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1 giugno 2022

 

Aristotele Retorica

 

Potremmo iniziare considerando un aspetto: che cosa fa la retorica esattamente? Potremmo dirla in due parole, in modo sicuramente rozzo ma efficace: la retorica scommette sulla stupidità e per questo vince, vince sempre. Con stupidità qui intendo l’incapacità, l’impossibilità di pensare teoreticamente, e cioè di considerare le condizioni di affermabilità di ciò che si afferma. Chiunque si trovi a pensare teoreticamente non può venire persuaso, tutti gli altri sì. Tutti gli altri sì perché il loro pensiero è teorico, cioè è un’opinione – un’opinione è una teoria e viceversa – e, quindi, ha bisogno di fondarsi su analogie, su qualcosa che non ha nessun fondamento e che pertanto deve essere creduto. Una teoria ha questa prerogativa, muove da un quid che necessita di essere creduto per potere andare avanti, sennò non si va da nessuna parte. Il pensiero teoretico, invece, esplora proprio questa cosa che deve essere creduta e a quali condizioni possa essere affermata. È il lavoro che avevano iniziato a fare gli eleati, ma poi li hanno fermati. Vedremo qui come, in effetti, il lavoro che fa Aristotele nella Retorica non è che sia un granché, lo abbiamo già detto, dà consigli, indicazioni, ricette, ma sempre allo scopo di compiacere l’uditore, cioè di trattarlo da stupido. È per questo che dicevo: scommettere sulla stupidità, perché è ciò che fa la retorica, e per questo vince, perché l’interlocutore vuole questo. 1395b. Qui parla degli entimemi. Dà altre ricette: dice che il discorso non deve essere troppo lungo, dice che la lunghezza genera oscurità. È questo il motivo per cui di fronte alla folla risultano più convincenti gli oratori incolti di quelli colti, proprio come affermano i poeti che gli incolti “parlano alla folla più abilmente”; gli incolti, infatti, utilizzano i luoghi comuni e parlano in termini generali, gli altri parlano di quello che sanno e che li riguarda da vicino. Se un parla di ciò che sa e l’altro non sa, si sente in difetto e, quindi, lo mal dispone, per cui si trova mal disposto nei confronti dell’oratore; se, invece, parla come parlo io, ecco che “è uno dei nostri”. Questo è efficace, è una sorta di captatio benevolentiæ, nel senso che ben dispone l’uditore perché si sente protetto rispetto a ciò che ignora, si sente protetto rispetto alla sua ignoranza. È per questo che apprezza il discorso dell’altro, perché non lo mette a disagio ma lo fa sentire a casa sua.

Intervento: Non lo fa sentire ignorante.

Sì. È per questo che Socrate si era inimicato mezza Grecia. 1397a. Un “luogo” degli entimemi dimostrativi è quello che si basa sui contrari: si deve considerare se il predicato opposto è vero per un contrario, confutando l’argomento se non lo è, confermandolo se lo è, affermando, ad esempio, che essere temperanti è un bene, poiché l’intemperanza è dannosa. Oppure, come nel Messeniaco: “se la guerra è la causa dei presenti mali, si deve rimediare con la pace”. Oppure: Ma se tra i mortali i discorsi falsi sono persuasivi… Perché un discorso falso è persuasivo? Perché è stato costruito per essere creduto, quindi, risulta più facilmente credibile di un racconto che, invece, non è stato costruito per essere creduto. …devi considerare anche il contrario, / che molte verità risultano incredibili per i mortali. Mentre il discorso falso è costruito apposta per essere creduto. 1398a. (8) Un altro “luogo” è quello che deriva dai diversi significati di una parola, come si è detto nei Topici a proposito del loro uso corretto. Uno può attribuire a una parola il significato che in quel momento gli è più favorevole. Come vedete, si tratta sempre di banalità, ma non è casuale che si tratti di banalità. Lui lo dice: la banalità è ciò che persuade. Per questo vi ho detto all’inizio che la retorica scommette sulla stupidità e vince. Qui Aristotele fa una lista lunghissima di banalità, sono tutte cose che dicono molto poco, se non che i più pensano così. Un altro esempio banale. 