INDIETRO

 

 

1 marzo 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger.

 

Siamo giunti a una parte importante del testo di Heidegger, quella che riguarda la retorica. Come esergo, possiamo rileggere ciò che scrive a pag. 140. Il retore è colui che detiene il potere effettivo sull’esserci: il sapere discorrere è la possibilità che mi dà modo di esercitare il dominio effettivo sulle convinzioni degli uomini nel loro essere l’uno con l’altro. È una delle più belle definizioni di retorica. Questo fatto – il fatto che i greci vivevano nel discorso – va tenuto sempre ben presente, prestando attenzione a un’ulteriore circostanza: se il discorso è la possibilità autentica dell’esserci, nella quale l’esserci stesso ha luogo concretamente e per lo più, allora proprio il parlare costituisce anche la possibilità, in cui l’esserci si impiglia, che l’esserci mostri una peculiare tendenza a disperdersi nell’“innanzitutto” (nella δόξα), nella moda e nella chiacchiera, per lasciarsene guidare. Facile lasciarsi guidare dalla δόξα, dall’opinione: si dice, si pensa, si crede… Questo processo della vita, di disperdersi nel mondo, in ciò che è abituale, di decadere nel mondo in cui si vive, è diventato per i greci, appunto tramite il linguaggio, il pericolo fondamentale del loro esserci. I greci, in fondo, temevano la δόξα, vediamo perché. Nella sofistica viene messa in pratica questa possibilità prevalente del parlare. La tesi di Protagora: τόν ἢττω λόγον κρείττω ποιεῖν (volgere il discorso peggiore nel migliore): discutere di geometria con un geometra senza sapere nulla di geometria, condurre il colloquio in modo da superare l’altro pur non avendo nessuna cognizione di causa. Qui dice una cosa interessante e curiosa: nessuna cognizione di causa. È vero, i sofisti parlavano così, senza cognizione di causa, cioè, parlavano con un geometra senza sapere nulla di geometria, con un matematico senza sapere nulla di matematica, senza cognizione di causa, senza conoscere le cause del loro dire, che cosa lo sostiene. Ma che cosa sostiene il dire? Qual è la cognizione di causa? Ora, qui si potrebbe inserire una considerazione rispetto alla retorica e alla logica, e cioè porre la logica come un caso particolare di retorica. La particolarità di questo caso è dato dalla censura: ciò che distingue la logica dalla retorica è la censura, mentre la retorica non è censurata. I sofisti non censuravano il loro dire, la logica sì, deve censurare la sua cognizione di causa. Nella logica tutta l’argomentazione è fatta di sillogismi e ogni sillogismo è retto da una premessa maggiore, che è quella certa. Nella deduzione, come sappiamo, è l’universale, da cui si de-duce, si discende verso i particolari. L’universale è presente in tutte e tre le forme di sillogismo di cui parla Aristotele: deduzione, induzione e abduzione. Quindi, la mancanza di cognizione di causa, che Aristotele imputa ai sofisti, è quella mancanza della necessità della premessa maggiore che, potremmo dire, è il problema di tutti i sillogismi. Anche nella deduzione la premessa maggiore, l’universale è dato da che cosa? È costruito. Non posso dedurre l’universale da un altro universale, innescherei una progressio all’infinito. Non posso dedurre l’universale, posso costruirlo dal nulla attraverso l’induzione, cioè l’analogia. Cesare è sempre qui tutti i mercoledì sera, si presume che sarà qui anche mercoledì prossimo. Ne abbiamo la certezza? No, però facciamo conto che sarà così. Quindi, questa accusa, che Aristotele rivolge ai sofisti, di parlare senza cognizione di causa, è un’accusa nei confronti della quale forse sarebbe dovuto essere più attento, più prudente, perché questa mancanza di cognizione di causa, cioè di una certezza della premessa maggiore… Nel sillogismo la premessa maggiore non è né può mai essere certa, è sempre – e lo dirà tra poco – un si dice, un si pensa. Tutti gli animali sono mortali: come lo sai? Hai preso in considerazione anche quelli futuri, che ci saranno tra dieci milioni di anni? No. Quindi, questo universale non è un universale ma un particolare. In effetti, l’accusa che Aristotele rivolge ai sofisti si rivela non come un’accusa ma è come se dicesse: sì, i