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1 maggio 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Io dico qualche cosa. Questo qualche cosa è ciò che è perché non è tutto ciò che non è. Quindi, tutti gli altri significati devono essere posti ma tolti, perché se non li tolgo allora a quel significato rimangono a fianco tutte quelle cose che quel significato non è e, quindi, è quello che è ma anche ciò che non è, è quindi autocontraddittorio. In questo caso non posso porre il significato. Severino si riferisce a una questione puramente logica: perché una cosa sia quella che è, è necessario che non sia ciò che non è. Non è necessario che io sappia tutto ciò che quella cosa non è. Per Severino, lo diventa nel momento in cui, riguardo all’intero, devo porre tutti i significati che questo significato non è, che devono però essere manifesti, devono apparire. E, quindi, siccome non appariranno mai tutti, allora permane una contraddizione, che è la contraddizione C, la quale contraddizione verrà tolta nel momento in cui tutti i fenomeni saranno manifesti. Solo a questa condizione non c’è più la separazione tra l’intero e il fenomeno. Ciò che accade, il fenomeno, cioè, ciò che dico, non mostra tutte le cose che non sto dicendo; ci sono, ma non le mostra. Questo, per Severino, è sufficiente per creare una contraddizione. Ora, se volessimo porre una contraddizione nel discorso di Severino, ce n’è una piuttosto grossa, alla quale lui non presta attenzione. Una proposizione, che lui pone come teorema, cioè come una proposizione dimostrata, che dice che un significato è tutti i significati. Da qui vengono poi tutti i problemi legati all’intero e al fenomeno. Tuttavia, c’è un problema. Potremmo dire che il significato non è tutti i significati, comporta tutti i significati, ma non lo è perché, se lo fosse, questo significato sarebbe simultaneamente tutti gli altri significati e, di conseguenza, non sarebbe utilizzabile. La prova che un significato non è tutti i significati è il fatto che parliamo. Se parliamo allora un significato non è tutti i significati. Li comporta, certo, ma non può esserlo, e non lo è perché stiamo parlando. Quindi, quel significato è quel significato che, come dice giustamente Severino, esclude tutti gli altri significati, e, quindi, non è tutti gli altri significati: li comporta, ma non lo è. Questo è un grosso problema nel pensiero di Severino, di cui lui non si cura. Tuttavia, c’è una contraddizione notevole perché se, come dicevo prima, un significato fosse tutti i significati non sarebbe utilizzabile in nessun modo. Siccome questo teorema è ciò su cui praticamente si basa tutto il pensiero di Severino, capite che è un grosso problema. La questione della struttura originaria, cioè dell’incontraddittorio, dell’intero, ci dice che ciascun atto di parola è il concreto, l’intero, in quanto esclude tutto ciò che questo atto di parola non è. Lo pone, ovviamente, perché deve esserci, ma poi lo toglie; soltanto togliendolo l’atto di parola è quello che è. Solo a questa condizione l’intero - come dirà Hegel, che poi vedremo – è il vero, cioè l’incontraddittorio, perché l’atto di parola, per essere atto di parola, deve avere tolto tutto ciò che quell’atto di parola non è. Se io dico una cosa, questa cosa che dico non è tutte le altre cose che non dico, non ci sono perché, se ci fossero, questo atto di parola sarebbe quella cosa ma anche quell’altra, e, quindi, sarebbe autocontraddittorio. Dire che il vero è l’intero è come dire che l’intero è incontraddittorio, perché ha tolto tutto ciò che non è. Severino ha mostrato molto bene come occorre pensare, di ciò di cui occorre tenere conto pensando e, soprattutto, anche se lui non pone la questione in questi termini, ciascun atto di parola è incontraddittorio, per i motivi che prima dicevo, ma è totalmente arbitrario, potremmo dire che è nullo. Che cosa rende, invece, non nullo ciascun atto di parola? La volontà di potenza. È la volontà di potenza che dà un significato, un senso, a ciò che dico. È tra l’altro l’unico motivo per cui si parla. Severino non parla della volontà di potenza, anche se poi, di fatto, è tra le righe ovunque. La volontà di potenza non è altro che la volontà che un significato sia quel tale significato. È solo questione di volontà, nulla garantisce che sia quello. Se poi volete trovare un altro problema grosso in Severino c’è