1-4-1999
Il
riconoscimento
Si
discute sul sottotitolo per la conferenza del 13.4.1999 che sarà Amore e
Guerra. Si stava dicendo ultimamente di come si costruisce un discorso in
ambito retorico però c’è l’eventualità che intendendo come si costruisce retoricamente
un discorso ci fa intendere come si costruisce un qualunque discorso, cioè come
viene costruito da chiunque un suo discorso. Ricordate che la retorica, la
prima parte di questa divisione in cinque parti, la prima parte riguarda
l’inventio cioè trovare cose da dire. Ora in un discorso qualunque,
generalmente non si pone la questione della ricerca di qualche cosa da dire ma
è già dato il qualche cosa da dire, ha già una sua cosa nella quale crede, che
però non è una cosa qualunque viene tratta, esattamente così come suggerisce
Aristotele dal luogo comune o dal più accreditato. Nel discorso di ciascuno
qual è più accreditato? Quello che ritiene lui vero, ritiene necessario,
necessario al punto che non potrebbe essere altrimenti che così, dunque il discorso
viene costruito a partire da ciò che la persona crede vera, dal suo luogo
comune, che può anche essere diffuso però è ciò che funziona per lui, senza che
lui lo sappia, come il luogo comune cioè ciò che è inevitabile che sia, su
questo viene costruito il discorso. Ora c’è un’intenzione in un discorso
generalmente, nel discorso retorico l’intenzione è quella di persuadere. Nel
discorso corrente qual è l’intenzione? C’è l’eventualità che sia sempre la
stessa, cioè persuadere, però qui può intervenire un altro elemento che è
quello del persuadere se stesso, come dire rafforzare una credenza, una
superstizione, tutto ciò che si crede vero, perché paradossalmente,
paradossalmente fino ad un certo punto, ciò che la persona crede non è così
saldo è come se avesse sempre bisogno di essere confermato, corroborato,
rinforzato, condiviso, partecipato… paradossalmente dicevo, perché la persona
crede le cose in cui crede, però ha sempre questa esigenza di trovare qualche
cosa che lo confermi quindi parrebbe fatto di pensare che la sua sicurezza non
è poi così salda, se ha bisogno continuamente di qualcosa o di qualcuno che lo
sostenga. Perché non è così salda? Perché questo luogo comune che utilizza per
avviare il discorso non è così forte? Che cosa alimenta l’insicurezza di una
persona? (perché poi si tratta di questo) in genere è l’idea che ci sia
l’eventualità che altri non condividano ciò che io sto dicendo, e quindi di
trovarmi fuori da un certo gruppo, si diceva dell’importanza straordinaria che
ha per molte persone immaginarsi all’interno di un gruppo, fare parte del
gruppo, di essere quindi schierati da una parte o dall’altra. Ora dicevo il
luogo comune è ciò da cui prende avvio il discorso, il luogo comune della
persona, quindi al momento stesso in cui la persona ha avviato il suo discorso,
voi avrete già con buona certezza una misura di ciò in cui crede, certamente
come il retore che reperisce quegli elementi che gli servono per persuadere, la
persona costruisce il discorso a partire da qualche cosa che a lei pare vera,
verosimile, credibile, una cosa quale immagina segua l’assenso
dell’interlocutore o se non c’è l’assenso comunque c’è un piano comune di
discussione, per esempio, un esempio banalissimo rispetto alla guerra attuale,
uno si aspetta che l’altro possa essere d’accordo oppure no, rispetto
all’intervento ma in ogni caso muove dall’idea che comunque l’altro propenderà
per l’una cosa o per l’altra, non per nessuna delle due, per esempio. Il luogo
comune ha questa funzione reperire l’assenso, costruire il discorso in modo
tale che l’assenso sia inevitabile, ci sia cioè un terreno comune, una credenza
comune, poi si potrà discutere sui dettagli, però il fondamento deve essere
comune, quindi quando ascoltate un discorso, qualunque esso sia, la partenza di
questo discorso, l’esordio come direbbero i retori vi dice immediatamente qual
è il luogo comune e qual è la cosa cui la persona che sta parlando crede.