sofisti non avevano cognizione di causa, ma non potevano averla, e non potevano averla nemmeno i geometri o chi per loro, perché anche il geometra si fonda sul sentito dire, sul si pensa, sul si crede. Poi, andando avanti aggiunge delle cose precise, come la matematica, certo, ma alla base, all’origine, non c’è niente di preciso. La sofistica è la prova del fatto che i greci sono decaduti in quella lingua che Nietzsche, una volta, ha definito “la più parlabile di tutte le lingue”. Il luogo comune. E lui doveva ben sapere che cos’è la grecità! Va tenuto presente che nel IV secolo i greci erano completamente assoggettati al dominio del linguaggio. Non è che prima non lo fossero, prima non tematizzavano la cosa, non la concettualizzavano, ma non è che non fossero sotto il dominio del linguaggio, ciascuno non è altro che linguaggio. Bisogna comprendere che cosa significa riportare il parlare da questa esteriorizzazione dell’esserci greco, da questo conversare e chiacchierare, al punto in cui Aristotele può dire: il λόγος è λόγος ούσίας “parlare della cosa, di ciò che essa è”. Λόγος ούσίας è “parola che dice la cosa”, solo che la dice attraverso la δόξα, attraverso l’opinione. Questo emergerà nelle pagine successive. Aristotele si pone agli antipodi di ciò che viveva intorno a lui, che aveva di fronte nel mondo concreto. Non bisogna pensare che ai greci la scienza sia piovuta dal cielo. Anzi, essi si sono completamente dispersi nella esteriorità. Al tempo di Platone e Aristotele la chiacchiera aveva talmente impregnato di sé l’esistenza che ci vollero gli sforzi di entrambi per mettere in pratica quanto possibile le potenzialità della scienza. Sappiamo bene gli sforzi compiuti da Platone e Aristotele. Qual è stato lo sforzo più grande? Liberarsi dalla chiacchiera, proibire di interrogarla: non si deve andare oltre. Il fatto decisivo è che essi non hanno acquisito una nuova possibilità di esistenza traendola da qualche altra parte, per esempio, dall’India – quindi dall’esterno – ma dalla vita greca stessa: misero in pratica le possibilità del linguaggio. È questa l’origine della logica, la dottrina del λόγος. L’interpretazione attuale non è adatta a comprendere la logica. La interpretazione attuale è la logica medioevale, cristiana, diventata poi logica formale, cioè, una logica che ha dimenticato il suo inizio, che è retorica, è semplicemente retorica ma censurata. Analogamente, anche il modo corrente di concepire la retorica costituisce un ostacolo alla comprensione della Retorica aristotelica. Nell’edizione delle opere curata dall’Accademia di Berlino, la Retorica è stata messa alla fine. Non si sapeva bene che farsene, dunque in coda! È la prova della più totale insipienza. Da lungo tempo la tradizione non è stata più in grado di comprendere la retorica, nella misura in cui essa si è ridotta a una disciplina scolastica fin dall’ellenismo e dall’alto Medioevo. Il senso originario della retorica era scomparso da tempo. È chiaro che qui l’intendimento di Heidegger è di riprendere la retorica aristotelica e di ritornare all’inizio per comprenderlo, per ascoltarlo, per lasciarlo parlare, cosa che ha fatto anche con gli antichi. Ora, se si tralascia di interrogarsi sulla funzione concreta della logica aristotelica, ci si priva della possibilità fondamentale di interpretarla in modo da far emergere con chiarezza di fatto che la retorica non è che la disciplina in cui si compie esplicitamente l’autointerpretazione dell’esserci. La retorica non è altro che un’autointerpretazione dell’esserci, dell’uomo che interpreta se stesso. Dice in un altro modo ciò che dicevamo forse la volta scorsa: ciascuno vede nient’altro che il suo discorso. È questo che vede, che tocca, che assaggia: il suo dire; senza il suo dire non c’è niente da vedere, né da toccare, né da gustare. Quando gusto un cioccolatino, è chiaro che interviene il senso del gusto, il sapore, ecc., ma interviene il mio discorso intorno al cioccolatino, che lo fa essere quello che è, e me lo fa gustare nel modo in cui lo gusto, sennò non c’è nessun cioccolatino, non c’è niente. La retorica altro non è che l’interpretazione dell’esserci concreto, l’ermeneutica dell’esserci stesso. È