1 maggio 2024
Aristotele Fisica
Capitolo decimo. 241a, 26. Né c’è alcun cangiamento infinito: infatti, si dimostrò che ogni cangiamento si attua passando da un termine iniziale a un termine finale, tanto il cangiamento che si attua nella contraddizione, quanto quello che si attua nei contrari. Sicché, dei cangiamenti per contraddizione i limiti sono l’affermazione e la negazione (ad esempio, della generazione il limite è l’essere, della corruzione il non-essere); dei cangiamenti nei contrari i limiti sono i contrari stessi, perché essi sono gli estremi del cangiamento. 241b, 2. Anche lo spostamento è finito, ma non allo stesso modo, giacché non ogni spostamento si attua nei contrari. Ma, come ciò che non può essere tagliato è tale per la stessa impossibilità che si possa averlo tagliato (e l’impossibile si predica in parecchi sensi), così non si può ammettere che si possa aver tagliato quello che non può essere tagliato, né insomma, si può ammettere che si generi ciò che non ha la potenza di essere generato; né ciò che non ha potenza di aver cangiato potrebbe attuare il cangiamento in un termine finale impossibile. Se, pertanto, l’oggetto spostato stesse attuando il cangiamento in qualcosa, avrebbe anche la potenza di cangiare. La conclusione è che il movimento non è infinito, né vi può essere spostamento lungo una distanza infinita, perché sarebbe impossibile percorrerla. Dunque, è chiaro che non vi è cangiamento infinito, ossia tale che non sia definito da limiti. Ci sta dicendo, fra le altre cose, una cosa importante, che riguarda la potenza e l’atto. Ci sta dicendo che ciò che è in potenza e anche necessariamente in atto, e anche ciò che è in atto è necessariamente in potenza. E questa è una cosa importante e la riprenderà. Saltiamo il Libro settimo perché non ci interessa un granché. Lui fa soltanto una lista di tutti i possibili mutamenti del movimento, e questo non è di grande interesse. Passiamo, dunque, al Libro ottavo. Inizia ponendosi una domanda. Forse che una volta è nato il movimento, mentre prima non c’era, e poi esso deve finire un’altra volta, sicché nulla più si muoverà? Se si ferma tutto, che facciamo? Ovvero né nacque né finisce, ma sempre fu e sempre sarà, e questa cosa, senza mai morire e senza mai cessare, sussiste negli enti, come una vita diffusa per le cose che tutte insieme esistono per natura? Adesso fa un brevissimo excursus dei filosofi che lo hanno preceduto. Intanto, tutti quelli che dicono qualcosa intorno alla natura, affermano che il movimento esiste, per il solo fatto che hanno meditato sul mondo e hanno speculativamente affrontato il problema della generazione e della corruzione, le quali sarebbero impossibili se non ci fosse un movimento. Quanti, poi, affermano che infiniti sono i mondi, e che trai mondi alcuni nascono, altri periscono, dicono pur sempre che c’è un movimento (infatti, necessariamente le generazioni e le corruzioni sono accompagnate dal movimento di quei mondi); quanti, invece, sostengono che il mondo è uno, sia esso eterno o non eterno, anche intorno al moto suggeriscono ipotesi conformi al loro pensiero. Se si ammette l’esistenza di un tempo in cui nulla sia mosso, necessariamente bisogna ammettere che il moto si attui in due maniere: o come afferma Anassagora (egli, infatti, dice che essendo tutte le cose insieme e stando insieme in quiete per il tempo infinito, l’Intelletto creò un movimento entro di loro e le distinse), ovvero come vuole Empedocle, che per un certo tempo, cioè, le cose si muovono, quando l’Amicizia del molteplice crea l’un o anche quando la Contesa dall’uno crea i molti, mentre permangono in quiete nei tempi intermedi, ossia, come egli dice:
Proprio nel modo in cui l’uno impara a generarsi da molti,
e poi divisosi l’uno, i molti si vanno compiendo,
proprio in tal guisa essi nascono, né il tempo è per loro d’impaccio;
quinci nessuna sosta sospende quel loro mutarsi,
quindi per sempre essi immobili permangono dentro allo sfero.