Perché questo ha qualche importanza? In una analisi per esempio può essere
determinante sapere che cosa crede la persona e lo è dal momento che tutto ciò
che segue, segue a qualcosa in cui crede e quindi porterà con sé questa sorta
di impronta, tutte le sue conclusioni, tutte le cose cui giunge e qui anche
eventuali disagi, disturbi, fastidi, qualunque cosa sia…terrà conto della
premessa, il luogo comune da cui muove il suo discorso. Dicevamo tempo fa che
lungo l’analisi questo luogo comune viene messo in gioco, perché finché non è
messo in gioco questo luogo comune, il discorso non subirà nessuna variante, perché
data questa premessa seguono queste conclusioni. Ciò cui una persona
maggiormente tiene è che gli sia accreditato questo luogo comune, e cioè il
fatto di poter riconoscere nell’altro questo luogo comune che è assolutamente
fondamentale e potremmo dire così ciò attraverso cui gli umani si riconoscono,
si riconoscono facenti parte di un gruppo, di una specie (anche se non sono
d’accordo, importante che io creda una cosa e l’altro un’altra cosa)
esattamente, cioè è importante avere un elemento in comune, cioè uno può essere
del Milan e l’altro della Juventus (però sempre calcio è) esatto. Ora questa
questione del riconoscimento appare essere fondamentale al punto che i retori,
per ottenere maggiore effetto dal loro discorso fanno in modo di essere riconosciuti
dall’uditorio, riconosciuti in quanto espongono gli stessi luoghi comuni e
l’uditore dice che anche lui è dei nostri (diciamo in modo un po’ semplice) e
quindi sarà più facile credere tutto ciò che dirà. Uno dei motivi per cui il
discorso che stiamo facendo incontra una difficoltà immensa a diffondersi è in
parte che le persone non si riconoscono, è il fatto che le persone non si
riconoscono in nessun modo, non c’è nessuna possibilità di riconoscimento.
Quando una persona si rivolge a voi per esempio per una analisi, chiede questo
riconoscimento, però in un’analisi il discorso è leggermente differente da un
evento pubblico come una conferenza, in quanto in un’analisi anche se non c’è
propriamente questo riconoscimento, però c’è l’occasione, i mezzi per potere
costruire qualche cosa che consenta alla persona di proseguire senza questo
riconoscimento, in una conferenza cioè in un evento pubblico questo è molto più
difficile, in effetti si tratterebbe e qui si può inserire un elemento che può
tornarci utile in pratica, se potessimo reperire degli elementi che possano
dare adito, quanto meno all’idea di una sorta di riconoscimento, probabilmente
ci sarebbe maggior seguito, forse non è così sicuro. È un po’ come quando le
persone, alcuni enunciati “non riesco a riconoscermi in ciò che si dice” ma
anche questo riconoscimento come se l’oratore non consentisse nulla al luogo
comune da qui la persona che ascolta è come se si sentisse non situata da
nessuna parte e non sentendosi situata da nessuna parte, la sensazione che può
accadere che provi è di assoluta solitudine e cioè manca il gruppo a cui far
riferimento e pertanto avverte una sensazione di disagio, di fastidio che in
molti casi può decidere l’allontanamento, per esempio, certo retoricamente
occorre fare esattamente così, porre le condizioni che ci sia questo
riconoscimento, la difficoltà in questo caso è produrre un riconoscimento nei
confronti di qualcosa che è esattamente il contrario. Che cosa offre il gruppo?