1399a. (13) Un altro “luogo” consiste nell’esortare o nel dissuadere, nell’accusare o nel difendere sulla base della conseguenza, dal momento che nella maggior parte dei casi succede che da una stessa cosa provengano una conseguenza positiva e una negativa. Ad esempio: “L’educazione ha come conseguenza negativa l’essere invidiati, come conseguenza positiva l’essere sapienti: pertanto, un uomo non dovrebbe essere educato, perché dovrebbe non essere invidiato; ma dovrebbe essere educato, perché dovrebbe essere sapiente”. Questo “luogo” costituisce la tecnica di Callippo, includendo insieme il “luogo” del possibile e gli altri di cui si è detto. È un’altra banalità, ma che cosa ci mostra? Che ciascuna parola, che ciascun luogo, è autocontraddittorio, ma questo non viene da Aristotele. Quanto meno Aristotele ha intravista la questione, ma non l’ha proseguita. Ciascun elemento linguistico è autocontraddittorio, cioè è vero a condizione di essere falso, è quello che è a condizione di non essere quello che è. La contraddizione è ciò che fa funzionare il linguaggio. Questo lo aveva inteso Hegel, perché, se dico A è B, è da questa contraddizione, per cui dico che A è un’altra cosa rispetto ad A, che si produce di fatto la A. In questo movimento, che Hegel chiama dialettico, dialettico in un’accezione diversa da quella che intendeva Platone: per Hegel è questo movimento, mentre per Platone è la ricerca dell’ente in quanto tale. È questa contraddizione che produce il primo momento della contraddizione (la A), quello che deve essere posto, che inizialmente si pone ma che, di fatto, non è posto finché non c’è la B, finché non c’è il secondo. Questo lo aveva inteso bene Hegel: il primo, sì, è primo, ma di fatto è il secondo in questo movimento dialettico. Potremmo dire che è primo cronologicamente, ma significa poco: è il secondo che determina il primo, se non c’è il secondo non c’è neanche il primo. Infatti, la B dice che cosa è la A, che è B, appunto. Chiaramente, qui Aristotele non parla di queste cose, è abbastanza lontano da questo, anche se, quando nella Metafisica parla di δύναμις e ἐνέργεια pone la questione: non c’è l’atto senza la potenza, ed è l’atto che decide che la potenza esiste. È la stessa cosa, però non se ne avvede, essendo troppo preso dall’idea di dover catalogare tutto. Non poteva porla su un piano linguistico, certo, però aveva tutti gli elementi per intendere che un elemento, ciò che si pone, può porsi soltanto se c’è qualche cosa che il primo non è, perché l’atto non è la potenza. Infatti, lui li tiene ben distinti, chiaramente: la potenza è una cosa e l’atto un’altra, ma senza l’atto non c’è potenza, senza il secondo non c’è il primo, quindi, è il secondo che determina il primo. Quindi, ciò che qui continua a ripetere è che ciascun elemento, certo, è equivoco, ma equivoco perché sorge da una contraddizione che lo fa esistere, perché è questo il punto: è la contraddizione che fa esistere ciascun elemento, il quale vive di questa contraddizione; senza questa contraddizione, potremmo dirla con Hegel, senza la dialettica, senza questo movimento, non ci sarebbe linguaggio, perché il linguaggio è così che funziona, e se tolgo questo tolgo il linguaggio. 1400b. Gli entimemi confutativi riscuotono più successo di quelli dimostrativi in quanto l’entimema confutativo consiste in uno stretto accostamento di opposti, e quando sono l’uno accanto all’altro essi per l’ascoltatore risultano più evidenti. Che è anche vero, ma non è questo il motivo, che tra poco diremo. Tra tutti gli entimemi, sia confutativi che dimostrativi, vengono applauditi in modo particolare quelli che gli ascoltatori fin dall’inizio riescono a prevedere senza che siano superficiali (nell’anticipare le conclusioni essi si compiacciono di se stessi),… Guarda come sono bravo che stavo pensando quello che lui stava per dire! Non si rende conto che lui stava per dire quella cosa non casualmente, ma proprio perché lui pensasse esattamente questo, e cioè: guarda come sono bravo, ho previsto quello che lui stava per dire! …e quelli per comprendere i quali essi devono attendere tanto quanto basta perché siano pronunciati. Dicevo che non è tanto questo il motivo per cui gli opposti risultano più evidenti. Sì, è vero anche questo, ma l’opposto dà molta più soddisfazione perché mostra immediatamente il nemico, ciò che non è, ciò che non vale; Platone avrebbe detto i molti, cioè il male. Mostra immediatamente il male, dice esattamente in quel momento che cosa è il male e, quindi, io sono dalla parte del bene, dalla parte dei giusti e sono