E bisogna supporre che egli usi l’espressione “quinci… quel loro mutarsi” per significare appunto quella provenienza che dicevamo. Ciò che sta enunciando è ovviamente il problema dell’uno e dei molti. Anche l’Amicizia e la Contesa sono delle metafore: l’Amicizia unisce, fa uno, la Contesa separa. 251b. Ma tutte le cose che hanno la potenza di agire e di patire, ovvero di muovere e di essere mosse, non hanno tale potenza in qualsiasi modo, ma solo in un senso determinato e accostandosi reciprocamente. Sicché, quando si accostano, l’una muove e l’altra è mossa, e ciò avviene proprio quando si verificano le condizioni che l’una sia motrice, l’altra mobile. Se, intanto, il movimento non fosse eterno, evidentemente esse non si troverebbero in tali condizioni da poter l’una essere mossa e l’altra muovere, ma sarebbe necessario che una delle due subisse un cangiamento. E questo necessariamente accade nelle cose relative; ad esempio, il fatto che una cosa prima non era doppia e poi doppia, presuppone necessariamente il cangiamento di uno dei due termini relativi, anche se non cangiano entrambi. Ci sarà, dunque, un cangiamento anteriore al primo. Comincia a porre la questione della relazione, ma per intendere bene la questione che pone nel libro ottavo occorre tornare indietro e vedere come definì il movimento, nella presupposizione che non tutti tra voi ricordano a memoria tutto ciò che dice nel Libro terzo, per cui andiamo a rileggere. Libro terzo, 201a, 10. Ma noi abbiamo distinto all'interno di ciascun genere l'essere in potenza e l'essere in atto. Il movimento è appunto l'atto di ciò che è in potenza, così l'alterazione è l'atto di ciò che è alterabile in quanto tale. Infatti, qui parla di entelechia, dell’atto, del compiuto. Che proprio in questo consiste il movimento risulta da ciò: il trovarsi in atto di una cosa edificabile riconosciuta come tale consisterebbe nell'essere in costruzione, cioè nell'opera in corso. 201b, 5. Non c'è dubbio che in questo consista il movimento, e cioè che si verifichi l'azione del muoversi quando ci sia l'atto, proprio quel determinato atto, né un po prima né un po’ dopo. Dunque, sta dicendo che il movimento è entelechia. Dire che il movimento è entelechia vuol dire che il movimento c'è tra un elemento e la sua determinazione: l'elemento è ciò che la sua determinazione dice che è. Ma questi due non possono essere separati in nessun modo, è il λέγειν τί, non possiamo separarli in nessun modo. Perché qui lui dice con assoluta precisione che il movimento è questo, però poi non prosegue lungo questa linea direttiva. Sarebbe stata invece oltremodo significativa; invece, dice solo quello, e cioè che il movimento è entelechia. E, infatti, poi non ne ha più parlato. Però, lo dice, lo dice con estrema precisione. Ciò che a lui interessa qui è giungere alla questione del motore immoto, come è notissimo. Libro ottavo, capitolo 4 255a, 35. Quando ciò che può agire e ciò che può subire si trovano insieme, inevitabilmente quello che è in potenza va in atto. Ma, ad esempio, un discente passa da una certa potenzialità ad un'altra, e quando si trova in questa condizione, in assenza di ostacoli, la realizza ed eccolo investigare. Oppure, al contrario, non la mette in atto e quindi sarà nella non conoscenza. Ciò che può agire e ciò che può subire, si trovano insieme. A questo punto, quello che è in potenza va in atto. Ciò che in potenza determina una direzione, è in potenza relativamente a qualche cosa. C'è questo qualche cosa e questo qualche cosa, potremmo anche dire, non può non esserci se c'è quello in potenza, perché è lui, è sempre lui, solo che è in potenza, ma c'è già. E questo è un discorso che lui riprende qualche pagina dopo, quando parla del primo motore, il semovente
Intervento: È come se avesse detto della questione del primo segno, del numero.