Che cosa offre il riconoscimento? Offre quella sicurezza, nell’assioma nel
luogo comune che altrimenti vacilla, dicevo prima che la persona pur muovendo
da un luogo comune, che crede, ciò nonostante cerca continuamente un appoggio,
cerca continuamente un sostegno, un avvallo, da parte di altri, ecco il
riconoscimento fornisce esattamente questo, avalla il luogo comune, a questo
punto la certezza della persona è solida, non ha più bisogno di rinforzarla, di
corroborarla e quindi è sicura, per cui ha fiducia. La sicurezza in ciò che si
pensa possedere la verità produce quello stesso effetto che produce la
religione, cioè il possesso di verità e cioè il sapere come stanno le cose, la
conseguenza immediata è una sorta di elezione, anche di superiorità se non
addirittura di arroganza, non teorica in questo caso, ma pratica, mi è capitato
di ascoltare una persona che crede fermamente in qualche dio, immagina che
questo qui ci sia, la quale diceva di sentirsi la persona eletta e
privilegiata, esattamente come accade per gli ebrei che da sempre si considerano
il popolo eletto scelto da dio e quindi la persona che ha la fede, è la persona
che dio ha scelto. Questo comporta dicevo prima l’idea molto forte di possedere
la verità e quindi di essere immuni dall’errore, immuni dal dubbio, immuni
dall’eventualità di dovere pensare…(…) sì e ciascun discorso l’esordio cerca
esattamente questo, come dicevo cerca il consenso, cerca quindi la condizione
tale per cui non debba essere messo in gioco quello che pensa, a questo serve
il luogo comune, la religione in definitiva, un luogo comune generalizzato, a
sentirsi sicuri forti eletti da dio, che poi eletti dalla società, perché?
Perché io penso come la società vuole che si pensi o il gruppo, poi può essere
una mini società, può essere un gruppetto di persone, non ha nessuna importanza
però il funzionamento è lo stesso, sentirsi comunque l’eletto, la questione
ebraica sembra sempre attuale. Come dire “io sono nel giusto e quelli che
pensano come me sono nel giusto, ma io sono nel giusto perché quelli pensano
come me..” è tutto… perché è così importante sentirsi eletti? Se prendiamo il
popolo ebraico che crede essere stato eletto da dio, comporta il fatto di
essere amato, se io eleggo una persona amo quella persona, nella vulgata.
L’essere amati dall’altro ha un effetto potremo dire terapeutico, in molti casi
comporta una sorta di certificazione di esistenza, se l’altro mi ama allora io
esisto, questo avviene anche in molti casi, nelle tradizioni del discorso
occidentale, cioè io esisto nella misura in cui l’altro mi ama, se cessasse di
amarmi è una catastrofe. Dunque la ricerca è di qualcuno che certifichi la mia
esistenza, come certifica la mia esistenza? La certifica certificando le cose
in cui credo, le quali vengono certificate, se per esempio, io esisto soltanto
se una persona mi ama, il fatto che mi ami che cosa vuol dire? Vuol dire che
apprezza quello che faccio e quindi mi stima, che accoglie quello che penso, se
dico solo cretinate non mi stimerebbe (quindi sono nel giusto) sì sono nel
giusto, cosa comporta una cosa del genere? Pensate a tutta la ricerca degli
umani da tremila anni a questa parte intorno alla verità, non è altro che
questo, la ricerca di qualche cosa che consenta alla fine di poter affermare
“sono nel giusto” vi rendete conto che non è una cosetta da poco. (oppure io
servo a qualcosa) sì queste sono varianti, certo. Ma questa ricerca di essere
nel giusto, di essere approvati, perché? Che funzione ha? Perché è così
importante non essere soli a pensare una certa cosa? (può comportare
l’abbandono, l’insicurezza, tutte queste patologie…questa nullità è proprio il
senso della vita) (di avere questa responsabilità di vivere) ecco forse è
possibile portare le cose ancora oltre e cioè portarle là da dove vengono e
quindi alla struttura del linguaggio. Dicevamo martedì della difficoltà di
fronte alla contraddizione, al paradosso, dell’impossibilità di proseguire se
una cosa è simultaneamente vera e falsa. La ricerca della verità non è altro