dalla parte dei giusti perché so dove sta il male. È questo che rende l’entimema confutativo molto più gradevole da essere ascoltato per l’uditore, rispetto a un entimema dimostrativo, che dimostra come stanno le cose, ecc. Sì, va bene anche questo ma, in effetti, Aristotele lo rileva, quello confutativo mi indica subito dove sta il male o, il più delle volte, dove l’altro sbaglia; il che prevede prima che ci sia un qualcuno che sbaglia, e secondo l’aver individuato il suo errore, quindi, poterlo correggere, quindi, sentirmi in condizione di aiutarlo, salvarlo, sostenerlo, educarlo. Poiché è possibile che un argomento costituisca realmente un sillogismo, mentre un altro sembra esserlo ma non lo è, anche per quanto riguarda l’entimema esso potrà essere reale o apparente, dal momento che l’entimema è una forma di sillogismo. /…/ Per creare attraverso lo stile l’impressione di un ragionamento sillogistico è utile pronunciare i punti essenziali di numerosi sillogismi, ad esempio “Salvò alcuni, vendicò altri, liberò i Greci”… Retoricamente questa figura è un asindeto. L’asindeto è una figura retorica molto efficace, impedisce di pensare e, quindi, è una delle figure più apprezzate. L’esempio più tradizionale, che trovate in tutti i manuali di retorica, è questo: “Ho parlato, avete ascoltato, sapete, giudicate!”. Capite subito la rapida successione di elementi, dove si impedisce di pensare se le cose sono veramente così, perché ho parlato, avete ascoltato, e questo è vero, ma il passaggio al “sapete” è tutto da vedere. È vero, ti ho ascoltato, ma potresti anche avere detto un sacco di stupidaggini. E, invece, no, è una formulazione così, rapida, paratattica potremmo dire, cioè, dove vengono eliminate tutte le congiunzioni, tutti quegli elementi che servono a connettere una frase con un’altra. Questa rapidità tende a impedire di pensare, una rapidità che sembra quasi una ipotiposi, come se facesse vedere lì sul momento questi tre passaggi come inscindibili: se io ho detto voi avete necessariamente ascoltato, quindi, sapete. 1401b. (3) Un altro “luogo” consiste nel costruire o nel demolire un argomento per mezzo dell’esagerazione. Anche questo è una figura che è usata continuamente. Questo si verifica quando l’oratore amplifica l’azione, senza avere dimostrato che è stata o non è stata compiuta: ciò fa infatti apparire o che l’accusato non ha commesso il fatto, o che lo ha commesso, quando ad amplificare è l’accusatore. Non si tratta di un entimema, perché l’ascoltatore conclude erroneamente che l’accusato ha o non ha commesso il fatto, senza che ciò sia dimostrato. Avete presente l’esagerazione? Quanti morti ha fatto oggi il Covid? Cento. No, cento milioni. Ovviamente è un’esagerazione, ma qual è l’intento? Gettare discredito sull’affermazione precedente, nel senso che accosta una cosa impossibile a una precedente, ritenuta vera, e induce a trasferire l’impossibile dalla seconda, che è chiaramente impossibile, alla prima. Quindi, la seconda è una scemenza, così come è la prima: questo è l’intento di questa figura retorica. 1402a. Inoltre, come accade nelle argomentazioni eristiche, un sillogismo apparente nasce dal confondere ciò che è assoluto e ciò che non è assoluto ma solo un caso particolare (ad esempio, nella dialettica dire che ciò che non è, è, poiché ciò che non è è ciò che non è; oppure che l’ignoto è noto, poiché a proposito dell’ignoto è noto che è l’ignoto); così anche nella retorica un entimema apparente si basa su ciò che non è verosimile in senso assoluto ma verosimile in un caso particolare: e ciò non è universale, come dice anche Agatone: Forse qualcuno potrebbe dire che proprio questo è verosimile, / che agli uomini accadano molte cose non verosimili. Aristotele mostra di non aver inteso bene l’eristica. Gli eristi, prendiamo per esempio Eutidemo, per citarne uno di cui abbiamo parlato recentemente leggendo Platone, non avevano in animo l’idea di compiere questa operazione per gioco, per diletto, magari anche ma non soltanto, agli eristi interessava mostrare l’impossibile che c’è nella parola, l’impossibile connesso intrinsecamente con il dire: badate che ogni volta che parlate spalancate un abisso infinito. Questo volevano dire. Gli eristi non erano altro che eleati, sofisti, non è che ci sia tutta questa differenza.