questo il senso della retorica perseguito da Aristotele. Il parlare nel modo del “parlare nel discorso” – nell’assemblea popolare, in tribunale, nelle occasioni solenni –, queste possibilità del parlare sono casi particolarmente rilevanti del parlare abituale, come esso parla nell’esserci stesso. Qui si comincia a intravedere l’intendimento di Aristotele nella Retorica: lui muove, certo, dal parlare comune e poi prende in esame i casi in cui il parlare, che è sempre un parlare con altri, è situato in un modo particolare, come il parlare a un’assemblea, il parlare in un tribunale, ecc.; anche più comunemente in una conferenza si parla in modo differente da come si parla chiacchierando con gli amici, non è la stessa cosa. E qui emerge quello che dice Heidegger rispetto al “come” del λόγος: ciascuno è, certo, nel λόγος, ma nel modo  in cui si trova in quel momento, ciò che lui chiama situatività. Nell’interpretazione della Retorica andrà considerato il modo in cui vi vengono già esplicitate alcune possibilità fondamentali del parlare dell’esserci. Tra poco parlerà della retorica come possibilità anziché come τέχνη. Certo, è anche una τέχνη, ma soprattutto è una possibilità di trovare le varie possibilità per cui il discorso venga accettato, accolto, da chi ascolta. Solo se teniamo presente questo terreno dell’esserci greco possiamo comprendere come la definizione dell’uomo in quanto ζῶον λόγον ἔχον non sia né un’invenzione né una casualità, ma rispecchi il modo in cui il greco intende primariamente il suo esserci. Per il greco il linguaggio è il modo in cui lui è. Il suo dire, il suo parlare continuamente è lui, solo dopo è avvenuta una separazione tra me e le cose che dico, per i greci questa non c’era ancora. Dobbiamo quindi ripercorrere brevemente le definizioni principali che Aristotele dà del λόγος in quanto discorrere. /…/ L’εύδαιμονία (felicità, soddisfazione) è un determinato essere-reale della vita come tale;… Nel senso che ciascuno a modo suo cerca la soddisfazione. …in riferimento all’άρετή, cioè al poter disporre della possibilità di essere dell’ente in questione. Bisogna qui sempre tenere conto che Heidegger introduce dei termini greci fornendone una traduzione personale: άρετή si traduce generalmente con “virtù”, mentre per lui questa virtù è il poter disporre della possibilità di essere dell’ente in questione. Ora, però, poiché esiste una molteplicità di possibilità di essere di un vivente, ci si chiede come debba essere articolata questa molteplicità, in riferimento alla quale le diverse άρεται sono possibilità di essere dell’uomo. A pag. 143. Tale possibilità si manifesta nel fatto che gli uomini sono l’uno con l’altro nel modo dell’esortare, persuadere, ammonire. Queste tre cose, di cui parla Heidegger, traendole da Aristotele, sono i modi dell’άρετή, come la definisce lui, come il poter disporre della possibilità di essere dell’ente in questione, cioè dispongo della possibilità di dirlo nel modo in cui voglio. Nel modo in cui voglio, sì, certo, però il modo in cui, di fatto, questa virtù si esprime in queste tre modalità: esortare, persuadere e ammonire, e cioè imporre la propria volontà sull’altro. In quanto si lascia dire qualcosa, l’uomo è λόγον ἔχον da un nuovo punto di vista: egli si lascia dire qualcosa nella misura in cui presta ascolto;… Qui introduce questo nuovo elemento: il prestare ascolto, il lasciarsi dire da qualcun altro. …e non presta ascolto per imparare qualcosa, ma per avere una direttiva in merito al prendersi cura pratico e concreto. Cioè: sapere cosa fare. Ciascuno presta ascolto all’altro perché cerca di sapere dall’altro come lui debba fare. Certo, può anche ascoltare per negare che sia quella la cosa che deve fare, ma comunque in questo caso ciò che deve fare è negare ciò che l’altro dice. Il sapere prestare ascolto è una determinazione della ὄρεξις. Il λόγον ἔχον in questo secondo senso è definito da Aristotele anche in quanto ἂλογον (non discorso). La ὄρεξις non è parlare, ma udire, prestare ascolto. Aristotele si serve del termine ἂλογον in due sensi: 1. per λόγον ἔχον nel modo del prestare ascolto; 2. per quel modo di essere del vivente che non ha alcuna relazione con il parlare. A