che l’esigenza di potere eliminare uno dei due corni del dilemma, soltanto a
questa condizione è possibile proseguire il discorso occidentale, devo sapere
se ciò che faccio è bene o meglio devo sapere se ciò che penso è giusto o
sbagliato perché se non lo so c’è l’eventualità che mi paralizzi, la questione
portata poi… (è come se io scomparissi) “devo sapere” dove sta l’errore perché
dei due corni, uno dei due è necessariamente falso, di questo c’è la necessità,
di essere confermati nel mio credo. Perché in caso contrario c’è la paralisi,
c’è l’arresto e quindi il malessere, il disagio in tutte le sue infinite forme,
dicevo tempo fa ognuno di voi sa bene l’effetto terapeutico di ogni religione
che risolve la contraddizione, eliminando uno dei due corni del dilemma, come
il male… è uscita adesso una edizione nuova di Tommaso sul male, non l’ho
ancora letto, ma vi suggerisco di leggere… (della Rusconi) ecco potremmo dire
che il male è un’invenzione necessaria per dissolvere il paradosso. Non è
casuale che fino ad oggi le lingue anglosassoni, quelli che là oltre il mare
chiacchierano questo idioma, chiamino ancora il paradosso il “monster” e
l’eliminazione del paradosso “monster barring.” la cancellazione,
l’eliminazione, lo sbarramento, barratura, quindi il male il male è questo, è
il corno del dilemma che deve essere eliminato, quindi non c’è più dilemma,
questo è il bene, questa è la via, la via è la verità…..questo che vi sto
dicendo in termini provvisori ma man mano preciseremo, non è marginale…abbiamo
in questo modo ricondotto a una struttura linguistica l’etica, che non è
poco…ma c’è l’eventualità che tutto ciò che è stato detto intorno all’etica da
Aristotele a…. non sia altro che il tentativo di soluzione a un problema
linguistico che tuttavia non ha soluzione e infatti ancora oggi si ama
scannarsi l’un l’altro in nome della verità, rispondere a qualcuno che chiede
da che parte si schiera se contro gli americani… (se da nessuna parte rimangono
così) come fare riaffiorare il mostro, cioè il paradosso, la contraddittorietà
(si vuole anche mantenere questo mostro) questo è un altro discorso….dunque
l’eliminazione del dilemma attraverso l’identificazione del male, nessuno ha
mai portato nei termini linguistici la questione antica in effetti il paradosso
non è altro che l’impossibilità di proseguire, che poi con gli strumenti che
possediamo possiamo facilmente e rapidamente verificare, che se c’è un
paradosso fra i più comuni questo è per via di un assioma da cui si muove, se
io muovo da un assioma che afferma che una cosa è fuori dal linguaggio allora
inesorabilmente troverò in un’infinità di paradossi, tutti i paradossi
dell’autoreferenzialità ovviamente, però il paradosso dell’autoreferenzialità è
quel paradosso che è formato in questo modo, e cioè dichiara, cerca questa
impossibilità, dopo di che, attribuisce a se stesso questa impossibilità,
quindi si blocca si paralizza, “vietato, vietare” il paradosso
dell’autoreferenzialità , cioè attribuisce a se stesso ciò stesso che vieta… è
interessante questa questione del terrore, potremmo quasi chiamarlo, del
paradosso cioè dell'impossibilità a proseguire…non è escluso che le religioni
siano state inventate per questo, occorrerà rifletterci, però perché no? Per
eliminare questo terrore del paradosso, del riscontro del paradosso e quindi
dell’arresto… il così detto nevrotico, psicotico fa un po’ il verso di una cosa
del genere, catatonico, resta lì, nell’impossibilità di muoversi c’è l’arresto
e cioè l’impossibilità a proseguire il discorso, questo è lo sbarramento,
l’impossibilità di proseguire a parlare…questo ci chiarisce molti elementi come
si diceva prima a proseguire questa elaborazione, adesso abbiamo appena
accennato, perciò ci chiarisce molte cose in quanto ci rende conto di che cosa
in effetti gli umani temono, è l’unica cosa che temono tutto il resto no,
temono il paradosso fino alla morte, di cui non sanno assolutamente nulla, però
pensate anche alla morte, così come avviene spesso nel discorso occidentale, ma
non solo in qualsiasi discorso, come l’altro corno della vita “morte/vita” già!