Intervento: Come il perché dei bambini: perché? perché? perché? ecc.

Certo, si può andare avanti all’infinito. Sarebbe il cattivo infinito di Hegel. Sì e no, perché comunque questo infinito, per essere pensato, deve essere posto come finito. 1402b. Dal momento che gli entimemi possono essere tratti da quattro “luoghi” – i quattro “luoghi sono: il verosimile, l’esempio la prova e il segno – e poiché gli entimemi sono tratti dal verosimile quando sono basati su ciò che comunemente è o sembra essere, dall’esempio quando sono risultato di induzione da uno o da più casi simili, ogni volta che, preso in considerazione l’universale, si conclude il particolare, dalla prova quando sono basati su ciò che è necessario e sempre esistente… La prova dovrebbe funzionare così: si parte da ciò che è necessario. Ma sappiamo bene della difficoltà di una cosa del genere. Lo stesso Aristotele si è imbattuto in questa difficoltà del sillogismo perfetto; e, infatti, è ricorso a chi? Agli dei, che vanno sempre bene, però poi Hegel ha precisata la cosa, si è accorto che il sillogismo ha a fondamento l’analogia, il sembrare. Hegel ha colto bene la questione: il sillogismo perfetto è quello che sa di non avere alcun fondamento, che sa che il sillogismo è fondato sul sembrare, sull’analogia, sul “pare che sia così, forse, chissà”. È il sillogismo che tiene conto che, di fatto, è un atto linguistico, al pari di qualunque altro. 1403a. La confutazione degli entimemi basati sugli esempi è la stessa di quella della probabilità, poiché, se abbiamo un solo fatto che non si accorda, l’argomento è confutato in quanto non necessario, anche se la maggior parte degli esempi è vera o più frequentemente vera; ma se gli esempi sono così per la maggior parte o con maggior frequenza, li si deve combattere affermando o che il presente caso non è simile, o non è nello stesso modo, o che ha una qualche differenza. È facile con degli esempi, è sempre facile produrre un controesempio. Siamo adesso al Libro III, che riguarda più lo stile. Mentre il Libro II parlava più delle emozioni che occorre suscitare, il Libro III indica come muovere l’attenzione, come spostarla a seconda di ciò che serve. Per esempio, se un oratore in una conferenza si accorge che ci sono delle persone che incominciano a sonnecchiare, ecco che allora interviene in un certo modo: intanto, alzando il tono della voce e poi dicendo che sta per dire delle cose straordinarie, importantissime, e, quindi, così recupera la loro attenzione. E questo va fatto nel momento opportuno, chiaramente, come dice anche qui Aristotele, se lo si fa all’inizio, non serve a niente, perché all’inizio sono già tutti attenti e aspettano che l’oratore incominci a parlare, quindi, è assolutamente inutile. Questo è, invece, utile nel momento in cui ci si accorge che l’uditorio, o parte di questo, vacilla. Parla poi della recitazione, che è una delle cinque parti della retorica, che sono: Inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio. L’inventio riguarda il sapere cosa dire. La dispositio riguarda il disporre queste cose nel modo più opportuno, per cui è chiaro che una cosa importante la conservo per un momento importante, non la dico subito, anche perché, se la dico subito, chi mi ascolta poi se la dimentica, quindi, deve essere detta in un momento importante e all’occasione ripetuta più volte. Poi, c’è l’elocutio, cioè, il come dire le cose, alcune cose occorre dirle con voce più stentorea, più forte, quasi a sottolineare la straordinaria importanza di quelle cose, che non possono essere dette sottovoce, devono essere gridate al mondo, è questo il messaggio che si vuole fare passare. C’è poi la memoria, che oggi non si usa più, sarebbe il memorizzare il discorso, cosa che aveva una sua funzione a quel tempo, perché se io conosco il discorso a memoria non devo sforzarmi di mettere in ordine le cose, è già tutto pronto e, quindi, posso