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1 luglio 1997

Testo di Aristotele: Topici - 1°

 

"Sillogismo" è propriamente un discorso in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, attraverso gli elementi stabiliti, alcunché di differente da essi. Si ha così da un lato dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi, oppure da elementi siffatti che assumano il principio della conoscenza che li riguarda attraverso certi elementi veri e primi. Dialettico è d'altro lato il sillogismo che conclude da elementi fondati sull'opinione.

Nel discorso occidentale il sillogismo, l'inferenza, per essere vera occorre che muova da elementi certi, sicuri, “primi” come dice Aristotele, e questo ha inficiato buona parte del pensiero occidentale che è rimasto ancorato a questa supposizione e cioè che qualunque ragionamento per procedere correttamente debba muovere da qualche cosa di necessario. Il problema che si è posto è sempre stato questo naturalmente, potere stabilire che cosa sia necessario e a questo punto Aristotele si aggancia alla nozione di definizione, che dovrebbe essere un discorso proprio, e cioè appartenere necessariamente a una certa cosa.

La definizione è un discorso che esprime l'essenza individuale oggettiva. Poco dopo: In realtà quando mostreremo che l'oggetto non è identico alla definizione, avremo distrutto la definizione. // "Proprio" è ciò che, pur non rivelando l'essenza individuale oggettiva, appartiene tuttavia a quell'unico oggetto, e sta rispetto ad esso in un rapporto convertibile di predicazione. Così è proprio dell'uomo l'essere suscettibile di apprendere la grammatica: se infatti un oggetto è un uomo, esso è suscettibile di apprendere la grammatica, e se è suscettibile di apprendere la grammatica, allora è un uomo.// Determiniamo dunque anzitutto che cosa sia una proposizione dialettica e che cosa sia la formulazione di una ricerca dialettica. Non si deve infatti stabilire come dialettica né una proposizione qualsiasi, né la formulazione di una ricerca qualsiasi, nessuno uomo dotato di buon senso proporrà invero ciò che non risponde all'opinione di alcuno, oppure formulerà una ricerca, il cui risultato è già evidente a tutti o alla grande maggioranza delle persone. Queste formulazioni non offrono in realtà alcuna materia di dubbio, e d'altra parte quelle proposizioni non saranno mai stabilite da nessuno. Una proposizione dialettica è così una domanda fondata sull’opinione o di tutti, o della grande maggioranza, o dei sapienti, e tra questi, o di tutti, o della grande maggioranza, o di quelli oltremodo noti. Negli ultimi casi per altro la domanda non deve essere aberrante rispetto all’opinione generale: uno infatti può stabilire quello che sembra accettabile ai sapienti, purché ciò non sia contrario alle opinioni della stragrande maggioranza. Sono poi proposizioni dialettiche altresì le formulazioni simili a quelle fondate sull'opinione, come pure le contrarie - proposte in forma contraddittoria - a quelle che sembrano fondate sull'opinione…

