1 aprile 2020
Scienza della logica di G.W.F. Hegel
Siamo a pag. 195. La grandezza (Quantità). La differenza della quantità dalla qualità è già stata indicata. La qualità è la determinatezza che è divenuta indifferente all’essere, è un limite che in pari tempo non è limite, è l’essere per sé che è assolutamente identico coll’essere per altro – la repulsione dei molti uno che è immediatamente non repulsione, continuità loro. Siccome l’ente per sé è ora posto in modo da non escludere il suo altro, ma da continuarvisi anzi affermativamente, coì è desso l’esser altro, in quanto in questa continuità si ripresenta daccapo l’esserci, e la sua determinatezza in pari tempo non è più come in semplice relazione a sé, non è più determinatezza immediata del qualcosa esistente, ma è posta, in quanto respingentesi da sé, in modo da avere anzi il riferimento a sé (come determinatezza) in un altro esserci (in un ente per sé). Qui si prosegue un discorso già avviato da Hegel rispetto al finito e all’infinito, all’uno e i molti. Ci sta dicendo che la quantità, a differenza della qualità, ha a che fare con l’esser per sé. Potremmo dire che la quantità non è altro che il significato di un significante. Naturalmente, precisa che questo esser per sé è sempre e comunque anche esser per altro. A pag. 198. L’attrazione è in questa guisa nella quantità come il momento della continuità. Ricordate la repulsione e l’attrazione? La repulsione è i molti, mentre l’attrazione è l’Uno. La continuità è dunque un riferimento a sé semplice, eguale a se stesso, che non è interrotto da alcun limite ed esclusione; non già però unità immediata, ma unità degli uno che son per sé. Vi è ancora contenuta la reciproca estrinsecità della pluralità, in pari tempo però come un non distinto, un ininterrotto. La pluralità è posta nella continuità così com’è in sé: i molti son ciascuno quel ch’è l’altro, ciascuno eguale all’altro, e la pluralità è pertanto eguaglianza semplice, indistinta. La continuità è questo momento dell’eguaglianza con sé dell’esser uno fuor dell’altro, il proseguire degli uno distinti nei loro distinti. Se la repulsione aveva posti questi vari uno come distinti uno dall’altro, l’attrazione ci dice che tutti questi uno sono uno, cioè, si continuano uno nell’altro. La quantità è l’unità di questi momenti, della continuità e della discrezione, ma è primieramente questa unità nella forma di uno di essi momenti, cioè della continuità, come resultato della dialettica dell’esser per sé, che è ricaduto nella forma di una immediatezza eguale a se stessa. La quantità è come tale questo semplice resultato, in quanto esso non ha ancora sviluppati e posti in lui i suoi momenti. Dapprima, la quantità contiene cotesti momenti, come l’esser per sé, posto qual è in verità. Hegel dice che la quantità ha questi due momenti, potremmo dire, dell’uno e dei molti, della continuità e della discrezione. Tuttavia, dice, La quantità è come tale questo semplice resultato, in quanto esso non ha ancora sviluppati e posti in lui i suoi momenti. Quindi, la quantità come risultato, come integrazione di questi due momenti. A pag. 201. Anche all’io compete la determinazione della quantità pura, essendo esso un assoluto divenir altro, un infinito allontanamento o una general repulsione fino alla negativa libertà dell’esser per sé, che resta però un’assolutamente semplice continuità, - la continuità dell’universalità, o dell’esser presso di sé, la quale non viene interrotta dagli infinitamente molteplici limiti, dal contenuto delle sensazioni, intuizioni, ecc. Ci sta dicendo qualcosa che poi con la psicoanalisi verrà ripresa, anche se non ampliata più di tanto. Ci sta dicendo che l’io, in effetti, è una moltitudine, una moltitudine irriducibile. A pag. 206. Si ammetta che le sostanze non constino di parti semplici, ma sian soltanto composte. Ora ogni composizione può esser tolta via col pensiero (poiché è soltanto una relazione accidentale). Dunque, dopo che fosse tolta, non resterebbero più nessune sostanze, se non constassero di parti semplici. Ma delle sostanze noi ne dobbiamo avere, poiché le abbiamo ammesse; non tutto deve sparire per noi; qualcosa ci deve rimanere, poiché abbiamo