Che cosa paralizza il fatto che esistano entrambe, perché “io sono vivo ma c’è
anche la morte” se ci fosse solo la morte non ci sarebbe nessun problema, se
non ci fosse cioè se non fosse pensabile (allora la religione…) per risolvere…
se allora… nella religione, almeno la nostra, come è risolta? La morte è il
male tant’è che per la religione cristiana, cattolica, la morte è la morte
dell’anima, cioè il male, la vita è il bene ecc… cioè ha risolto l’antinomia…
Vero o falso, ecco, zero o uno, e d’altra parte non è casuale perché il
linguaggio è costruito per questo, per questo ce lo portiamo appresso, è
costruito su questo e senza questo… come dire e questo è l’elemento che lo fa
funzionare, senza questo non funziona, è il “suo limite” fra virgolette e il
suo motore, (uno deve sempre scegliere) il computer funziona esattamente come
lei lo ha descritto… (a immagine e somiglianza) così come dio ha fatto l’uomo
(…) anche se l’aspetto non è che lo preoccupi… (forse andiamo a vedere il
problema che blocca) ho fatto questo breve accenno all’etica ma tutto ciò che è
stato costruito intorno all’etica cioè il discorso stabilisce ciò che è bene e
ciò che è male….e non ha tutti i torti il discorso comune in effetti di fronte
al paradosso si arresta, ciò che ci ha condotti, l’elaborazione a considerare
che l’unico arresto possibile può accadere è quello di negare l’esistenza del
linguaggio, che è ciò stesso che ci consente di fare qualunque cosa, a questo
punto effettivamente c’è l’arresto, per cui non parlo più e devo anche cessare
di pensare, in toto, pensare non lo posso fare, qualunque altra cosa sì è
totalmente indifferente, in effetti ciò che andavo illustrando in questi due
ultimi incontri in libreria, il compito dell’analista, quello di mostrare che
il paradosso in cui si trova non paralizza affatto, è un paradosso che è stato
costruito a partire da assiomi, da luoghi comuni, assolutamente gratuiti, ma
che se vengono accolti come necessari conducono a paradossi, conducono
all’arresto, al blocco totale (…) qui si tratta di un’altra questione che si
tratta di svolgere perché ciò che avviene in un analisi questo contraccolpo non
è così lontano da quello che accade a molte persone che ascoltano una
conferenza, la struttura non è dissimile, certo in analisi magari possono
esserci strumenti migliori per poterli affrontare, uno che viene lì per la
prima volta non ha nessuno strumento, è assolutamente sprovveduto di fronte a
una cosa del genere, sprovvisto di ogni mezzo, però …questo come diceva
giustamente Cesare, consente di andare ancora più nello specifico rispetto alla
struttura del linguaggio, la questione del vero o falso, è sì qualche cosa che
fa funzionare il discorso ma che se non si intende come funziona il linguaggio,
lo blocca, lo blocca oppure costringe…la costrizione di cui si diceva tempo fa
o di cui non ci si capacitava, perché, perché questa dichiarazione, questa
professione di idiozia, tutto sommato non è necessaria, il discorso religioso
non è altro che l’idiozia, cioè l’impossibilità o l’incapacità a pensare,
questo, questo ci consente di intendere molto meglio questa sorta di
costrizione. Posta la questione in questi termini certo la costrizione rimane
finché non c’è un intendimento molto preciso del funzionamento del linguaggio,
sembra la condizione, si tratta di verificare, adesso proseguiremo in termini
di elaborazione ma (…) questa è una questione non indifferente il fatto che
questo intoppo in cui gli umani vivono generalmente sia prodotto dall’ignoranza
rispetto alla struttura del linguaggio, c’è questa eventualità poi si tratterà
di verificare, di precisare, però così di primo acchito, parrebbe qualcosa del
genere, da qui viene sottolineato ulteriormente la funzione, la necessità
dell’analista della parola, come colui che in se permette la funzione del
linguaggio e perché
quindi ci si è trovati di fronte a questo
intoppo… (questi modi di dire “le parole danno corpo” anch’io non avrei mai
