sia un quid che sta da qualche parte, ma è perché è lui che l’ha costruito così, cioè gli ha dato quel significato. Voglio dire questo: Severino si appoggia sul principio primo, il principio di non contraddizione, ma come fa lui a sapere che appoggiandosi sul principio di non contraddizione i termini che usa, le parole che usa per descriverlo, per stabilirlo eccetera, hanno veramente quel significato? E poi che cosa significa che abbiano quel significato? Può diventare un problema in tutta l’elaborazione di Severino, perché rende anche l’incontrovertibile a questo punto di fatto come arbitrario, non più come necessario che sia, e cioè appunto come un gioco linguistico dove Severino ha stabilito che “incontrovertibile” significa questo e cioè che esclude il suo non essere. Cosa ci direbbe Severino a questo punto? Che comunque in tutto questo discorso non possiamo non tenere conto del principio primo, il principio di non contraddizione, perché tutto ciò che diciamo deve significare una certa cosa per poterla utilizzare; contro obiezione: come facciamo a saperlo che ogni termine che uso esclude necessariamente il suo contrario? Sì la sua argomentazione è potente, è vero, ma potrebbe costruirsi in realtà una argomentazione contraria e altrettanto potente la quale dice che sì il principio di non identità, partiamo da lì, e cioè che le cose non sono quelle che sono, quindi quando affermo questo sto anche affermando qualche cos’altro, cioè affermando che le cose non sono come sono: se io accolgo in principio di non identità, significa che quello che sto dicendo non è esattamente quello che sto dicendo, bene, questo che cosa comporta? Per Severino un grosso problema ma potrebbe non esserlo, perché in ogni caso se io accolgo l’eventualità che ciò che affermo non sia necessariamente quello che affermo mi apro ad altre possibilità, il discorso procede, costruisce altre sequenze comunque perché non può non farlo, tenendo anche conto, e in questo ci avvaliamo di quello che lui stesso dice, che non abbiamo nessun criterio per stabilire con certezza qual è la connessione giusta, retta, necessaria anzi, lui stesso dice che non c’è, quindi a maggior ragione io posso affermare che ciò che sto affermando non è quello che è, cioè, vuole dire anche quello, ma non soltanto, ci sono anche altre cose che sto affermando a fianco, anche la contraria, è possibile, si annullano? Dipende dal gioco che decidiamo di fare, a questo punto siamo costretti a dire questo, che dipende dal gioco che decidiamo di fare, se decidiamo di fare un certo gioco, cioè di attenerci al principio primo, allora sì, si annulla, se per esempio facciamo il gioco della logica dialettica di Hegel no. All’interno del singolo gioco, questa era la tesi di Jaśkowski: all’interno del singolo gioco è quello che è, ma non necessariamente rispetto a altri giochi, cioè non ha valore assoluto. Se io faccio questo discorso all’interno di un gioco che ho stabilito precedentemente, con le sue regole, allora sì, è come se stessi giocando a poker, accolgo il fatto che due re battano due sette. Sto utilizzando quello che lui dice per mostrare che le cose che dice possono essere esposte a un contraddittorio, non sono incontrovertibili. L’argomentazione di Severino appare appunto incontrovertibile, cioè qualunque cosa si faccia o non si faccia comunque quella cosa deve essere quella che è, ma se il significato di quella cosa non è accertabile, non è verificabile, come fa a essere quella che è? In base a quali elementi possiamo concretamente argomentare che è quella che è, e cioè che nega la sua contraria? Perché Severino è preciso su questo, l’ha detto prima in quella nota “l’ente non può esistere senza il non ente”, senza l’assoluto non ente e cioè nega assolutamente la possibilità che un ente possa non essere quello che è, però torno a dire che se questo ente è quello che è, è perché ha un significato, perché significa qualcosa se no sarebbe niente. Se una cosa non ha nessun significato né potrà averne mai nessuno, che cos’è? Ciò che di fatto rimane identico è che è ciò che consente a lui di dire che l’ente è quello che è, necessariamente, la famosa verità dell’Essere, si appoggia su un significato che lui gli dà, sapendo, perché lui stesso lo scrive nero su bianco, che il significato su cui si appoggia tutto quanto, che è un significato, è una relazione, un nesso tra un elemento è un altro, questa connessione, questa relazione non c’è nulla al mondo, lui stesso lo scrive, che ci possa garantire, che sia sicura. Allora se tutta la sua argomentazione intorno all’incontrovertibile, quindi all’ente che è necessariamente quello che è, deve dare necessariamente all’ente un significato per poterlo usare in un qualunque modo, e se questo significato in nessun modo può essere stabilito con certezza allora crolla tutto quanto come un castello di carte.