questo proposito non bisogna dimenticare che anche le determinazioni di θρεπτικόν (nutrizione) e αύξητικόν (riproduzione) sono determinazioni ontologiche fondamentali tanto quanto l’αἴσθησις. Anche la nutrizione sarebbe concepita in modo sbagliato se la si intendesse come processo fisiologico. La riproduzione è “mettere al mondo”, la nutrizione è “trattenersi nel mondo”. Anche queste cose, che sembrano fuori del linguaggio, ἂλογον, sono comunque nel linguaggio; è un mettere al mondo e un trattenersi nel mondo, cioè, un volere fare qualcosa. A pag. 144. Il mettere al mondo è un determinato modo dell’essere, orientato, per la precisione, sull’idea fondamentale dell’essere in senso greco. Lo si può vedere nella riproduzione: mettendo al mondo un altro esemplare della sua specie, un essere vivente trattiene se stesso nel suo essere. La riproduzione è il modo dell’“esserci sempre” di un essere vivente, poiché essere, per i greci, significa essere presente, e precisamente essere sempre presente. L’essere per i greci, lo sappiamo, è l’essere presente. Ora, da questo passo emerge che μετέκειν τοῡ θείου non significa trovarsi in un rapporto religioso con Dio, cioè θεῖον non ha nulla a che fare con la religione, ma è una perifrasi del concetto di essere, nel modo dell’“essere sempre”. Tradurre θεῖον con “religione” è pura invenzione. Il concetto di Dio è totalmente differente da quello poi imposto dal cristianesimo; θεῖον era la totalità, ciò che è sempre, che permane. La definizione dell’uomo in quanto ζῶον λόγον ἔχον mostra di avere una portata assai più ampia di quanto non sembrasse in un primo momento: 1. Nella definizione stessa: ζωή πρακτική μετά λόγου (il vivente che agisce nel linguaggio). 2. Le possibilità ontologiche dell’uomo, di cui egli può disporre, vengono suddivise in base a questa definizione. Le sue possibilità ontologiche seguono al fatto che sia parlante. 3. Come λόγος viene designato lo όρισμός, il vero e proprio parlare con il mondo. Noi parliamo continuamente definendo. Definiamo, quindi, giudichiamo; ogni affermazione è un giudizio. A pag. 145. Capitolo 14. La definizione fondamentale della retorica e del λόγος stesso in quanto πίστις. Πίστις è generalmente tradotto con “fede”, ma Heidegger lo intende in modo più ampio, non tanto come la fede in qualche cosa ma come la fede che occorre, attraverso la retorica, instillare nell’altro che ascolta, il quale deve avere fiducia in me che sto dicendo quelle cose. Come possiamo ricavare da Aristotele un’idea in merito al fatto che per i greci l’essere-parlante sia stato il fenomeno fondamentale della loro esistenza, e come ciò sia stato possibile? Per nostra fortuna, di Aristotele possediamo una Retorica, che abbraccia i fenomeni specifici del parlare. Ma non va dimenticato che la retorica intesa come riflessione sul parlare… La retorica come una riflessione sul parlare. Ecco perché non la pone come una τέχνη: è una riflessione sul parlare, sul come si parla. …è più antica della Retorica aristotelica. Tra le opere di Aristotele ci è tramandata anche la Retorica ad Alexandrum, che però non è di suo pugno. L’ipotesi più attendibile è che abbia origini prearistoteliche (Spengel la attribuisce ad Anassimene). L’effettiva meditazione sul parlare viene fatta risalire a due oratori siciliani, Tisia e Corace. La prima esposizione sistematica si deve però ad Aristotele. Non si tratta di un caso, ma del fatto che egli disponeva del giusto sguardo obiettivo e della elaborata concettualità adatti al λέγειν (dire) e a tutti i fenomeni che giungono al linguaggio. La questione è la seguente: in che senso il λέγειν è la determinazione fondamentale dell’esserci stesso nel modo concreto del suo essere nella sua quotidianità? È una domanda importante: in che modo il dire è ciò che ci determina fondamentalmente quotidianamente? In altri termini, come accade che noi stessi siamo il dire, siamo le cose che diciamo? In base ad alcuni capitoli caratteristici della Retorica domanderemo, a nostra volta, che cosa ne deriva per l’esserci, qualora esso non si trattenga esplicitamente nel discorrere. /…/ Che cosa significa in generale retorica? In che senso la retorica ha a che fare con il