supposto cotesto che di permanente, cui demmo il nome di sostanza. La sostanza permane non perché sia di per sé ma perché noi l’abbiamo posta. Per completezza, è necessario che si consideri la conclusione. Essa è del seguente tenore: “Di qui segue immediatamente, che le cose tutte quante del mondo siano esseri semplici, che la composizione non sia se non una loro condizione estrinseca, e che la ragione debba pensare le sostanze elementari come esseri semplici”. Di fatto, tutte queste cose del mondo del mondo sono, al pari di ciò che diceva prima, delle cose che sono state poste da noi, dal nostro discorso, non esistono di per sé. Prima ha detto che le cose del mondo sono esseri semplici e che la loro composizione non è se non una loro condizione estrinseca, e cioè qualcosa che viene loro imposta da fuori; ma c’è un’antitesi a questo. L’antitesi suona così: “Nessuna cosa composta del mondo consta di parti semplici, e non esiste nel mondo assolutamente nulla di semplice”. La prova è parimenti girata in forma apagogica, ed è, per un altro verso, altrettanto riprensibile quanto la precedente. “Ponete (così dice)… Sta citando Kant. …che una cosa composta, qual sostanza, consti di parti semplici. Siccome ogni rapporto esteriore, e quindi anche ogni composizione di sostanze è possibile solo nello spazio, così, di quante parti consta il composto, di altrettante deve constare anche lo spazio che occupa. Ma lo spazio non consta di parti semplici, sibbene di spazi. Dunque ciascuna parte del composto deve occupare uno spazio. “Ma le parti assolutamente prime di ogni composto son semplici. Dunque il semplice occupa uno spazio. Siccome ora ogni reale, che occupa uno spazio, comprende in sé un molteplice reciprocamente estrinseco, ed è perciò composto, e precisamente di sostanze, così il semplice sarebbe un composto sostanziale. Il che è contraddittorio”. Quindi, già Kant aveva mostrato la contraddittorietà sia della posizione che suppone che le cose siano fatte di sostanze semplici e sia la sua contraria. Naturalmente, in Hegel la questione continua ad articolarsi sempre per il modo, che è suo proprio, della dialettica, e cioè che invece di essere posti come i due corni del dilemma, contrapposti tra loro, sono posti come momenti di un intero, per cui è vero tanto che le cose sono fatte di elementi semplici quanto è vero il fatto che sono fatte di cose composte. A pag. 210. Che se ora ci fermiamo alla determinazione data dianzi di queste opposizioni, vedremo che nella continuità stessa sta il momento dell’atomo, poiché la continuità è assolutamente come possibilità del dividere, a quel modo stesso che l’esser diviso, cioè la discrezione, toglie via a sua volta ogni differenza degli uno (i semplici uno essendo ciascuno quello che è l’altro), epperò contiene parimenti la loro eguaglianza e quindi la loro continuità. In quanto ciascuno dei due lati opposti contiene in lui stesso il suo altro, e nessuno di essi può esser pensato senza l’altro, da ciò consegue che nessuna di queste determinazioni, presa isolatamente, ha verità, ma che la verità compete solo alla loro unità. Questa la lor vera considerazione dialettica, come pure il vero resultato. Come vi dicevo, questi momenti non sono opposti tra loro, non sono antinomie, ma sono momenti di un intero. C’è una nota a pag. 211 che possiamo leggere. È soprattutto nella storia della filosofia, trattando di Zenone, che Hegel ha sottoposti a un’ampia discussione i quattro argomenti eleatici contro il moto. Egli fa in quel luogo l’interessante osservazione che in quegli argomenti noi vediamo sparire per la coscienza di Zenone il semplice pensiero immobile, mentre con ciò il pensiero stesso diventa movimento pensante. In quanto cioè il pensiero impugna il moto sensibile, dà il moto a se stesso. Il motivo di ciò che la dialettica cadde in primo luogo sul moto – aggiunge Hegel – è che la dialettica stessa è questo moto, ossia che il moto stesso è la dialettica di ogni essere. Ho letto questa nota perché ci interessa parecchio. Tutta la questione del movimento, se teniamo conto di ciò che andiamo pensando insieme con Hegel, allora l’idea stessa di movimento, la sua stessa possibilità, l’esistenza