Intervento: il significato qui è ciò che lo fa esistere o è una sua determinazione? Perché cambia la cosa secondo me, perché se fosse una sua determinazione è qualche cosa che non è necessario, perché lei pone la questione del significato come qualche cosa di necessario …

Severino stesso distingue tra la determinazione come ciò che è necessario che sia, perché qualche cosa sia quello che è e determinazioni che possono aggiungersi invece come elementi che appaiono.  

Intervento: per me il significato è questo perché un ente appare in una sua significazione non nella significazione nel senso che io posso dare un significato qualunque … perché nel ragionamento che fa lei è come se la significazione fosse quasi assoluta mentre invece io …

Lei stesso Sandro potrebbe obiettare a questa sua considerazione: il fatto che l’ente sia determinato significa che è quello che è e non è altro da sé, questa è la determinazione principale, questa definizione di “determinazione” è quella che è perché significa qualcosa …

Intervento: significa qualcosa certamente ma non dice cosa significa …

No, non lo dice, ma non è necessario. Qualunque cosa significherà questo concetto di determinazione che torno a ripetere che dice che un elemento è quello che è e non è ciò che non è, questa è la prima determinazione, ciò che consente di determinare e quindi di individuare una qualunque cosa, ora questo concetto di determinazione è necessario che significhi per essere un concetto di determinazione, ma se il significato è questa relazione da un elemento a un altro, uno spostamento da un elemento a un altro e questo spostamento, che avviene da un elemento a un altro non ha nessun fondamento allora qualunque significato incontrerà, questo significato non potrà essere determinato se non attraverso una imposizione, allora sì, io stabilisco, come nel poker, che questa carta vale questo, però tutto questo che dice Severino sarebbe effettivamente “incontrovertibile” se lui lo ponesse non come incontrovertibile in assoluto, ma incontrovertibile in quanto particolare al gioco linguistico, allora stando alle sue premesse quelle imposizioni di significato che lui determina, allora sì ciò che dice è incontrovertibile, entro certi limiti. Ma stavo dicendo che la posizione di Severino, che lui giudica incontrovertibile in assoluto, cioè immagina che nessuno possa costruire un discorso, un’argomentazione che neghi quello che lui afferma, in questo senso in assoluto, quello che dice Severino è incontrovertibile se accogliamo le regole del suo gioco. Rileggiamo questo passo: “siamo privi di un criterio assoluto sul cui fondamento si possa incontrovertibilmente porre qualcosa come segno e aspetto di un altro, l’interpretazione porta nell’apparire dei linguaggi e opera eccetera, ossia riporta la storia dell’uomo come immenso intrecciò della totalità dei rinvii dal segno al designato” poi dice appunto che “l’interpretazione è una volontà interpretante che non manifesta la necessità del nesso …” perché non c’è questa necessità, il fatto che il discorso Occidentale ci provi ovviamente non comporta che riesca questa relazione, non c’è questo nesso, non essendoci questo nesso ecco che, e non potrebbe per altro neanche esserci, allora una qualunque elaborazione, un qualunque discorso si trova a dovere utilizzare dei termini il cui significato non può essere fondato, cioè nessun rinvio può essere fondato in modo assolutamente certo, e questo comporta un grosso problema in qualunque elaborazione teorica, compresa quella di Severino, perché se dico che ciò che mi appare, mi appare nel modo in cui mi appare, compio un’affermazione problematica. Una cosa che Severino dà per scontata, ma che potrebbe non esserla è da dove traggo questa certezza che ciò che mi appare è proprio ciò che mi appare? Perché potrei anche pormi la domanda “come lo so?” lo stabilisco, lo decido, ma neanche di questo ho la certezza e cioè che ciò che appare sia effettivamente ciò che appare, ma  questo è un altro discorso: anche un re di fiori è un re di fiori, però al di fuori di una decisione non significa niente, il problema è che occorrerebbe avere fede anche in questo aspetto, cioè anche in ciò che afferma Severino per potere concordare con le sue conclusioni, in caso contrario non è così automatico. Se mi appare questa penna allora mi appare questa penna, ma che cosa vuole dire questa cosa che ho appena affermato? Significa qualcosa o non significa niente? Se significa qualche cosa, che cosa? E qui torniamo alla questione del significato. Questa penna mi appare come penna. Che cosa sto dicendo, dicendo che mi appare in quanto penna? Perché potrebbe anche essere tutt’altro, se io dico che mi appare come penna è perché io so già una quantità sterminata di cose che mi conducono a concludere “quindi questa è una penna” e allora posso dire che mi appare come penna, cioè tutta questa argomentazione è in connessione con un’infinita serie di altre argomentazioni preesistenti, quindi