Ecco che cosa fornisce il principio primo e cosa lo garantisce: l'opinione, o più propriamente l'opinione dei più, quella maggiormente condivisa, ed è quella che fornisce il criterio di certezza. Se i più pensano così allora questo è vero. Come mai si rifà a un criterio così strampalato? Ma in effetti non è che non ci abbia pensato evidentemente, ma si è pur accorto, anche lui, che fondare qualche cosa è sempre straordinariamente difficile e allora una sorta di escamotage, l'unica certezza su cui possiamo porre le fondamenta è l'opinione più diffusa. Chiaro che questo comporta logicamente dei rischi non indifferenti, la moda cambia, ciò che è creduto oggi non lo è più domani e dunque anche la verità allora cambia, con conseguenze notevoli per il discorso, ma l'inconsistenza di una simile argomentazione sembra giungere dalla necessità di fondare qualche cosa che in nessun modo è fondabile. Aristotele come sapete, se non lo sapete ve lo dico io, pose delle obiezioni ai sofisti, tuttavia ciò che obietta ai sofisti è riconducibile in definitiva al fatto che i più non pensano così e quindi è sbagliato. Vi rendete conto che ciò che veniva scritto circa 2500 anni fa, sia non solo attuale ma attualmente creduto, ed è ancora su questo che si fonda il pensiero occidentale. In questo ha avuto sicuramente maggiore fortuna di un altro che sarebbe seguito da lì a poco, un certo Gesù Cristo che ha avuto un certo seguito, ma meno di Aristotele, perché Aristotele ha improntato, tutto il modo di pensare per i millenni che hanno fatto seguito e cioè fino a tutt'oggi, ci sono buone provabilità che la cosa prosegua ancora in questi termini, ma l'intoppo qui, dicevamo, è stabilire qualcosa che risulti necessario e prima ancora potere definire che cosa è necessario, e qui la proposta di Aristotele con la definizione di ciò che è proprio, che è l'essenza di una certa cosa, svanisce, è un po' come chiedere qual è l'essenza dell'essenza? Cosa non semplicissima, dunque che cosa è necessario? Così molto banalmente ciò che non può non essere, però detto questo non siamo andati molto lontani, "ciò che non può non essere" in che senso? Ciò che io credo che non può non essere, o ciò che non può non essere assolutamente? Dove lo trovo un criterio simile? Non c'è. Il passo che abbiamo compiuto rispetto al pensiero occidentale è quello di porre un criterio che ci indicasse effettivamente ciò che non può non essere, non nell'assoluto che non ha molto senso, ma rispetto alla ricerca che stiamo compiendo, e come abbiamo detto in varie circostanze, ciò che non può non essere è che questa ricerca la stiamo compiendo utilizzando il linguaggio e questo non può non essere, perché se non utilizzassimo il linguaggio non faremmo la ricerca e quindi ecco che in questo modo riusciamo a reintrodurre la nozione di necessario in un modo che per un verso, non ha bisogno dell'assoluto che vanno cercando i filosofi, dall'altro, quindi apparentemente più debole, dall'altro invece molto più potente, più potente in quanto si riferisce unicamente a ciò che, di fatto, non può non essere, non ciò che immagina possa non essere, ciò che necessariamente non può non essere, per una questione prettamente linguistica, in questo caso più ancora grammaticale e cioè che non posso negare di fare ciò che sto facendo. Allora dunque che cosa è necessario? Che si parli, che si stia parlando, dal momento in cui per esempio, ci si pone questa domanda, cioè che cosa è necessario. L'unica cosa che risulta imprescindibile in questa domanda è che la si stia ponendo, che se la si pone è perché c'è un linguaggio. Ecco perché in questa accezione, possiamo reintrodurre la nozione di necessario assolutamente legittimamente, e cioè come ciò che non può non essere. Dice ancora

È doveroso in ogni caso assumere la proposizione quanto più è possibile in forma universale e poi trarre da quest'unica molte proposizioni, ad esempio, affermando che i termini contrapposti sono oggetto di una medesima scienza e sostenendo in seguito che lo sono quindi i contrari ed i termini delle relazioni /…/ Indagare in quanti sensi si dica alcunché è utile sia nei confronti della chiarezza, (uno infatti può saper meglio cosa sostiene, se si rende manifesto quanti siano i significati), sia rispetto al costituirsi di sillogismi rivolti all'oggetto, come tale, non già al nome. Se invero risulta oscuro in quanti sensi si dica alcunché, può accadere che chi risponde e chi interroga non indirizzino verso un identico punto di riferimento il loro pensiero; una volta invece che si renda manifesto quanti siano i significati e dove rivolga la sua mira chi ha proposto la questione, apparirebbe ridicolo l'interrogante se non costruisse il discorso in questa direzione.