stessa del movimento, viene dal linguaggio, dalla dialettica, cioè da movimento tale per cui, dicendo qualche cosa, questa cosa rinvia ad un’altra, si sposta su un’altra. Questo spostarsi è il movimento, il primo modo, e probabilmente l’unico, del movimento, non ce ne sono altri. Altri, sì, intervengono come rappresentazioni ma, di fatto, l’idea stessa di movimento è questo portarsi di ciò che dico verso altro, verso un’altra cosa, che è necessaria che ci sia perché ciò che io dico sia effettivamente ciò che sto dicendo. Capite, quindi, l’importanza della questione della dialettica, vale a dire, del movimento che è il linguaggio, movimento senza il quale il linguaggio non esisterebbe in nessun modo. Se dovesse bloccarsi, come in teoria spesso accade come le persone pensino, come nel caso del discorso religioso, che i due momenti risultino separati, quindi non presi in questo movimento e pertanto fissi, se fosse così il linguaggio cesserebbe di esistere. A pag. 213, B. Grandezza continua e discreta. La grandezza continua è posta per sé, è l’uno; il discreto, invece, sono i molti. 1. La quantità contiene i due momenti della continuità e della discrezione. Dev’esser posta in tutti e due come nelle sue determinazioni. – essa è già a bella prima unità immediata di cotesti momenti, vale a dire che fin dapprincipio è posta solo nell’una delle sue determinazioni, nella continuità, così da esser grandezza continua. Oppure la continuità è veramente uno dei momenti della quantità, che vien completato solo coll’altro, colla discrezione. Ma la quantità è unità concreta solo in quanto è unità di momenti diversi. Questi momenti sono quindi da prendersi anche come diversi, non però tornando a risolverli in attrazione e repulsione, ma in modo che, secondo la lor verità, ciascuno di essi resti nella sua unità coll’altro, resti cioè l’intero. La continuità è soltanto l’unità coerente, compatta, come unità del discreto. Posta così, esso non è più soltanto momento, ma quantità intera, - grandezza continua. Ci sta dicendo che questi momenti in realtà non sono che momenti dell’intero, cioè, del tutto, del linguaggio. La grandezza continua è quella grandezza che, in effetti, si pone come quantità intera. 2. La quantità immediata è grandezza continua. Ma la quantità non è in generale un immediato; l’immediatezza è una determinatezza, il cui esser tolto è appunto la quantità. La quantità è dunque da porre nella determinatezza in lei immanente, e questa è l’uno. La quantità è grandezza discreta. Prima ha detto che la quantità è grandezza continua; adesso ci sta dicendo che la quantità è grandezza discreta. La discrezione è, come la continuità, un momento della quantità, ma è anch’essa l’intiera quantità, appunto perché è momento in questa, cioè nell’intiero, epperò come distinta non esce dalla sua unità coll’altro momento. Sono distinti ma inseparabili. La quantità è un essere reciprocamente estrinseco in sé, e la grandezza continua è questo essere reciprocamente estrinseco, in quanto prosegue senza negazione, come una coerenza in sé eguale. La grandezza discreta invece è questo essere reciprocamente estrinseco come non continuo, ossia come interrotto. Tuttavia con questa moltitudine di uno non abbiamo già daccapo la moltitudine degli atomi e il vuoto, la repulsione in generale. Poiché la grandezza discreta è quantità, la sua discrezione stessa è continua. Questa continuità nel discreto consiste in ciò che gli uno son quel che è tra sé eguale, ossia in ciò che gli uno hanno la stessa unità. La grandezza discreta è pertanto l’estrinsecità reciproca del molto uno, come di quello che è eguale; non il molto uno in generale, ma il molto uno posto come il moto di una unità. È il discorso che faceva già precedentemente: molti uno, ma questi uno sono tutti eguali tra loro, cioè, sono tutti uno; quindi, abbiamo sia il continuo, cioè l’uno, e il discreto, i molti uno, che sono la stessa cosa. A pag. 215, C. Limitazione della quantità. La grandezza discreta ha in primo luogo l’uno per principio… Chiaramente, se è discreta vuole dire che qui si parla dei molti uno. …ed è in secondo luogo pluralità degli uno; in terzo luogo poi essa è essenzialmente