dedicare tutta la mia attenzione al pubblico, a vedere come reagisce il pubblico, a modificarne le reazioni, in definitiva, a manipolare il pubblico. Da ultimo c’è l’actio, l’azione, l’agire; era il gesto, che allora era importante perché non c’erano molti altri strumenti, adesso c’è l’immagine: vi ho spiegato alcune cose, adesso vi mostro la fotografia, ecc. Dice che lo stile deve essere tendenzialmente uno stile umile, ma in alcuni casi deve essere solenne. Cosa fa la Chiesa cattolica? Predica l’umiltà, ma da dove la predica? Da chiese che sono di uno sfarzo impensabile, di una solennità incredibile. Ma questi due momenti sono importanti entrambi, cioè, il proporre l’umiltà, quindi dire che cosa devono fare, ma dirlo da una posizione di assoluta autorità, come se fosse Dio stesso che parla, per cui, ecco lo sfarzo, la ricchezza, ecc. 1404b. Gli uomini infatti provano di fronte allo stile la stessa sensazione che provano di fronte agli stranieri e ai concittadini: si deve di conseguenza rendere esotico il linguaggio, poiché gli uomini ammirano ciò che è lontano, e ciò che provoca meraviglia è piacevole. Non necessariamente, però dice che uomini gradiscono ciò che viene da lontano. Perché? Perché sono nuovi enti da dominare e l’oratore deve fare in modo che loro credano di poterli dominare. Ecco che allora rende il tutto non soltanto gradevole ma anche assolutamente soddisfacente. Si fanno delle volte delle gare di retorica su argomenti stupidissimi, ma provate a pensare a una gara di retorica seria: siete di fronte a un gruppo di persone normalissime. Bene, voi dovete persuadere queste persone che Hitler è stato, forse, quasi sicuramente, il più grande statista mai esistito, che ha fatto benissimo a fare quello che ha fatto, che non poteva fare differentemente e dovete fare in modo che tutti quelli che usciranno da quella sala siano diventati nazisti. Basta che una sola persona, che esce da quella sala, che non sia un convinto nazista e avete perso. Questa è una sfida retorica come si deve. 1404b. Parla della metafora. Ne è prova il fatto che è soltanto di queste che tutti si servono: tutti infatti parlano per mezzo di metafore e di parole usate in senso proprio e comune, e di conseguenza è evidente che se un oratore compone bene vi sarà un che di esotico nello stile, ma l’arte non sarà notata e vi sarà chiarezza. Questa, si è detto, è la virtù del discorso retorico. Tra i nomi, per il sofista sono utili gli omonimi (è grazie ad essi che lavora d’astuzia), per il poeta i sinonimi. Quindi, usare un discorso, solenne e pieno di metafore, ecc., ma anche posto in modo naturale, facendo apparire queste metafore, che sono studiate a tavolino, come la cosa più naturale del mondo. Questo porterà l’ascoltatore ad accogliere la metafora e, accogliendo la metafora, ad accogliere la similitudine; accogliendo la similitudine, lo portate dove volete che lui vada. Perché se è accolta questa similitudine vuole dire che l’uditore si è già spostato su quell’elemento che voglio che lui accolga. 1405a. Si dovranno pronunciare epiteti (massime) e metafore appropriati, e questo deriverà dall’analogia. 1406a. Di conseguenza, utilizzando in modo inappropriato un linguaggio poetico, rendono lo stile ridicolo… Ce l’ha con qualcuno dei suoi tempi che usava un linguaggio poetico nelle arringhe. È chiaro che non funziona il linguaggio poetico nelle arringhe, e adesso ci dirà perché. …e freddo, e anche oscuro a causa della loro verbosità, poiché, quando si accumulano parole su parole di fronte a chi già comprende, si demolisce la chiarezza oscurandola. Questa è un’avvertenza che lui propone agli oratori, ma può anche essere utilizzata volontariamente, proprio per ottenere quel risultato che lui dice non deve essere prodotto; si demolisce la chiarezza oscurandola, quindi, se l’intento è quello di oscurare le cose, ecco che allora si dicono tantissime cose. Questa tecnica oggi