pensato che stesse in ciò che dico il corpo al quale le parole paiono
rimandare, questa è l’ultima delle cose cui si va a pensare come invece suppone
il discorso religioso che tutto sia da un’altra parte in attesa di soluzione)
nella mente di Dio! Il passo successivo da compiere e da intendere è come si
produce esattamente il paradosso oltre a riflettere come abbiamo detto questa
sera su tutto ciò che è considerato male dagli umani, è ciò che si produce come
effetto di una situazione paradossale, diventa bene quando uno dei due corni
del dilemma viene eliminato, tutto la posizione della religione è consistita in
questo (se non si sceglie si produce) la scelta o il permanere (…) non è
ammissibile, non è pensabile (la guerra non è né bene né male, manca la
conclusione…) sì e il luogo comune è il modo più diffuso per risolvere questi
paradossi… (…) sì è necessario come dicevamo prima se non si conosce la
struttura del linguaggio e allora effettivamente non conoscendo questo
l’eventualità del paradosso dà la paralisi ora la paralisi è l’impossibilità a
pensare, a parlare e quindi a esistere, senza tenere conto di come gli umani
fuggano come il peggior nemico, di qui la necessità della religione che risolve
il paradosso, come comunque il discorso lo risolve, lo risolve indicando il
male come l’altro corno del bene, oppure vero e falso (io riflettevo sull’uso
del termine riconoscimento…) Freud si avvicina avrebbe potuto fare un passo,
quando nell’ Io e l’ Es pone la domanda contraddittoria “come il padre ti è
dato essere, come il padre non devi essere” e da lì sorge la domanda… cioè lui
è arrivato molto vicino alla questione (…) la fase dello specchio Lacan (anche
Freud in Lutto e malinconia quando parla dell’oggetto perduto, cioè quando
l’interlocutore è perduto perché io lo uccido e quindi mi ritrovo io l’oggetto
interlocutore e io parlo ma non posso sentire e quindi parlare perché sono
morto… pare che…) la morte viene pensata generalmente che quando è morto non
pensa più e non parla più…(della morte se ne può parlare ma non si può viverla)
vivere la morte è un ossimoro (…) se ci sono io non c’è la morte se c’è la
morte non ci sono io (Epicuro) ma non per questo dopo di lui non si è più
temuta ma morte, poi è intervenuto il cristianesimo (è curioso come se cerco il
riconoscimento e ciò che cerco è di vedermi intervengano a corollario di questa
ricerca termini e quindi luoghi comuni come l’invidia, cioè il vedere
nell’altro qualcosa che io non ho non possiedo) l’invidia del pene… (…) (il
riconoscimento tramite l’altro) Lacan aveva una fantasia del genere che il
bambino comincia a vedersi perché in braccio alla mamma passa davanti allo
specchio, vede la mamma, che lui conosce perché lui l’ha vista e invece lui non
si è mai visto, vede che lì c’è lui e allora se quella è la mamma allora lui è
il bambino (come il “fort da” di Freud) (il bisogno di reciprocità di dialogo)
un’identità comporta un corno del dilemma come dire io sono questo e non
l’altro, l’altro è per definizione sospetto….(sì però si ha bisogno dell’altro
per fare il proprio discorso)….(in analisi cioè questo rapporto con l’altro
risalta) questo è un addestramento (come avviene nel suicidio) talvolta avviene
così se io rappresento il male tolto il male resta il bene, l'omicidio il
contrario tolto il male resta il bene… il suicidio esistenziale di cui parla
Camus anche lì è la soluzione ad un paradosso irresolubile, lui lo dice in modo
esplicito anche senza formularlo in questi termini, quando dice il suicidio è
l’unico atto provvisto di senso in un esistenza che non riesce a produrne
nessuno e quindi qui c’è il senso, qui c’è la verità, di là c’è il falso io
sono per la verità e quindi mi uccido, ripetendo tutta la visione degli stoici,
gli stoici dicevano questo, ogni tanto qualcuno si infilava una spada nel petto
per passare la serata. Va bene, abbiamo molto su cui lavorare.