λέγειν? Nel libro I, capitolo 2, Aristotele definisce la retorica come una δύναμις (potenza, possibilità). Tale definizione va tenuta presente a fronte del fatto che Aristotele a volte la definisce anche una τέχνη. Quest’ultima designazione è inappropriata, mentre δύναμις è la definizione corretta. “Ρητορική è la possibilità di vedere, in ciò che di volta in volta è dato, ciò che parla a favore di una cosa che è a tema del discorso, di vedere di volta in volta ciò che può parlare a favore di una cosa”. Questo è ciò che fa la retorica. La retorica è questa possibilità di vedere ciò che parla a favore di una certa cosa. Una δύναμις: ho appena detto che l’espressione τέχνη, talora utilizzata, non va considerata la definizione fondamentale. Certo, è anche τέχνη, ma la retorica non è propriamente questo. La retorica è δύναμις in quanto rappresenta una “possibilità”, una possibilità di parlare in determinati modi. In quanto tale, la retorica non ha il compito del πεῖσαι (convincere, persuadere), e nemmeno quello di plasmare una determinata convinzione in merito a una cosa, installandola nelle teste altrui, al contrario: essa rappresenta soltanto una possibilità del discorrere per il parlante, nella misura in cui egli è deciso a parlare avendo come scopo il πεῖσαι. Non è il convincere in quanto tale, ma è la possibilità di trovare argomenti, che poi producono questo effetto di convincere, ma la cosa fondamentale è reperire questi argomenti. A pag. 147. La ṕητορική non ha uno specifico ambito di competenza che possa in qualche modo essere circoscritto. E poiché non ce l’ha non va definita come una τέχνη. La ṕητορική non è una τέχνη, però è pur sempre τεχνικόν. Anche se non è una tecnica, ha comunque a che fare in qualche modo con la tecnica. Essa fornisce un orientamento su qualcosa, περί ἒκαστον (il particolare, l’elemento); ha a che fare “con ciò che è immediatamente dato”, con l’ente che in ogni caso “ci” è. Questo è un rimando a ciò che dicevo prima rispetto al sillogismo e alla premessa maggiore, e cioè: la retorica ci fornisce l’elemento immediato. Ecco la premessa maggiore: è quell’elemento che poniamo come immediato: le cose stanno così, quindi, segue tutto ciò che vogliamo che sia. La retorica ci dice da dove traiamo questo: dal si dice, dall’opinione, dalla chiacchiera. Ma fa questo soprattutto: pone ciò che appare come immediatamente evidente, che nella retorica classica sarà ciò che è condiviso dai più, il luogo comune. Questo è anche l’insegnamento che facevano tutti i retori: si parte sempre dal luogo comune, da ciò che è comune a tutti, da ciò che tutti accolgono immediatamente, e se accolgono immediatamente questo allora farò in modo che possano accoglierne anche delle implicazioni, delle connessioni. Qui sta il lavoro della retorica: trovare tutti quegli argomenti a favore di quella premessa maggiore in modo tale che possano discenderne tutti i vari elementi che io voglio porre. Poi, che accada la persuasione, potremmo chiamarlo un effetto collaterale di questo lavoro. E non ne tratta in termini di descrizione, limitandosi cioè a descrivere le cose date in una determinata situazione; non si riferisce alle cose in quanto tali, ma allo stato delle cose, nella misura in cui se ne può trarre qualcosa… Non è che semplicemente descrive le cose. Lui dice come stanno le cose, dice che stanno in un certo modo particolare, perché da quello può trarre altre argomentazioni che a lui servono. Che fa l’umano quando pensa? Esattamente la stessa cosa, né più né meno, cioè, prende la realtà, che è quella che appare a lui in quel momento, e da quella realtà trae le considerazioni che confermano quello che lui crede e alla fine è convintissimo di avere detto come stanno le cose. …a ciò che parla a favore di qualcosa, che parla cioè a favore della convinzione che l’oratore vuole formare negli altri in merito a ciò che dice;… Che può anche essere lui stesso e convincersi che è proprio così: quel tizio mi ha guardato male, quindi, ce l’ha con me. Parto da questa premessa maggiore e trovo tutti i motivi che confermano questa cosa e alla fine sono convintissimo che quel tizio ce l’ha con me, per cui la prossima volta che lo incontro gli do un