viene utilizzata non tanto nelle arringhe pubbliche, ma viene utilizzata dai mezzi di comunicazione di massa inondando l’utente di informazioni, che utilizza queste informazioni perché pensa di venire a sapere qualcosa; gli fornisce così informazioni tra loro contraddittorie, quindi contrarie, oscurando all’inverosimile l’informazione. Il risultato è rendere l’interlocutore, in questo caso la massa interlocutrice, assolutamente priva di riferimenti e, quindi, desiderosa di qualcuno o di qualcosa che gli fornisca questi riferimenti; deve sapere come stanno le cose e, quindi, ha bisogno di qualcuno che glielo dica. È una preparazione, naturalmente, a questa fase in cui le persone, la massa, che non è critica in questo caso perché non critica niente, è in attesa di qualcuno che dica come stanno le cose, perché in quel momento lì è disorientata, poiché viene a sapere tutto e il contrario di tutto. Questa è una tecnica nota e antichissima, il fornire false informazioni, cosa che nelle guerre si è sempre usata, pensate allo spionaggio e al famoso controspionaggio: fornire volutamente al nemico informazioni false in modo da mandarlo da un’altra parte. È una tecnica vecchia come il mondo. Chiaramente, oggi con la tecnologia è possibile metterla in atto in modo più ampio, più amplificato, enfatizzato. 1406b. Anche la similitudine è una forma di metafora: la differenza è infatti piccola. Quando il poeta dice che Achille “si lanciò come un leone” si tratta di una similitudine, quando invece dice “il leone si lanciò” è una metafora… Trovate in tutti i manuali di retorica “Don Abbondio non era certo un cuor di leone”, che non è una similitudine, non c’è il “come”, ma è una metafora, cioè si attribuisce a Don Abbondio il non avere un cuore di leone. L’accostare il coraggio a un cuore di leone è un’iperbole, è un’altra figura retorica; come sappiamo, ogni figura retorica ne racchiude parecchie all’interno di sé. 1407a. Un primo elemento, dunque, è la correttezza nell’uso delle correlazioni; un secondo consiste nel parlare con termini propri e non con perifrasi;… Perché sono troppo lunghe. …terzo, evitare i termini ambigui – questo vale se non si ricerca l’effetto opposto, che è quel che si fa quado non si ha nulla da dire ma si finge di dire qualcosa. Così sono coloro che si esprimono in poesia, come Empedocle: i lunghi giri di parole ingannano e gli ascoltatori provano la stessa sensazione della maggior parte di coloro che ascoltano gli indovini: quando costoro pronunciano parole ambigue, approvano: Attraversando l’Alis, Creso distruggerà un grande impero. Gli indovini parlano in termini generali delle questioni, poiché in questo modo vi è nel complesso minor possibilità di errore. Si coglierà nel giusto, giocando a pari e dispari, dicendo pari o dispari piuttosto che una cifra precisa, e lo stesso discorso vale se si dirà che una cosa accadrà piuttosto che quando, e di conseguenza gli indovini non definiscono il momento. 1408a. Uno stile appropriato rende credibile la questione, poiché l’anima degli ascoltatori trae false conclusioni, come se l’oratore stesse dicendo la verità, poiché essi provano le stesse disposizioni in tali circostanze, e di conseguenza credono che le cose stiano come dice chi parla, anche se non stanno così, e l’ascoltatore compartecipa sempre dell’emozione dell’oratore, anche se costui non dice nulla. Qui lo dice molto chiaramente: è necessario che l’oratore faccia credere che le cose stiano così come lui dice; tutta la retorica è volta a questo, a fare credere che sia possibile determinare l’ente e, quindi, dominarlo; senza questo la retorica crolla come un castello di carte. Ecco perché ho esordito dicendo che la retorica è una scommessa sulla stupidità, cioè scommette sul fatto che nessuno sia in condizioni di rendersi conto che l’ente non è dominabile, perché l’ente in quanto tale non è conoscibile se non attraverso il non-ente, e