Sì, per gli antichi, come diceva prima. Il primo numero è l'uno, che è indivisibile perché l'uno rappresenta il primo e basta. Però se invece lo poniamo come numero semplicemente tra gli altri, allora prima dell'uno c'è lo 0,5, e prima dello 0,5? Lo 0,25. E prima dello 0 25? Come dire che non c’è il primo numero. Questa è la questione. Capitolo sei. Poiché il movimento deve esistere senza interruzioni, ci sarà necessariamente qualcosa di eterno, non importa se uno o molti di numero, che muova per primo. Il primo motore è immobile. Non è ininfluente per il ragionamento in corso che ciascuno dei motori immobili sia eterno, e invece a chi fa ricerca secondo questo metodo non sfugge la necessità di un essere di per sé immobile ed estraneo a ogni forma di mutamento, sia in senso proprio sia per accidente, però capace di muovere qualche cos'altro. La sostanza delle argomentazioni di Aristotele non è altro che questa: se qualcosa si muove, c'è qualche cosa che l'ha mosso, necessariamente. Ma se andiamo avanti così, andiamo avanti all'infinito, non ci fermiamo mai, quindi per qualche parte dobbiamo fermarci. E qui torna il terzo libro: questo primo motore immoto, che è l’entelechia, è immobile nel senso che l’entelechia di per sé non va da nessuna parte, ma è lei che determina il movimento tra i due contrari. Il movimento è determinato dall'elemento e dalle sue determinazioni. Le determinazioni sono altro rispetto al primo elemento. E questa alterità è ciò che consente quello che chiamiamo movimento continuo. Un movimento continuo. Infatti lui dopo dirà - questa è una questione presente per gli antichi - il movimento perfetto è quello circolare. Adesso lo dirà: perché quello rettilineo ad un certo punto, se deve essere continuo, deve fermarsi e tornare indietro e, quindi, sarà un movimento interrotto, mentre quella circolare non trova interruzioni. Ma la questione del movimento circolare, che si può intendere anche con una metafora, in effetti: tra la potenza e l'atto che tipo di movimento c'è? È quello circolare, perché non c'è la potenza senza l'atto, e l'atto non c'è senza la potenza, e la quale potenza non c'è senza l'atto, e l'atto non c'è senza la potenza, e la potenza non c'è senza l'’atto. Andiamo avanti ancora? No. Bene. Ecco la figura del movimento circolante, che non si ferma mai, perché questo muoversi dall'uno all'altro è ininterrotto e continuo. Non c'è un momento in cui si interrompe, per cui ciò che dico nel dire si può sganciare dal dire; no, sono sempre co-appartenentesi, necessariamente. 259a. A tal punto è chiaro che, se pure innumerevoli volte, alcuni dei motori immobili, nonché molte delle cose che si muovono da sé, si distruggono e altrettanti si rigenerano. E questo dato ente immobile muove questa data realtà e un'altra un'altra, che nondimeno qualcosa che ne comprende tutti e che si distingue da ciascun altro. Esso è la causa sia dell'esserci di alcune, sia del non esserci di altre, e pure del cambiamento continuo, di modo che un tale motore sarà causa del movimento per dati esseri ed essi, a loro volta, lo saranno per altri ancora. Ritorna l'idea in qualche cosa che li comprende e comprendendole comprende il movimento. 259b. Siamo giunti ad assumere che il principio delle forme mosse, proprio in quanto principio di cose mosse, si muove da sé, e, invece, in quanto principio di tutte le cose, è immobile. Il linguaggio, potremmo dire, come principio di tutte le cose. Il linguaggio di per sé è immobile? Nel senso che non va nessuna parte, è qui sempre; in questo senso è eterno, non può non esserci, ed è la causa del movimento di tutto, cioè della parola, del pensiero, cioè, dell’arte, della scienza, di qualsiasi cosa. Qui ho segnato una cosa che è emblematica nel modo in cui pensa Aristotele e sul suo rigore assoluto. 