quest’altro. Se lui conclude il suo libro dicendo che fino al momento in cui non sarà presente tutto l’intero permane una contraddizione, allora, siccome questo momento non è giunto, tutto ciò che dice è autocontraddittorio, cioè è nullo; in altri termini, non ha detto niente. Se dovessimo attenerci scrupolosamente a ciò che lui stesso ci dice, dovremmo giungere a questa conclusione: che non ha detto nulla. Questo perché o si giunge a stabilire l’intero, in quanto incontraddittorio, ma per fare questo occorre che tutto l’intero sia presente, sennò l’autocontraddizione permane, e, quindi, tutto il suo discorso è nullo. A meno che non si ponga la questione come la ponevo la volta scorsa, cioè che l’intero c’è e la prova del fatto che c’è è che io posso parlare. Se non ci fosse l’intero, se non ci fossero tutte le cose che io non sto dicendo, non ci sarebbe neppure ciò che sto dicendo. Questo ci porta a una serie di considerazioni. Intanto, la priorità dell’atto di parola. Come abbiamo detto in varie occasioni, è come se tutto si giocasse lì, ciascuna volta nell’atto. Ogni volta che affermo qualcosa, questo qualcosa che sto affermando lo posso affermare solo per una volontà di potenza, cioè perché voglio che quel significato sia quel determinato significato. Non c’è altro su cui io possa fondarmi. Se lo pongo come quel significato lo pongo come incontraddittorio sennò non sarebbe quel significato. Come direbbe Severino, sto dicendo di porre qualche cosa che di fatto non pongo; se lo pongo è perché è incontraddittorio, ed è incontraddittorio perché non è tutto ciò che sto dicendo non è. Può apparire complesso ma, in effetti, tutto il percorso che fa Severino è abbastanza semplice, anche se lui insiste molto su cose che, per quanto riguarda il nostro lavoro, ci interessano solo fino a un certo punto. Però, questa idea è buona, l’idea cioè che per porre sia necessario che ciò che pongo non sia ciò che non pongo. È una questione che poneva già Parmenide: occorre che l’essere non sia non essere. C’è già tutto lì. La difficoltà sta nel poterne tenere conto e, soprattutto, nell’accorgersi che ciò che è non è ciò che non è per un atto di volontà, che sennò tutto questo non significherebbe niente. In questo aveva ragione Nietzsche: la volontà di potenza è l’essere, cioè, è ciò per cui le cose sono quelle che sono. Severino ha contribuito a porre delle riflessioni in modo più preciso, più attento, più accorto. Le stesse obiezioni, che stiamo rivolgendo a Severino, non sarebbero state possibili senza la sua articolazione, senza che lui ci avesse resi più attenti al modo in cui funzionano le inferenze. Tutto ciò è all’interno di un sistema inferenziale, che generalmente si dà per scontato, per acquisito, per naturale; però, non è naturale, è soltanto il modo in cui il linguaggio funziona. Il sistema inferenziale non è che garantisca qualche cosa. Certo, lo garantisce ma all’interno del gioco che costruisce, così come è garantito che, giocando a poker, due assi battono due sette: è garantito solo dalle regole del gioco; in questo caso dalle regole che fanno funzionare il linguaggio. Sarebbe bastato questo, cioè, il tener conto che tutte le articolazioni, conclusioni, quindi, affermazioni cui giunge Severino, sono state rese possibili dal sistema inferenziale (se a allora b) e che questo sistema inferenziale non è che venga dal nulla, è quello che consente di parlare, è ciò di cui il linguaggio è fatto, è la sua struttura. Se non si tiene conto di questo, si immagina che la conclusione di una corretta inferenza mostri uno stato delle cose. È un errore estremamente facile da fare, immaginare che ad un certo punto questo sistema inferenziale mostri le cose così come davvero stanno. No, non può fare questo, si illude di fare questo, si illude perché la volontà di potenza è molto “potente” e, quindi, fa pensare di avere il controllo: se io controllo le inferenze, cioè costruisco argomentazioni corrette, allora so come stanno le cose. Ma questo già Wittgenstein lo aveva individuato: quando giungo al teorema posso soltanto affermare di essermi attenuto scrupolosamente a delle regole che io stesso mi sono dato o che comunque ho accettato. Niente più di questo, niente a che vedere con uno stato delle cose. Il problema è che questo sistema inferenziale costruisce uno stato di cose, lo costruisce grazie alla sua struttura e alla volontà