Questione questa che i linguisti hanno affrontata in modo molto rigoroso e cioè quanti siano i significati di una proposizione, voi per esempio affermate una proposizione, quanti significati è possibile dare a questa proposizione che avete affermato? Probabilmente moltissimi e allora suggerisce lui, occorre precisare il più possibile i significati di ciò che si intende dire. Domanda che talvolta accade di rivolgere a uno che vi sta parlando e cioè in che senso dice quella certa cosa, è la stessa cosa, cioè che cosa vuoi dire, che cosa significa questa cosa che stai dicendo? Evidentemente il senso non è affatto così automatico, qui Aristotele si accorge che è possibile attribuire a una proposizione un numero notevole di significati, naturalmente da buon logico taglia corto su molte questioni e taglia corto perché si troverebbe altrimenti preso in aporie infinite. Cosa gli obietterebbe qualunque sofista? Che qualunque sia la proposizione che so costruisca per spiegare la precedente subirà la stessa sorte e cioè necessiterà di una terza proposizione che spieghi la seconda, poi di una quarta che spieghi la terza, fino a quando? Fino a quando decido che va bene così, perché di fatto non c'è un criterio logico, rigoroso, preciso che mi fornisca la regola per fermarmi ad un certo punto. Questione che poi ripresa un paio di millenni dopo dai linguisti ha portato all'impossibilità, per esempio, di stabilire la comunicazione: io dico una certa cosa, che cosa ho inteso dire con questo? Io stesso, se mi mettessi a spiegare ciò che ho inteso dire potrei andare avanti all'infinito, in questo modo una comunicazione non sarà mai piena, mai garantita, sarà sempre aleatoria, provvisoria, e soprattutto parziale. Proprio in Aristotele, che è considerato non a torto uno dei più grandi logici mai esistito, proprio lì troviamo le fondamenta di tutto il disastro teoretico che ha incontrato il discorso occidentale e cioè questa impasse di cui vi dicevo forse la volta scorsa generata dalla necessità di compiere un percorso che deve essere assolutamente rigoroso, ma che muove da premesse che sono assolutamente arbitrarie, fino ad arrivare a Wittgenstein il quale a proposito della dimostrazione si chiedeva chi dimostrerà la dimostrazione? Nessuno ovviamente, è un criterio che si è stabilito in modo totalmente arbitrario. Ma fin qui non ci sarebbe nulla di male, il problema è sorto nel momento in cui si è voluto ritenere che ciò che è totalmente arbitrario fosse invece necessario. Quando ciascuno di voi compie un sillogismo, qualunque esso sia e cioè un discorso che procede da una premessa maggiore a cui aggiunge la minore e poi la conclusione, come per esempio:- Tutti gli animali sono mortali, l’uomo è un animale, ergo l’uomo è mortale.- apparentemente non fa una grinza, naturalmente questo sillogismo, che è considerato indubitabile, muove da qualche cosa la quale che procede da che? Dall’esperienza: afferma che tutti gli animali sono mortali, come lo sa? Come lo ha saputo? È una certezza. Si potrebbe dire che si è sempre verificato così, ma questo logicamente non ha nessun rilievo, assolutamente nessuno, la logica, proprio quella che Aristotele insegnava, vuole invece che perché una affermazione sia necessaria muova da una premessa necessaria e questa premessa non è necessaria, perché per renderla tale occorrerebbe che io avessi la certezza che tutti gli umani vissuti sono morti e che morranno tutti quelli che vivranno in seguito. È il problema dell’induzione: il sole è sorto questa mattina, è sorto anche ieri, è sorto anche l’altro ieri, è da moltissimo tempo che sorge, ci sono buone probabilità che sorga anche domani mattina. Sì ci sono buone probabilità, ma questo di nuovo, per un ragionamento prettamente e squisitamente logico non significa assolutamente niente, il fatto che la cosa si sia sempre verificata dice soltanto che si è sempre verificata, ma non dice nulla sul fatto che potrà verificarsi oppure no. Ora qui occorre fare una breve parentesi perché c’è sempre una sorta di oscillazione fra il discorso che vuole essere rigoroso e invece un discorso che rigoroso non può essere in nessun modo. Se ci si potesse accorgere di questo, forse le cose sarebbero più semplici. Certamente io non mi metterei a preoccuparmi del fatto che il sole possa domani mattina non sorgere, ma saprei che non è una certezza, non è logicamente una certezza. Questo direte voi cambia poco, sì e no, per quanto riguarda il sole può darsi, ma