questo Platone lo sapeva, e lo sapeva anche Aristotele. Aristotele era infingardo e ingannatore; d’altra parte, lui dice qui come si inganna e, quindi, non poteva fare altrimenti: come si inganna? si inganna facendo credere di volta in volta, sollevando emozioni. Che cos’è l’emozione? È la sensazione che si prova nel momento in cui si domina l’ente; questa è la soddisfazione e l’emozione è sempre connessa con la soddisfazione. È accaduto così come io pensavo che accadesse, questa è la tipica soddisfazione: finalmente è accaduto questo. Come la fanciullina che dice: finalmente mi ha dato un bacio! Finalmente è accaduto ciò che io speravo accadesse, quindi, lo controllo, lo domino, finalmente adesso è mio. La fanciullina pensa così, non è che faccia grandi pensieri teoretici. Gli ascoltatori vengono impressionati anche da espressioni che i logografi utilizzano a sazietà, come “Chi non lo sa?”, “Tutti sanno…”, perché l’ascoltatore, per un senso di vergogna (ecco lo scommettere sulla stupidità), si riconosce in accordo con l’oratore, per potere condividere quello d cui tutti gli altri sono partecipi. Tutti pensano così, non possono essere solo io quello furbo: tutti gli altri sono scemi e io quello furbo? No, semmai è il contrario e, quindi, farò come fanno tutti. 1410a. Questo genere di stile è piacevole, poiché i contrari sono assai facili da comprendere, e ancor più comprensibili quando posti a contatto… Abbiamo visto perché i contrari sono così appetibili dall’ascoltatore, perché li desidera così tanto: perché mostra subito qual è il male, qual è lo sbaglio, qual è l’errore, qual è la cosa che lui ha l’autorità e, a questo punto, l’autorizzazione di colpire. 1411b. Un altro esempio: “esercitarsi in ogni modo a umiliarsi”. Qui evidentemente ce l’aveva con qualcuno, che gli diceva di esercitarsi in ogni modo a umiliarsi, e questo tanto si umiliava che doveva essersi esercitato moltissimo. /…/ …rendere animati gli oggetti inanimati… Serve a dare maggiore forza, come se l’oggetto inanimato avesse una volontà, quella volontà di andare nella direzione che io voglio che prenda, come dire: anche le pietre, se potessero, farebbero questo, non solo gli uomini onesti, quali voi siete. Parla poi dell’asindeto, ma ne abbiamo già detto, quando facevamo l’esempio: ho parlato, avete ascoltato, sapete, giudicate. È implicito in questo il fatto che non potete giudicare altrimenti da come io voglio, perché avete ascoltato, e se avete ascoltato, e voi avete ascoltato, allora sapete. Vedete come funziona l’asindeto, funziona attraverso la rapidità della connessione che elude il pensiero, lo rende quasi inutile, attraverso quella figura nota come ipotiposi: mostra, fa vedere queste cose che sta dicendo e che sta mettendo in rapida successione, come se fossero lì, presenti. L’ultima cosa, 1419b. Per quanto riguarda il ridicolo, dal momento che esso sembra essere di una certa utilità nei dibattiti, e Gorgia disse che è necessario demolire la serietà dell’avversario con il riso e il riso con la serietà – e dice bene –, le differenti specie di ridicolo sono state esposte nella Poetica, delle quali alcune sono adatte a un uomo libero, altre no. Qui, però, gli sfugge tutta la questione del ridicolo. Perché è così potente il ridicolo? Perché ridicolizzare qualcuno è togliergli totalmente ogni potere, che passa attraverso la credibilità, la dignità, la serietà. È come se lo si denudasse di ogni possibilità di proseguire a parlare. Una persona che è stata ridicolizzata è come se venisse uccisa ridicolizzandola, non può più sollevarsi; a meno che non sia sufficientemente abile da trasformare questo ridicolo in qualcosa di molto serio. E, allora, sì, ottiene un risultato straordinario, perché è come se mostrasse che la colpa è del suo avversario, che parla ridicolmente di cose che invece sono serissime e degne della massima serietà. E questo basti per quanto riguarda Aristotele.