di potenza, che sono due facce della stessa cosa. Quando dicevo che la volontà di potenza è la volontà che un significato sia quel tale significato era come dire la volontà che le cose siano così come voglio che siano. È questo che dà alle cose il senso che hanno. D’altra parte, anche quella che Peirce chiamava verità pubblica non è altro che una volontà di potenza, così come la chiacchiera di Heidegger, una volontà di potenza in atto, continuamente, che vuole che le cose siano così, per poterle controllare, per poterle gestire, per poterle utilizzare. L’idea è che soltanto se posso controllarle e gestirle posso proseguire, cioè, soltanto se le cose stanno così. Il che è anche vero, il problema è che non stanno così per virtù propria, ma stanno così perché io voglio che stiano così, e quindi costruisco uno stato di cose al quale poi mi attengo necessariamente. Una volta che l’ho stabilito mi serve per potere poi andare in tutte le direzioni che voglio, ma devo avere un punto di partenza, un punto dove appoggiare il piede, e questo appoggio è dato dal significato che è quello che io voglio che sia. È una fantasia, nel senso che la volontà di potenza non è aggirabile in nessun modo perché è il funzionamento stesso del linguaggio che per funzionare deve stabilire che una certa cosa è quella, in modo incontrovertibile, perché sennò non la posso usare. Quindi, per potere continuare a parlare, devo potere usare le parole e, per poterle usare, queste parole devono avere un significato, cioè significare una certa cosa e non altro, sennò non le posso più usare, cioè non potrei più parlare. È per questo motivo che la volontà di potenza non è altro che il linguaggio stesso: il linguaggio, per potere continuare a fare quello che fa, cioè continuare a costruire proposizioni, deve di volta in volta volere che un significato, una parola sia quella che è. Potremmo dire a questo punto, riprendendo quello che dicevamo prima, che ogni affermazione, quindi, ogni atto di parola di per sé è in un certo senso nullo, cioè non affermo niente: ogni volta che affermo qualcosa non affermo niente. Se non fosse che c’è la volontà di potenza che determina il significato di quello che affermo. Togliete la volontà di potenza e le cose non significano più niente, in modo totale e irreversibile. Significano qualcosa perché io voglio che significhino qualcosa; se tolgo questo volere, mi trovo di fronte al nulla. Quindi, linguaggio e volontà di potenza, come dire: due facce della stessa cosa. Che poi non sono neanche due facce, sono propriamente la stessa cosa. Moltissimi hanno posto la questione dell’assenza di possibilità di stabilire con certezza un significato, Severino ne ha dette parecchie, ma non solo lui, tutta la storia della filosofia e della logica è piena di personaggi che hanno messo in dubbio la possibilità di significare correttamente o in modo categorico, solo che questo non impedisce di continuare a parlare. Ciò che impedisce l’arresto della parola è la volontà di potenza, che è ciò che dà significato alle cose, che dice che cosa sono le cose, che sia lista della spesa o la teoria delle stringhe: le cose significano per via della volontà di potenza, per via del fatto che per potere parlare devo, quindi voglio, che un significato sia quello che ho stabilito. Tutto il lavoro di Severino può anche essere letto in questo modo, cioè come una manifestazione della volontà di potenza che vuole che la cosa sia quella che è. Lui si accorge che perché una cosa, una parola, sia quella che è, è necessario che sia incontraddittoria, che non si autocontraddica, perché se si autocontraddicesse non sarebbe quello che dice di essere; è per questo che è necessario che sia incontraddittoria, che sia quello che è, ed è questo che io voglio: che sia quello che è. Solo a questa condizione posso usarla e andare avanti. Direi che è questa propriamente la struttura originaria: l’intero è già sempre presente, perché se non lo fosse io non potrei parlare. La prova è che io sto parlando, è questa la dimostrazione. Sto parlando? Sì. Allora, questo vuole dire che l’intero è presente. Poi, qualcuno potrebbe anche chiedersi: come so che sto parlando? La risposta è: perché lo ho imparato. Ho imparato che, seguendo certe regole, mettendo insieme le parole in un certo modo, allora chiamo questa operazione parlare. Ecco come so che sto parlando, sennò non lo saprei.