continua, è l’uno in pari tempo come tolto, cioè come unità, il continuarsi come tale nella discrezione degli uno. Perciò essa è posta come una grandezza, e la sua determinatezza è l’uno, che in questo esser posto ed esistere è un uno esclusivo, un limite nell’unità. La grandezza discreta come tale non deve, immediatamente, esser limitata; ma in quanto è distinta dalla continua essa è come un esserci e un qualcosa, la cui determinatezza è l’uno, e, in quanto è un esserci, è anche prima negazione e limite. Ci sta dicendo che entrambi, sia il continuo che il discreto, si pongono in modo tale da essere opposti l’uno all’altro, ed essendo opposti si negano; ma negandosi, ci sta dicendo, che di fatto sono i momenti dell’intero. E arriviamo al quanto. A pag. 216, Capitolo secondo, Il quanto. Il quanto, che è anzitutto la quantità con una determinatezza o limite in generale, - è nella sua compiuta determinatezza il numero. Dice che il quanto non è altro che una quantità determinata che nella sua più compiuta determinatezza è il numero. Il quanto si distingue in secondo luogo, anzitutto, in quanto estensivo, nel quale il limite pone dei termini a quell’esserci che è pluralità, e poi (in quanto questo esserci passa nell’esser per sé) in quanto intensivo, ossia grado, il quale, come quello che è per sé (ed in ciò come limite indifferente è altrettanto immediatamente fuori di sé), ha la sua determinatezza in un altro. Come questa contraddizione posta … il quanto, in terzo luogo trapassa, come quello che è posto in se stesso come esterno a sé, nella infinità quantitativa. Quindi, questo numero, che è la quantità determinata, è posto tanto in una posizione estensiva quanto intensiva. Intendo dire che il numero è assolutamente determinato ma è determinato in relazione ad altro; quindi, è determinato in sé ma è determinato per altro. La quantità è quanto, ossia ha un limite; e ciò sia come grandezza continua, sia come grandezza discreta. Ecco, sta dicendo esattamente lo stesso, e cioè il numero è tanto una grandezza continua quanto una grandezza discreta. La differenza di queste specie, qui sulle prime, non significa nulla. in quanto è il tolto esser per sé, la quantità è già in sé e per se stessa indifferente di fronte al suo limite. Se non che con ciò non è a lei parimenti indifferente il limite, ossia di essere un quanto; poiché la quantità contiene in sé come suo proprio momento l’uno, l’assoluto esser-determinato, il quale pertanto, come posto nella sua continuità od unità, è il suo limite, un limite che però rimane come uno, come quell’uno che la quantità in generale è diventata. Come dire che il numero è uno, ciascun numero è sempre uno, ma è uno sempre in relazione ad altri. Quest’uno è dunque il principio del quanto, l’uno però come uno della quantità. Quest’uno è quindi in primo luogo continuo, è unità; in secondo luogo è discreto, è la pluralità degli uno in sé (come nella grandezza continua), oppure posta (come nella grandezza discreta), la pluralità di quegli uno che sono eguali fra loro ossia che possiedono quella continuità, la stessa unità. In terzo luogo quest’uno è anche negazione dei molti uno come semplice limite, è un escludere da sé il suo esser altro, una determinazione di sé contro altri quanti. Lo uno è perciò un limite α) che si riferisce a se stesso, β) che si circoscrive, e γ) che esclude altro. … Il compiuto esser posto sta nell’esserci del limite come pluralità… … Il limite esclude un altro esserci… Il limite è limitante e, quindi, una certa cosa, un certo quanto, arriva fin lì e poi si ferma. …vale a dire altri molti, e gli uno ch’esso racchiude sono una moltitudine determinata, le volte… Così Moni traduce. Avrebbe potuto tradursi anche con “numerazione” ma a Moni è apparso più semplice, come dire che la moltiplicazione è un sommare molte volte la stessa cosa. … rispetto alle quali – rappresentanti la discrezione, così com’essa è nel numero -, l’altro è l’unità, la continuità loro. Le volte e l‘unità costituiscono i momenti del numero. Cioè: il numero è l’unità, è l’uno, ma che interviene nelle volte in cui l‘uno si adopera, si pone in atto. Quindi, c’è una sorta di indifferenza del numero rispetto