è possibile questa affermazione se inserita all’interno di un sistema che è quello linguistico, che consente la produzione di questa affermazione provvista di un senso ovviamente, quindi è la questione del significato la questione centrale in tutto ciò. Stabilire invece che un elemento è necessariamente connesso con un altro e con nessun altro, stabilire questo è arduo, anche perché ci troviamo presi a questo punto con in sorta di regresso all’infinito, perché io in questo momento sto parlando chiedendomi come faccio a sapere che … oppure come faccio a stabilire con certezza che c’è questo riferimento preciso, questa connessione e solo quella? L’argomentazione che sto utilizzando comporta altri significati ovviamente, quindi altri rinvii, quindi altri problemi che anziché dissolversi man mano che articolo la cosa si espandono a macchia d’olio, senza possibilità di venirne a capo, cioè senza la possibilità di stabilire che una parola abbia un significato se non all’interno di un sistema linguistico. Questo potrebbe darsi, cioè che un significante abbia un unico significato, un termine abbia un significato e solo quello, se io pongo questo suo significato fuori dal linguaggio, e allora qui si potrebbe volendo rivolgere a Severino la stessa accusa che lui rivolge a tutti cioè di essere dei platonici, e cioè di immaginare che un elemento tragga il suo significato necessario da una qualche altra cosa, se no ci si ritrova all’interno di una struttura che è quella linguistica che è straordinariamente complessa e che non consente di fare una qualunque cosa che non sia un gioco linguistico, ma per fare un gioco linguistico devo stabilire, cioè imporre delle regole alle quali poi mi attengo e va benissimo, ma queste regole sono arbitrarie, cioè per usare le parole di Severino “comportano una fede in questa regola” cioè che sia così. Ma se questa fede scompare, fede che per altro lui stesso denigra perché è l’errore, anche se riconosce che è inevitabile, è inevitabile avere fede che quando esco di qua ci sia la strada lì fuori che mi aspetta che ci sia il mondo grosso modo come l’ho lasciato, è inevitabile pensare questo e cioè è inevitabile l’errore, è inevitabile la metafisica, ecco perché sono stato indotto a considerare che la struttura stessa del linguaggio sia una struttura metafisica che tende sempre al raggiungimento della certezza, sapendo o non sapendo di non poterci arrivare mai, perché la certezza è soltanto un’altra costruzione, un altro gioco linguistico. Porre il linguaggio come metafisica comporta un’altra serie di problemi ovviamente, e cioè l’impossibilità di uscire da questo tipo di struttura che è quella segnica, semiotica, per cui un elemento rinvia a un altro necessariamente e quell’altro è il suo significato, e questo è Platone ad averlo individuato. La struttura semiotica è quella che ci dice, quella inventata da De Saussure praticamente, che un significante è tale perché c’è un significato e viceversa, ciascuno dei due trae la sua essenza, la sua esistenza addirittura dall’altro. Sto parlando di struttura, la struttura formale, cioè “a è tale perché esiste una b che mi dice che cos’è a” se no questa “a” è nulla, ora questa struttura formale è la struttura che Platone ha inventata, cioè un elemento trae il suo significato da un altro elemento, quale esso sia per il momento non importa. Questa struttura è quella del linguaggio, perché il linguaggio non può funzionare se non funziona così, cioè se un elemento non trova il suo senso da un altro, cioè non è in relazione con un altro. Anche l’interpretazione psicanalitica è un’interpretazione metafisica, e anche la semiotica dopo tutto, ciò che rappresenta il significato di una parola non è presente in quella parola, è ultrasensibile, trascendente nel senso che non è lì, non è immanente. Intervento: la mia difficoltà è nell’intendere la struttura formale a questo punto come metafisica … io considero il significato non un ente astratto …

Non lo è, è semplicemente un’altra parola, un insieme di altre parole che però non sono presenti nell’immanente, qualcosa che non è presente, è presente altrove appunto, in una relazione con altri elementi linguistici. Quando io prendo una parola qualunque, per esempio “empirico”, in questo termine “empirico” non c’è il suo significato, anche perché possono essere molti e questa relazione che si instaura tra questa parola e il suo significato è connessa a una quantità notevole di altre cose, il modo in cui interviene, il contesto, il modo in cui se ne parla, tante cose che ne determinano il significato, che non c’è in questa parola …

Intervento: però a questo punto mi viene da pensare che sia solo una differenza di forma, qualcosa è visibile, qualcosa non lo è entrambi sono elementi linguistici che differiscono nella forma …

Sì, cioè ciascun elemento linguistico che è presente trae la sua essenza da altri elementi linguistici che non sono presenti, questa è la struttura della metafisica.