per quanto riguarda il modo di pensare invece cambia moltissimo, perché alcune cose sono considerate logicamente e assolutamente certe per lo stesso motivo per cui è certo che domani il sole sorgerà, ma questa cosa non è affatto certa, proprio per niente, e allora si muove da elementi che si ritengono certi e che tali non sono affatto e questo naturalmente da l’avvio a una serie di problemi, per quanto riguarda le conclusioni che si raggiungono e che si vogliono altrettanto certe e che invece certe non sono. Però, finché lo si crede, si costruisce la propria esistenza a partire da questi elementi che si ritengono certi, una sorta di illusione, chiamiamola così, che però costruisce ciascuna volta il discorso, lo mette in piedi e ciascun discorso avrà comunque, che lo si sappia oppure no, queste premesse che ritiene necessarie. Che Aristotele sapesse oppure no tutte queste cose poco importa, ciò che a noi interessa è ciò che scrive, non quello che avrebbe voluto scrivere, come sempre accade, ciò che si legge in Aristotele, almeno qui e comunque in molte altre parti, è un tentativo estremo di fondare la logica, di dare alla logica una dignità assoluta. Buona parte della sua ricerca volge in questa direzione, e cioè stabilire un criterio di pensiero che sia assoluto e che sia assolutamente inconfutabile, sul quale costruire un discorso che sia ineccepibile e che quindi ciascuno necessariamente sia costretto ad accogliere. Se una proposizione è necessariamente vera nessuno può obiettare nulla e quindi impone, per così dire, il consenso assoluto e totale. Adesso lasciamo perdere le implicazioni politiche rispetto a una cosa del genere, ma atteniamoci a quelle logiche per il momento. L’intoppo è che per costruire una cosa del genere Aristotele è costretto a immaginare un fondamento rigoroso e assoluto a ciò che lui stesso inventa, a una sua invenzione, dire cioè che è vero ciò che i più immaginano tale. È una sua invenzione, una sua pensata, ma il problema è stato ed è il dare dignità logica a qualcosa che è assolutamente gratuita, come giustificarla? Qui è sorto un problema che è rimasto tale e quale a tutt’oggi, e cioè come potere dare dignità a una propria opinione anziché abbandonarla come una favoletta qualunque? Dicevamo tempo fa che anche le affermazioni più serie, più pregnanti del pensiero occidentale possono essere considerate alla stregua di favolette. Avete presente Cappuccetto Rosso? Hanno la stessa dignità logica e sono credibili allo stesso modo, perché? Io non posso provare che la favola di Cappuccetto rosso sia alcunché di vero e di fondante per il discorso occidentale, posso invece provare che il discorso di Hegel è stato fondante per il discorso occidentale, ma non vero. La verità del discorso di Hegel e quella della favola di Cappuccetto rosso, è la stessa, è la stessa perché in entrambi i casi non posso stabilire un metacriterio per decidere in modo assoluto per l’una o per l’altra. Ora chiaramente mi troverei in imbarazzo nella scelta tra l’una e l’altra. Certo quella di Hegel eventualmente può offrire una maggiore articolazione, una maggiore elaborazione forse, l’altra però è più divertente, offre altri spunti. Immagino che Hegel quando scriveva la sua Fenomenologia dello Spirito non pensasse di scrivere qualcosa di aleatorio, arbitrario o personale, una sua opinione legittima quanto qualunque altra, ma forse immaginava di stabilire una sorta di regola universale, qualcosa che non poteva non essere, ma l’intoppo che abbiamo visto sorgere con Aristotele muove dalla difficoltà da una parte e dalla necessità dall’altra, di stabilire come assoluto ciò che è assolutamente gratuito, e cioè una opinione personale. Perché la necessità? Perché se non si riuscisse in qualche modo a supporre di avere data alla propria opinione personale uno statuto di verità rimarrebbe, come dicevo prima, inesorabilmente vera, e altrettanto legittimamente quanto lo sia la favola di Cappuccetto rosso. Più o meno interessante, ma questo è un altro discorso. Ma non è soltanto questo che il discorso occidentale va cercando, non che una cosa sia interessante, anzi è marginale, importa che sia vera, inesorabilmente vera. Cosa che poi ciascuno fa quando pensa, quando discute, quando parla continuamente, cercare questo criterio, questa verità e cioè quell’elemento che costringa altri incondizionatamente perché la verità ha questa prerogativa, costringe necessariamente all’assenso, ma leggiamo… aggiunge:

Le formulazioni di una ricerca possono essere universali o particolari. Sono invero universali, ad esempio, le formulazioni: “ogni piacere è un bene” e “nessun piacere è un bene”; sono per contro particolari, ad esempio, le formulazioni: “qualche piacere è un bene” e “qualche piacere non è un bene”. D’altra parte, gli schemi atti a consolidare e a demolire una formulazione universale hanno una validità comune ad entrambi i generi delle formulazioni di una ricerca: se infatti mostreremo che una determinazione appartiene ad ogni oggetto, avremo mostrato altresì che appartiene a qualcuno di essi, e similmente, se mostreremo che appartiene a nessun oggetto, avremo mostrato che non appartiene a tutti. Si deve così parlare anzitutto degli schemi atti a demolire una formulazione universale, sia perché essi hanno una validità comune alle formulazioni universali e a quelle particolari, sia perché i sostenitori di una tesi la presentano con una affermazione piuttosto che con una negazione, e tocca pertanto a coloro che discutono un’opera di demolizione.

Come dire, in termini spicci, che se io faccio una affermazione universale, cioè dico per esempio: tutti gli A sono B, e uno di voi salta su e dice no, questa A non è una B. Già avete negato la mia affermazione che è universale con una affermazione particolare, che nega un elemento. Quindi non è vero che tutti gli A sono B, basta che ce ne sia uno che non lo sia e già questa affermazione viene inficiata. Lui qui comincia ad illustrare i vari modi in cui si demoliscono le proposizioni, si demoliscono le affermazioni, perché a lui interessava costruire un sistema che possa essere utilizzato anche in ambito forense, per esempio, ma non soltanto anche in ambito così… discussivo:

Oltremodo difficile è d’altro canto il convertire – come propria dell’oggetto – la predicazione dell’accidente: in effetti, l’appartenere in modo limitato e non universalmente è possibile per i soli accidenti. Nel caso della definizione, del proprio e del genere, è certo necessario che la predicazione si converta. Ad esempio, se ad alcunché appartiene l’essere un animale terrestre bipede, sarà vero affermare con una conversione, che tale oggetto è un animale terrestre bipede. Similmente si dica per la predicazione del genere; se invero a qualcosa appartiene l’essere un animale, esso è un animale.

Sono regolette queste del ragionare comune, anche se magari leggendo vi sembra una cosa un po’ bizzarra, giustamente è difficile convertire una affermazione che riguarda un accidente, cioè qualcosa che può essere come può non essere, con qualcosa di proprio e di specifico ad una certa cosa: questo orologio ha il cinghietto marrone, quindi tutti gli orologi hanno il cinghietto marrone. No, perché il fatto che il cinghietto sia marrone è un accidente, non è il proprio della definizione di orologio, in effetti l’inghippo sta in questo, nell’attribuire a un elemento sempre e necessariamente qualcosa che necessariamente gli appartenga, come nell’esempio che ho fatto varie volte, il sillogismo degli apostoli: Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono dodici, Pietro e Paolo sono dodici… Chi ha qualche obiezione? Pietro e Paolo sono dodici o non sono dodici? Apparentemente dovrebbero essere due, ma se gli apostoli sono dodici e Pietro e Paolo sono apostoli allora sono dodici anche loro…

- Intervento:…

Certo questa è un’obiezione legittima, però il sillogismo apparentemente… Lei consideri quest’altro sillogismo: Tutti gli animali sono mortali. L’uomo è un animale, dunque l’uomo è mortale. Qualche obiezione?