agli altri in quanto sono tutti uno. A pag. 219. Questa indifferenza del numero di fronte agli altri è una sua determinazione essenziale; essa costituisce lo esser-determinato in sé del numero, ma nello stesso tempo anche la sua propria estrinsecità. Il numero è così un uno numerico come l‘assolutamente determinato, il quale insieme ha la forma della semplice immediatezza, e per cui quindi la relazione ad altro è completamente esterna. Questo è un punto fondamentale per Hegel: tutte le operazioni che si possono fare con i numeri comportano sempre un intervento esterno. Di tutto ciò che può dirsi del numero è qualche cosa che viene da fuori, da altro. Come uno, che è numero, essa ha inoltre la determinatezza, in quanto essa è relazione ad altro,… Abbiamo visto prima: il numero è determinato ma la sua determinatezza è in relazione ad altro; ogni atto di parola è determinato ma la sua determinatezza è sempre in relazione ad altro. …come i suoi momenti in lui stesso, nella sua differenza dell’unità e delle volte; e le volte sono esse stesse una moltitudine degli uno, vale a dire che l’uno numerico è in lui stesso questa assoluta estrinsecità. Questo uno numerico, il numero, è fatto di questa estrinsecità, cioè dell’essere quello che è al di fuori di sé, non ha nulla in sé. A pag. 221. L’aritmetica considera il numero e le sue figure, o meglio, non li considera, ma opera con essi. Perocché il numero è la determinatezza indifferente, inerte. Esso dev’essere attivato dal di fuori e dal di fuori messo in relazione. Questa è la questione centrale del numero. Le maniere di questa relazione sono le operazioni. Nell’aritmetica le operazioni vengono presentate una dopo l’altra; ed è chiaro che l’una dipenda dall’altra. Il filo, però, che guida il loro avanzarsi, nell’aritmetica non vien messo in rilievo. Questo è il limite dell’aritmetica, che era già tutto in questa sua affermazione, e cioè che il numero non lo si considera, lo si adopera. La differenza qualitativa, che costituisce la determinatezza del numero, è quella, che abbiamo veduta, dell’unità e delle volte. Differenza qualitativa. Badate bene, qui parla di qualità, non di quantità. A questa differenza si riduce quindi ogni determinatezza concettuale che si possa presentare nelle operazioni aritmetiche. La differenza poi, che spetta ai numeri come quanti è identità estrinseca e la estrinseca differenza… Sempre tutto estrinseco, cioè, sempre qualcosa che viene da fuori. …l’eguaglianza e la diseguaglianza, momenti della riflessione, che son da trattare fra le determinazioni dell’essenza, quando si parla della differenza. È inoltre da premettere che i numeri possono in generale esser prodotti in due modi, o mediante una composizione o mediante una separazione di numeri già composti. In quanto l’una cosa e l’altra ha luogo in una specie di numeri determinata nella medesima maniera, al comporre i numeri (che si può chiamare operazione positiva) corrisponde il separarli (cui si può dare il nome di operazione negativa). La determinazione dell’operazione stessa è indipendente da questa opposizione. Il numero rimane sempre e comunque qualche cosa che è prodotto estrinsecamente. Vale a dire, non c’è un pensiero che riguarda propriamente il numero. Infatti, tra poco dirà che l’insegnamento della matematica, per quanto certamente utile, non è sicuramente ciò che insegna a pensare; lamenta che già ai tempi suoi l’insegnamento della matematica e dell’aritmetica fosse considerato come la base per pensare; no, dice Hegel, è esattamente il contrario. A pag. 229, Nota II. È noto che Pitagora espose in numeri i rapporti razionali o filosofemi. Anche recentemente si usavano nella filosofia i numeri e le forme delle loro relazioni, come le potenze, ecc., affin di regolare in conseguenza di ciò i pensieri o di esprimerli con cotesto mezzo. Qui comincia a discutere di questo fatto, e cioè del voler tradurre in numeri il pensiero. Sotto l’aspetto pedagogico si ritenne il numero come l’oggetto più appropriato dell’intuizione interna, e l’occuparsi a calcolare i suoi rapporti come quell’attività dello spirito, nella quale esso porta all’intuizione i rapporti suoi più propri e in generale i rapporti