cazzotto. E, invece, l’altro non si era neanche accorto che io esistevo. Accade spesso. …a tema non è la cosa stessa, sono piuttosto le circostanze relative a una determinata utilità,… Sta dicendo che non si parla mai per sapere come stanno le cose ma per come utilizzare ciò che si crede che siano le cose. …nella misura in cui possono parlare a favore di qualcosa, a favore del πιστεύειν (convincere). Per farci un’idea concreta di ciò di cui tratta la retorica dobbiamo chiederci che cosa mai, in generale, possa essere in questione a favore di una cosa. Aristotele distingue tre specie di πίστεις tra cui trova anche il λόγος. Correttamente inteso, anche il λέγειν è un πιθανόν (un modo di persuadere l’altro). Un modo di persuadere l’altro, che abbia fede, πίστις, in ciò che io dico. Capita di sentire qualcuno dire a un altro: ti fidi di quello che dico? L’analisi sin qui sviluppata ha posto in evidenza la funzione fondamentale del λόγος: 1. in quanto determinazione della ζωή πρακτική (vita del fare, che si agisce); 2. in quanto carattere delle άρεται; 3. in quanto modo in cui l’ente diviene accessibile nel suo essere: λόγος ούσίας in quanto όρισμός (il discorso sulla cosa in quanto definizione di quella cosa). La formazione del concetto è caratterizzata dal fatto che l’ente viene definito, evidenziato e reso concepibile nel suo essere. È così che si crea il concetto: si immagina di dire la cosa, l’essere della cosa, e quindi si crea il concetto. Il concetto non è altro che il pensato, l’avere pensato un qualche cosa, quindi, l’avere giudicato. Vogliamo imparare a conoscere questa possibilità come una possibilità che si fonda nell’esserci. Che cos’è ciò che costituisce la concettualità? Qui è il λόγος stesso a indicarci la strada. In quanto modo fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo, il λέγειν rende possibile il fatto che il mondo si mantenga concepibile, determinabile in concetti. Sta soltanto dicendo che è perché c’è il linguaggio che possiamo farci dei concetti, cioè ci possiamo fare delle opinioni sul mondo, giudicare ciò che incontriamo. Ci imbattiamo così in un fenomeno fondamentale dell’esserci (intendiamo qui l’espressione “fenomeno” nel suo significato corrente: qualcosa che si mostra quando lo vediamo e ci riferiamo a esso in un determinato modo): il λόγος in quanto fenomeno fondamentale dell’esserci, nel senso che in virtù del λόγος, e per suo tramite, diviene evidente un modo della vita dell’uomo ancora più originario. L’analisi del λόγος ci ha permesso inoltre di appurare che per i greci questa definizione fondamentale dell’esserci è un ἒνδοξον (opinione)… La definizione della vita, la definizione di tutto, è un ἒνδοξον, è un’opinione. …è implicito nella grecità vedere l’esserci primariamente in questo modo. Per i greci si trattava sempre e comunque di opinione. E qui Heidegger ha ragione: quando noi pensiamo alla logica, noi pensiamo a una logica che allora non esisteva, neanche ai tempi di Aristotele, nonostante lui l’abbia formalizzata. Che cosa mancava presso i greci? Mancava l’idea che attraverso la logica si potesse giungere alla cosa, al come stanno davvero le cose; questo era assente nei greci, si è poi costruito con la logica medioevale. Possedere la Retorica aristotelica è per noi assai più utile che disporre di una filosofia del linguaggio. Della quale non ce ne facciamo niente. Nella Retorica abbiamo infatti a che fare con qualcosa che tratta del parlare inteso come modo fondamentale dell’essere in quanto essere l’uno con l’altro degli uomini, sicché una comprensione di tale λέγειν offre nel contempo la costituzione ontologica dell’essere l’uno con l’altro sotto nuovi aspetti. Noi siamo sempre l’uno con l’altro, anche quando parlo tra me e me sono sempre l’uno con l’altro. La retorica non è altro che una riflessione intorno al modo in cui ciascuno parla con l’altro. E sappiamo perché parla con l’altro: per persuaderlo, per convincerlo, per ammonirlo, per fargli fare delle cose. Questo deve essere sempre tenuto presente, sennò avrei motivo per parlare con l’altro? Questo ci porta immediatamente, saltando una serie di passaggi, ad affermare che tutto ciò che diciamo, ininterrottamente, è