- Intervento:…

No, il fatto che siano apostoli, per quanto riguarda Pietro e Paolo è un accidente, non è affatto necessario per Pietro e Paolo essere apostoli, ed essendo accidentale possono esserlo oppure no, esattamente come il cinghietto marrone nel caso dell’orologio. Infatti il sillogismo scientifico per Aristotele è quello che procede necessariamente da premesse necessarie, e allora per Aristotele il fatto che gli animali siano mortali è necessario, che Pietro e Paolo siano Apostoli non è affatto necessario, ecco perché si crea questo inghippo. Inghippo che però occorre faccia riflettere perché una quantità sterminata di conclusioni cui si giunge, più o meno consapevolmente, hanno questa struttura: “Pietro e Paolo sono apostoli. Gli apostoli sono dodici. Pietro e Paolo sono dodici”. In questo caso la bizzarria della conclusione è immediatamente evidente, in infiniti altri no, ma la struttura è esattamente la stessa e si immagina di avere concluso con una certezza assoluta, perché apparentemente il sillogismo non fa una grinza. E invece di grinze ce ne sono molte, si tratta di accorgersene:

Uno di questi schemi consiste propriamente nell'esaminare se è stato formulato come accidente ciò che appartiene in qualche altro modo all’oggetto. Quest’errore poi si verifica soprattutto riguardo ai generi, quando ad esempio uno dice che accade al bianco di essere un colore; in realtà, non accade al bianco di essere un colore, bensì il colore è il suo genere. Può darsi dunque il caso che proprio la predicazione esplicita dell’accidente sia fornita da chi pone la tesi, quando si dice ad esempio che alla giustizia tocca per accidente di essere una virtù.

In questo caso Aristotele obbietterebbe che alla giustizia non tocca affatto di essere una virtù per accidente, ma è il suo genere. Poi tutte queste forme di argomentazione così precise, rigorose, anche sofisticate per alcuni versi, sono state e sono utilizzate per confondere. Se uno obiettasse: tu utilizzi questo elemento come accidente mentre appartiene al genere. Già questo può lasciare perplessi perché non si capisce bene cosa sta dicendo, ma si immagina che stia facendo una obiezione legittima, e può anche essere che lo sia, ora questo caso per quanto remoto possa essere diventa invece interessante quando ci si confonde da sé, rispetto alle proprie deduzioni, ai propri discorsi, allora si attribuisce a qualche cosa che è un accidente, qualche cosa che accade, l’attributo di necessario e qui la cosa diventa complessa. Con necessario intendiamo ciò che non può non essere, del necessario non possiamo stabilire alcunché salvo ciò stesso che ci consente di fare queste operazioni e cioè il linguaggio, allora, sempre utilizzando la logica aristotelica, se questo allora qualunque affermazione risulta un accidente, qualunque premessa per quanto io la ritenga salda, incrollabile, indubitabile, assoluta e certa, è un accidente. Un accidente cosa vuol dire? Che può essere e può non essere, che potrebbe essere. Gli umani sono mortali, potrebbe essere, questo solo possiamo dire, niente di più, sempre naturalmente nell’ambito della logica, nell’ambito dell’opinione possiamo dire invece quello che ci pare e il suo contrario, altrettanto legittimamente… Si…

- Intervento: Se un milione di persone sono mortali, se trovo che una è mortale, ma siccome non si trova, non si può…