fondamentali dell’essenza. Fino a che punto al numero possa competere questo alto valore, s’intende dal suo concetto così com’esso venne a mostrarsi. … L’aritmetica è scienza analitica, perché tutti i collegamenti e tutte le differenze che si manifestano nel suo oggetto non risiedono in questo stesso, ma gli sono imposti in maniera completamente estrinseca. Essa non ha un oggetto concreto che possieda in sé rapporti interni, celati sulle prime per il sapere, non dati cioè nella immediata rappresentazione dell’oggetto, ma da mettersi in luce solo mediante lo sforzo del conoscere. Non solo l’aritmetica non contiene il concetto, epperò nemmeno il compito per il pensiero concettivo, ma ne è l’opposto. A cagione della indifferenza che quel che vien collegato ha per un collegamento cui manca la necessità, il pensiero si ritrova qui in un’attività, la quale è in pari tempo l’estrema esteriorazione del pensiero stesso, nell’attività artificiosa di muoversi in un elemento, che è l’assenza stessa del pensiero, e di collegar quello che non è capace di alcuna necessità. Collegare cose che di per sé non hanno nessuna necessità di essere collegate. L’oggetto è il pensiero astratto dell’esteriorità stessa. Come questo pensiero dell’esteriorità il numero è in pari tempo l’astrazione della molteplicità sensibile. Esso non ha conservato del sensibile altro che l’astratta determinazione dell’esteriorità stessa. Perciò il sensibile vi è portato vicinissimo al pensiero. Il numero è il puro pensiero della propria esteriorazione del pensiero. Questo è bello in Hegel: il numero come il puro pensiero di qualche cosa che sarebbe esterno al pensiero. Dopo aver accennato agli antichi, che avrebbero cercato attraverso l’aritmetica di trovar le leggi del pensiero… un po' quello che aveva cercato di fare Boole, trovare le leggi del pensiero, anche se lui le cercava nella logica. A pag. 232. Questi antichi si accorsero prima di tutto molto bene dell’insufficienza delle forme numeriche per le determinazioni del pensiero, e con pari ragione richiesero poi per i pensieri, invece di quel primo espediente, l’espressione propria. Quanto più lungi essi erano andati, nelle loro meditazioni, che non quelli i quali oggigiorno stimano di nuovo lodevole, anzi solido e profondo, il ritornare a quella inetta infanzia, mettendo in luogo delle determinazioni di pensiero i numeri stessi e le determinazioni numeriche, come le potenze, poi l’infinitamente grande, l’infinitamente piccolo, l’uno diviso per l’infinito, ed altrettali determinazioni, che non sono spesso esse stesse altro che un pervertito formalismo matematico. … Se ora le determinazioni del pensiero, per il movimento del concetto, come per quello in virtù di cui, soltanto, il concetto è concetto, vengano notate come uno, due, tre, quattro, questo è ciò che di più duro si può chiedere al pensiero. Il pensiero si muove allora nell’elemento del suo contrapposto, cioè dell’irrelatività;… Trasformando il pensiero in relazioni numeriche, dice, il pensiero si muove nel suo contrapposto, cioè nell’irrelatività, perché il pensiero è relazione, è linguaggio, e il linguaggio è relazione. …il suo lavoro è il lavoro della pazzia. L’idea che un qualche cosa non sia in quanto è in relazione ad altro. Il comprendere p. es. che uno è tre, e tre è uno, è quell’arduo compito che è, appunto perché l’uno è l’irrelativo, e non mostra quindi in lui stesso quella determinazione per la quale passa nel suo contrapposto, ma consiste anzi nell’assoluto escludere e rifiutare cotesta relazione. Viceversa, questo vien messo a profitto dall’intelletto contro la verità speculativa. … l’intelletto non conta cioè le determinazioni, che costituiscono un’unica unità, per mostrare ch’essa è un evidente assurdo; vale a dire commette esso stesso l’assurdità di ridurre a un che d’irrelativo quello che è assolutamente relazione. Per potere stabilire che uno non è tre occorre che questo uno sia in una relazione con un sistema numerico, ovviamente. Il pigliare i numeri o le figure geometriche come puri simboli (come spesso si è fatto col circolo, col triangolo, ecc., parlando p. es. del circolo dell’eternità, del triangolo della tri-unità) è da