Intervento: Se non parlassimo non potremmo neanche saperlo…

Questo è sicuro. Però, è una domanda che si può fare, se non altro per la curiosità di costruire una risposta, una risposta adeguata. Non so se è abbastanza chiaro a questo punto il percorso, il ragionamento di Severino, naturalmente per ciò che ci interessa. La procedura è sempre la stessa: se si incontra l’aporia, perché c’è un’aporia? La risposta di Severino è che nel concreto non c’è aporia, perché il concreto, in quanto intero, è ciò che comporta sia quella cosa sia quello che quella cosa non è in quanto tolto: questo è l’incontraddittorio. Se c’è un’aporia è perché io ho isolato, cioè ho astratto un qualche cosa dal concreto. E, allora, l’operazione, il compito diceva lui, della struttura originaria è di portare ciò che inopinatamente è stato astratto al concreto; e, quindi, ricondurre al concreto ciò che appartiene al concreto. L’esempio che lui fa è emblematico, la lampada che è sul tavolo, che è il concreto. Se io astraggo degli elementi questi elementi non sono più “questa lampada che è sul tavolo”. Quindi, il compito, secondo Severino, della struttura originaria, è ricondurre questi elementi astratti al concreto. Perché? Per poterli utilizzare. Se li astraggo mi trovo di fronte a proposizioni contraddittorie. La proposizione contraddittoria, ricordiamolo sempre, è quella proposizione che io dico di porre ma che, di fatto, non sto ponendo per niente. Quindi, per potere porre qualcosa occorre che questo qualcosa sia il concreto, cioè che abbia tolto tutto ciò che questa cosa non è, e cioè che non isoli, non astragga questa cosa da ciò che non è. Queste due cose, lo vedremo bene in Hegel, sono in relazione, non sono più astratte, ma sono l’identico, vivono ciascuna dell’altra, non può darsi l’una senza l’altra. Questo è il compito della struttura originaria: giungere al concreto in modo da potere porre qualche cosa ponendolo veramente, perché finché è autocontraddittorio dico di porre una cosa ma in realtà non la pongo, per porla deve essere il concreto, deve cioè contenere tutto ciò che quella cosa non è, in quanto tolto. La proposta che facevo la volta scorsa è che l’intero è sempre presente in ciascun atto di parola, non c’è da aspettare un mondo migliore perché sia presente, è già lì, e c’è già perché sto parlando. E questa, come dicevo prima, è la prova che non può essere altrimenti che così, perché sennò non potrei parlare, perché non potrei utilizzare le parole che sto utilizzando. Se le utilizzo è perché sono quelle che sono, e se sono è perché c’è l’intero in quanto tolto. La parola è il fenomeno, ciò che dico in questo momento, l’intero è ciò che la oltrepassa; ciò che dico è lì necessariamente, oppure non dico niente, non c’è un’alternativa. Spero con questo che sia più chiaro il lavoro che ha fatto Severino e anche ciò che ci interessa di questo lavoro. In definitiva, dicevo, senza la volontà di potenza ciò che affermo è nulla, non ha nessun senso, nessun significato, non è un significato, non è niente. Quindi, riprendendo Nietzsche, le cose sono quelle che sono per la volontà di potenza, sennò sarebbero nulla. Così come ogni affermazione di per sé, in quanto tale, è nulla se non ci fosse la volontà di potenza a determinarne un significato. Perché se io non voglio che abbiano un significato, non ce l’hanno. Bisogna ricondurre la volontà di potenza là dov’è, cioè nella struttura del linguaggio, e mostrare che è la stessa struttura del linguaggio, che senza questa il linguaggio non funziona. La volontà di potenza è il linguaggio stesso, è ciò per cui ciascuno è quello che è, perché la sua vita, tutto ciò che ha passato, ha detto, ha pensato, ha fatto, ecc., il suo mondo per dirla con Heidegger, è fatto di una sequenza di significati. Qualunque cosa è un significato, se è qualcosa è un significato, è un dispositivo, uno strumento, un mezzo, un utilizzabile. Nel caso del linguaggio ciò che deve essere utilizzabile sono le parole, sennò il linguaggio cessa di esistere. La condizione perché una parola sia utilizzabile è che sia quello che è.