Si può, lo dicevo la volta scorsa, già lei non c’era, una affermazione del genere che afferma che tutti gli uomini sono mortali, se vuole essere assoluta deve avere la certezza che tutti, quelli esistiti, quelli esistenti e quelli che esisteranno, siano mortali. Ora il problema sorge nel verificare che tutti gli uomini che ci saranno da qui a cinquantamila anni saranno tutti mortali, ora a questo punto per provare una cosa del genere devo fondarmi su ciò che ho verificato nel passato, cioè fino ad oggi non si è verificato mai, che io sappia, che un uomo non sia stato mortale, questo mi autorizza ad affermare che anche in futuro sarà sempre necessariamente così, e facevo anche l’esempio del sole che sorge: il sole è sorto tutte le mattine, è sorto ieri mattina, l’altra mattina ecc. ci sono buone probabilità che sorga anche domani mattina, buone probabilità, non la certezza, la certezza è un’altra cosa, deve essere assoluta per definizione…

- Intervento:…

Qui non si tratta di stabilire la probabilità al 90% anche perché lo sa dopo che è al 90%, ma prima non lo sa, che tutti gli umani saranno mortali è un’induzione. L’induzione è una forma di inferenza particolare, sapete che ce ne sono due (tre per Peirce) la deduzione e l’induzione. La deduzione procede da qualcosa di certo e procedendo da qualche cosa di certo, di necessario, discende sempre mantenendo la stessa certezza fino al particolare… cioè io deduco quando da un elemento ne traggo un altro, il quale discende necessariamente dal precedente, cioè è contenuto, se volete metterla così, è contenuto nel precedente, (implicito). E infatti anche per Kant la ricerca deve essere necessariamente deduttiva per avere un valore assoluto, perché soltanto questo modo di inferire garantisce che si stia procedendo con certezza, perché non si aggiunge niente, la deduzione dice soltanto che cosa è necessariamente implicito in quella premessa. L’induzione invece non ha propriamente questo carattere di necessarietà che ha la deduzione, dice che una certa cosa è sempre avvenuta per cui dovrà avvenire anche in seguito, ma accogliere la induzione come criterio di inferenza è sempre molto problematico, perché è sempre confutabile: è sempre avvenuto fino ad oggi. E allora? E se domani non avviene più, sappiamo che è avvenuto fino ad oggi, va bene e con questo? Non ci garantisce nulla di ciò che potrà accadere. Poi vi racconto un altro aneddoto bizzarro, sia la deduzione che l’induzione sono dimostrabili, sono cioè procedimenti logici la cui ultima formula un teorema, bene, la deduzione è dimostrabile solo che nella dimostrazione della deduzione è necessario un passo, cioè è necessaria l’induzione, e d’altro canto per dimostrare l’induzione è necessaria la deduzione, è un gatto che si morde la coda. Ed è bizzarro che nella logica, cioè nella teoria fra le più rigorose che gli umani abbiano inventate ci siano degli intoppi di questo genere, ma ce ne sono anche di peggio…

- Intervento: abduzione?

L’abduzione sarebbe questo il una conclusione da elementi che consentono intuitivamente di sapere che cosa… di giungere intuitivamente ad una conclusione, però non offre né la garanzia di una deduzione, e non è neanche un’induzione, per esempio un’indagine poliziesca è un esempio classico di abduzione, dove da un certo numero di elementi non è possibile dedurre logicamente qualche cosa ma…

- Intervento: trarre intuitivamente da due elementi un terzo elemento

- Intervento: il mezzo statistico quello scientifico

Qui occorre distinguere fra un discorso che deve essere logico oppure probabilistico. Noi abbiamo distinto: il discorso logico non accoglie nessuna probabilità, non sa cosa farsene di ciò è probabile cioè di ciò che può essere come non può non essere. Poi si può stabilire un grado di probabilità, il criterio per stabilire questo grado di probabilità è sempre molto aleatorio e non offre di fatto nessuna garanzia. Anche la stessa statistica per altro viene sempre meno utilizzata, perché sempre meno utilizzabile, ha mostrato e mostra talmente tanti limiti da essere più un “divertissement” che un processo scientifico. In effetti l’uso della statistica è quello di prevedere, cioè di fare delle proiezioni, l’unica utilità che potrebbe avere è questa, che queste proiezioni si rivelano sempre essere o vere o false