propaganda, è sempre e soltanto propaganda di ciò che si crede. È questo che sta dicendo: la retorica trova tutti i modi possibili e immaginabili, gli argomenti, modifica quello che vede, fa un sacco di cose, e a che scopo se non per propagandare una certa cosa, cioè ciò che il parlante crede. La propaganda poi è rimasta, è rimasta fino a Edward Bernays o a Gœbbels, è rimasta questa, cioè una serie di possibilità che si intravedono per modificare il dire in modo che l’uditore abbia fede in ciò che dico, che lo accolga e lo faccia suo. In questo modo io modifico l’ente, che in questo caso è l’uditore, e soddisfo così la volontà di potenza, cioè soddisfo il linguaggio: la volontà di potenza non è altro che il linguaggio. Quindi, poiché la Retorica offre l’accesso a questi fenomeni originari, è importante capire che cosa Aristotele intende con ṕητορική. La ṕητορική è una “possibilità di vedere”, e precisamente di vedere περί ἒκαστον (particolare), di volta in volta in ciò che si offre immediatamente in una determinata situazione dell’essere l’uno con l’altro, quell’alcunché che parla a favore di una cosa direttamente in discussione, in questione nel colloquio. Questa è la retorica: vedere immediatamente che cosa mi serve per, potremmo quasi dire, far vedere all’altro come stanno le cose, nei modi che voglio io, naturalmente. Da qui l’invenzione di quella famosa figura retorica, l’ipotiposi: il far vedere parlando la cosa stessa. Mediante il parlare si deve formare negli altri una determinata opinione. Chi si impadronisce della retorica si pone con ciò nella possibilità di vedere, di volta in volta, che cosa parla a favore di una cosa. Questa definizione ci fa capire che la retorica offre sì una certa competenza, tuttavia non nel senso che essa tratti di una specifica materia, come ad esempio l’aritmetica; essa non ha alla base qualcosa di dato, uno ύποκείμενον (sostrato, un qualcosa di dato)… Mentre la matematica ha sempre qualcosa di dato; infatti, lavora sui dati. …che sarebbe suo compito portare ala conoscenza; possiede il τεχνικόν, la possibilità di fornire una competenza, non però riguardo a un ambito di enti determinato e circoscritto, poiché in essa vengono al linguaggio, a seconda delle circostanze, una quantità di cose di varia natura, allo scopo di formare il πιστεύειν negli ascoltatori. Non è una tecnica perché l’oratore, di volta in volta, cambia gli argomenti, cambia le carte in tavola, a seconda di ciò che ha immediatamente davanti, di ciò che gli si offre. Per questo non è propriamente una τέχνη, perché è qualcosa di assolutamente mobile, duttile, cambia continuamente forma. Il che era una cosa che faceva andare fuori di matto Platone rispetto ai sofisti: la verità è quella, l’essere è quello, l’ente non si può discutere, l’ente è l’uno, è il bene, e i molti sono i cattivi. Scopo della retorica: vedere ciò che parla a favore di una cosa; parlando, formare il πιστεύειν in coloro a cui si parla, in merito a una questione di cui si sta dibattendo; formare una δόξα. Il πιστεύειν è una “opinione”, una δόξα, di cui ne va nel parlare, e che quindi, probabilmente, nella quotidianità dell’esserci, nell’essere l’uno con l’altro degli uomini, è qualcosa che li conduce, li domina. Se uno domina la δόξα domina tutto. L’essere l’uno con l’altro si muove all’interno di opinioni determinate e sempre modificabili sulle cose, non è cognizione, ma, appunto, “opinione”, δόξα;… Per questo non è una τέχνη, non c’è nessuna cognizione nella retorica, nessun dato, il dato lo si crea. Ecco, nella retorica il dato lo si crea ex nihilo. …una δόξα sulle cose da non intendersi nel senso che le cose portate al linguaggio sarebbero indagate tematicamente come tali. Il πιστεύειν, ovvero l’“essere di una certa opinione” all’interno dell’essere l’uno con l’altro, è ciò di cui ne va nel discorso stesso. Il dato è qualcosa che deve essere creato, perché sarà quello che poi l’ascoltatore dovrà accogliere come dato di fatto; ma è creato dal nulla, è creato dalle mie parole. Qui però πίστις non signifca “fede”, il “tenere per”, bensì ciò che parla a favore di una determinata cosa, riguardo alla quale si può ottenere un πιστεύειν (accordo, consenso).