260b, 23. Siccome ammettiamo che il meglio sussista sempre in natura, ogni volta che si può ammettiamo che possa esserci il continuo. Per ora ci limitiamo a supporlo, ma in seguito ne forniremo la prova. E poiché null'altro che la traslazione può essere continua, è necessario che essa sia prima. Quindi, si parte dal fatto che si assume che il meglio sussista sempre in natura. Perché? Chi l’ha detto? Siamo al capitolo 8, che è quello forse più interessante. Non può esserci un movimento rettilineo, uno infinito e continuo. Affermiamo che è possibile l'esistenza di un moto infinito, uno e continuo, e che tale movimento è quello circolare. Infatti, ogni cosa soggetta alla traslazione o si muove circolarmente oppure di moto rettilineo o misto. In tal senso, se nessuno dei primi due moti è continuo, neppure quello che è la somma dei due può essere tale. Ora, è evidente che la traslazione in linea retta illimitata non può realizzarsi in modo continuo, perché essa si volge indietro e ciò che inverte la direzione sulla linea retta si muove di moti contrari. Prima si è definito qual è il movimento uno e continuo, ossia quello di un solo corpo e in un unico tempo, e che non comporta differenze di specie. Si tratta, in effetti, di tre componenti: ciò che si muove, uomo; quando, cioè il tempo, e terzo, il ciò in cui, cioè, il luogo o l'affezione o la specie o la grandezza.
Intervento: …
Sì, perché questo momento circolare, in effetti, è il movimento dell’entelechia.
Intervento: E tra l'altro, come dicevamo, visto che abbiamo detto che la scienza moderna si basa sull'interpretazione neoplatonica di Aristotele, qual era lo scopo dei fisici? Quella di trovare causa prima, quella che loro chiamavano l'anima motrix.
Che Aristotele dice chiarissimamente che cos'è: è l’entelechia È il movimento tra un elemento e le sue determinazioni. 263a, 18. Poniamo che qualcuno, prescindendo dall'ampiezza della distanza e altresì dalla domanda se in un tempo infinito è possibile percorrere uno spazio infinito, trattasse di ciò solo in relazione al tempo in quanto tale. Del resto il tempo tollera infinite divisioni. Ebbene, una soluzione di tal genere non sarebbe più sufficiente, ma occorrerebbe l'obbligo di ribadire la verità, quella stessa sostenuta nei ragionamenti del primo. Infatti, se uno divide in due metà una linea continua, costui usa un punto come se fossero due, facendo di esso sia un principio che una fine. E così si comporta tanto quello che enumera quanto quello che divide a metà. Tuttavia, dopo una divisione del genere, né linea del percorso né movimento saranno più continui, perché il movimento continuo corrisponde ad un tragitto continuo. Ora, sarà pur vero che nel continuo è possibile un numero infinito di metà, ma queste non in atto, bensì in potenza. E se qualcuno le portasse in atto non produrrebbe un continuum, ma una condizione di immobilità. Cosa che risulta evidente nel caso di chi conta le metà. È chiaro qui di che cosa si tratta. È in potenza. È come se dicesse – forse l’'aveva già detto altrove - come se dicesse che l'infinito, sì, c'è in potenza, ma in atto no. È così? La stessa cosa qui ci dice. Nel continuo è possibile un numero infinito di metà, ma queste non in atto, bensì in potenza. È un altro modo per dire: sì, lo posso pensare, ma non lo posso matematizzare; o. come direbbe Zenone, lo posso vedere ma non lo posso matematizzare. In effetti, questi (quello che conta la metà) effettivamente si trova costretto a contare per due il punto che è uno dal processo, da una parte sarà la fine di una metà e dall'altra parte l'inizio della successiva, sempre che naturalmente non si voglia tener conto della linea nella sua unità e continuità, ma delle due metà. In ragione di ciò, bisogna rispondere a chi pone la domanda se sia possibile percorrere un numero infinito di parti, o nel tempo o nella lunghezza, che questo in un certo senso è possibile, in un altro no.