- Intervento:…

Quasi sempre… è un criterio usato per la statistica che è discutibile. È discutibile per via del campione che prende, è discutibile per l’uso che ne fa, è discutibile per il sistema che utilizza per giungere da un campione ad una conclusione, offre talmente tante difficoltà e problemi non solo di carattere logico, tutto sommato sarebbe il meno, perché un sistema non è importante tanto che funzioni, quanto che sia credibile, che funzioni oppure no, spesso è molo marginale, però un po’ come il criterio scientifico che ha sostituito in questi ultimi secoli il discorso religioso. La certezza scientifica non offre nessuna garanzia di nessun tipo, però adesso ultimamente è creduto, anche il discorso religioso offriva garanzie assolute un po’ di secoli fa, ed era assolutamente certo, provato altrettanto indiscutibilmente. Adesso è cambiata la moda e c’è il discorso scientifico, ma la struttura non è cambiata molto. Ciò che si rileva è la difficoltà di fare coincidere qualcosa che rimane sempre probabile, possibile, con qualcosa che si immagina assoluto, certo come un ragionamento logico, e non coincidono mai e allora ecco si inventa di volta in volta una sorta di giustificazione, come dire: questo è vero perché sì. Questa è la risposta migliore che si possa dare, perché sì. Non ce ne sono di migliori.

- Intervento:…

In genere avviene così, ma quando si immagina di compiere un procedimento scientifico non si suppone che sia totalmente arbitrario e soggettivo ma sia universale è questo che si cerca di ottenere, l’universalità, l’assoluto: dio, si può chiamare anche così, ma è qui che sorgono i problemi, perché se io dico che penso in un certo modo va bene, non c’è nessun problema, il problema sorge quando di questa opinione si vuole fare un criterio assoluto. Allora si trova in difficoltà, finché dice che è una sua opinione e va bene, nessuno glielo vieta Ma questo che credo lo credo anche vero generalmente e universalmente, ché per essere una verità deve essere assoluta perché una verità parziale è una contraddizione in termini

- Intervento:..

Sì certo, certamente: Vede il problema che si è posto fino dai tempi di Aristotele è quello di definire la verità, perché occorre che io sappia che cos’è per poterla individuare una volta che l’ho raggiunta, se no come so che l’ho raggiunta, se non so che cosa è…

- Intervento:...

Se so che cosa è questo può servirmi per confrontare altre proposizioni, per verificare se sono vere. Faccio un esempio molto banale, prenda il calcolo numerico, Lei fa un’operazione piuttosto complicata per esempio, radice cubica di 127.126,9 e dice un risultato, noi non sappiamo se è vero quello che Lei ci ha detto, però possiamo saperlo, perché abbiamo un criterio che ci consente di provare questo. La verità dovrebbe servire a questo, però come dicevo prima il problema sta nel definirla e non trovando un sistema per poterla definire risulta difficile sapere se si è trovata oppure no, e qui sorge un altro problema ancora, e cioè quello della ricerca, perché dobbiamo essere sicuri che per definire la verità stiamo utilizzando il criterio giusto, perché se no definiamo un’altra cosa e quindi questo criterio deve essere vero, ma per potere fare un criterio vero ci occorre la verità che è esattamente ciò che dobbiamo cercare. Le cose possono non essere semplici. Ma la logica conduce alla verità? No, non conduce a niente, conduce unicamente, nelle migliori delle ipotesi, alla considerazione di avere compiuto un percorso attenendosi a delle regole stabilite, ciò che la logica conclude non ha un referente da qualche parte.