un lato un che di affatto innocuo; dall’altro lato però è stolto il supporre, che con ciò si trovi espresso più di quello che il pensiero possa comprendere ed esprimere. Se in tali simboli, come anche in quegli altri, che vengon generati dalla fantasia nelle mitologie dei popoli e in generale nella poesia … ha da risiedere una profonda sapienza, un profondo significato, il compito del pensiero non consiste appunto che nel trarre alla luce la sapienza che sta soltanto lì dentro, e non solo in simboli, ma nella natura e nello spirito. Nei simboli la verità è ancora intorbidata e velata dall’elemento sensibile. È solo nella forma del pensiero ch’essa si rivela completamente alla coscienza. Il significato non è che il pensiero stesso. Quando si cerca un significato che vada al di là del pensiero si compie una operazione assurda, dal momento che, come ci dice Hegel, il significato non è nient’altro che pensiero; quindi, il significato che cerco al di là del pensiero sarà necessariamente un altro pensiero. Ma il togliere a prestito categorie matematiche affin di trarne determinazioni per il metodo o per il contenuto della scienza filosofica è un controsenso. Infatti, in quanto le formule matematiche significano pensieri e differenze di concetto, questo lor significato si deve anzi dichiarare, determinare e giustificare soltanto nella filosofia. Nelle sue scienze concrete la filosofia deve prendere l’elemento logico dalla logica, non dalla matematica. Dalla logica, quindi, dal pensiero e non calcolo. Non può essere che un espediente della incapacità filosofica quello di aver ricorso, per la logicità della filosofia, alle configurazioni che cotesta logicità prende in altre scienze, configurazioni di cui molte non sono che presentimenti o adombramenti, altre ne son poi anche storpiature. La semplice applicazione di tali formule prese a prestito è inoltre un procedimento estrinseco. L’applicazione stessa dovrebbe essere preceduta da una coscienza così intorno al loro valore come intorno al loro significato. Ora una tal coscienza è data solo dalla considerazione pensante, non dall’autorità che quelle formule traggono dalla matematica. Cotesta coscienza intorno alle formule è la logica stessa. Cotesta coscienza spoglia le formule della loro forma particolare, rendendola superflua e inutile; le corregge e procura loro, essa sola, la loro giustificazione, il loro senso e valore. Da ciò che è stato detto risulta di per sé quale importanza possa avere l’uso del numero e del calcolare, in quanto se ne voglia fare il principio fondamentale di un sistema educativo. Il numero è un oggetto immateriale, e l’occuparsi del numero e delle sue combinazioni è una occupazione immateriale. Lo spirito viene quindi da cotesta occupazione obbligato alla riflessione in sé e ad un lavoro astratto, il che ha una importanza grande, ma però unilaterale. Perocché dall’altra parte, siccome al numero sta in fondo soltanto la differenza estrinseca, priva di pensiero, così quell’occupazione diventa una occupazione priva di pensiero, meccanica. Lo sforzo consiste soprattutto nel fissare ciò ch’è vuoto di concetto, e nel combinarlo in una maniera vuota di concetto. Il contenuto è il vacuo Uno; la sostanza solida della vita morale e spirituale e delle sue configurazioni individuali (sostanza colla quale, come col più nobile nutrimento, l’educazione ha da allevare lo spirito della gioventù), dovrebbe essere cacciata via dall’Uno privo di contenuto; l’effetto ( quando a quegli esercizi si attribuisca l’importanza maggiore e se ne faccia l’occupazione principale) non può essere altro, che quello di vuotare e ottundere lo spirito così dal lato della forma come da quello del contenuto. Poiché il calcolare è una faccenda così estrinseca, epperò meccanica, si son potute costruire macchine, che compiono nella maniera più perfetta le operazioni matematiche. Quando intorno alla natura del calcolare non si conoscesse che questa sola circostanza, vi sarebbe in essa abbastanza per decidersi, che cosa si debba pensare di quell’idea di far del calcolo il principale mezzo di educazione dello spirito, mettendo questo alla tortura di perfezionarsi fino a diventare una macchina.