M. Heidegger, Essere e Tempo
1 marzo 2017
Essere e Tempo è diviso in due parti. La prima parte. L’interpretazione dell’Esserci in riferimento alla temporalità e l’esplicazione del tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’essere. La seconda parte. Linee fondamentali di una distruzione fenomenologica della storia dell’ontologia sulla scorta della problematica della temporalità. La prima parte si suddivide in tre sezioni: 1 – L’analisi fondamentale dell’Esserci nel suo momento preparatorio. 2 – Esserci e temporalità. 3 – Tempo ed essere. Poi dice che La seconda parte è a sua volta tripartita… (pag. 56) Il problema è che la seconda parte non c’è, perché non l’ha mai scritta e non l’ha mai scritta perché, quando giunge alla fine della prima parte, si accorge che c’è un problema. Adesso, ve lo enuncio in modo spiccio, e cioè che in qualunque modo si dica dell’essere, questo essere è qualche cosa, non è niente e, allora, essendo qualche cosa è un ente, e questo gli è seccato moltissimo. La questione è che se lo pongo come qualche cosa, cioè lo entifico, mi cade la differenza ontologica, cioè l’essere diventa un ente. Lui tenta di risolvere la cosa, negli anni successivi, anche se non scriverà mai la seconda parte, ponendo l’essere non come ente ma come accadimento, come l’accadere (Ereignis). Non ponendolo più come un ente, come un qualche cosa che è, individuato, ma come un accadere, un evento. Ovviamente, anche questa soluzione comporta dei problemi, però… Infatti, tutto il suo lavoro dopo il 1927 è volto in questa direzione, cioè trovare una via per potere parlare dell’essere senza entificarlo. Ecco, allora, i vari rimedi, barrando l’essere, scrivendo Seyn anziché Sein, per dire che è l’essere ma non è l’essere, che però non risolve la questione. Cerca di risolverla in questi modi ma alla fine si accorge che non abbiamo le parole per dire l’essere così come lo intende lui, perché tutte le parole che abbiamo a disposizione sono comunque le parole che vengono dalla metafisica, cioè sono parole storiche, ci vengono da Platone, da Aristotele, e anche prima di loro. Quindi, non potendo non usare queste parole, cioè le parole della metafisica, ci troviamo a dire dell’essere ancora usando delle parole metafisiche.
L’Introduzione, a pag. 13, è divisa in due capitoli. Nel primo capitolo, Necessità, struttura e primato del problema dell’essere. Qui c’è già in nuce ciò di cui si tratterà, cioè del primato del problema dell’essere. Primo paragrafo Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell’essere. Qui è tutto ciò di cui parlerà il libro, cioè la priorità del porre l’essere come problema, il problematizzarlo. Benché la rinascita della “metafisica” sia un vanto del mostro tempo, il problema dell’essere è oggi caduto nella dimenticanza. Più avanti parlerà di deiezione dell’essere. Si crede infatti di potersi sottrarre alle fatiche di una rinnovata γιγαυτομχία περί τήϛ ούσίαϛ. Cioè, uno scontro tra Titani intorno alla sostanza. Eppure non si tratta di un problema qualsiasi. Esso non ha dato tregua al pensiero di Platone e di Aristotele, anche se ha senz’altro taciuto dopo di loro come problema tematico di una vera ricerca. Sono stati gli ultimi, dice, che si sono approcciati alla questione. Quanto essi acquisirono si è mantenuto fino alla Logica di Hegel, attraverso una serie di modifiche e di ritocchi. Che è un bel modo per dire che dopo Platone e Aristotele non è stato detto niente. Nessuno se ne occupa più. Ciò che quell’estremo sforzo del pensiero riuscì allora a strappare ai fenomeni… perché è di questo che si tratta, del fenomeno, ciò che appare; quando parlo dell’ente parlo di ciò che appare, del fenomeno. Non solo: ma sul terreno degli spunti greci per giungere all’interpretazione dell’essere si è costituito un dogma che, oltre a dichiarare superfluo il problema del senso dell’essere, ne legittima la omissione. Si dice: il concetto di “essere” è il più generale e vuoto di tutti, e resiste perciò a qualsiasi tentativo di definirlo. Che in parte è anche vero. Se è il concetto più generale e vuoto di tutti, come definirlo? D’altra parte, in quanto generalissimo, e come tale indefinibile, non ha neppure bisogno di essere definito. Il concetto di essere è diventato, per Heidegger, come quelle supposizioni che si danno come già acquisite nel discorso scientifico, cioè si presuppone che quella cosa sia quella cosa che si pensa che sia, anche se in questo caso non si sa bene che cosa sia, semplicemente è lì. Tutti lo impiegano continuamente e anche già comprendono che cosa si intende con esso. Perché è questa la questione bizzarra: nessuno sa che cosa sia, nel senso che non è definibile; tutti quanti lo hanno detto che è generale e vuoto e non è definibile, ciò nondimeno tutti in qualche modo sanno, non che cos’è, ma come si utilizza, per cui devono averne un’idea da qualche parte. Che è quella cosa che interverrà poi come pre-comprensione dell’essere, nel senso che è già da sempre compreso, perché già da sempre utilizzato. In tal modo, ciò che, per il suo nascondimento, sospinse e mantenne nell’inquietudine il filosofare degli antichi, è divenuto chiaro e ovvio, a tal punto che colui che si ostina a farlo oggetto di ricerca è accusato di errore metodologico. Non si può costruire un metodo a partire da qualcosa che non è definibile. Poco dopo, a pag. 14, dice 1) L’”essere” è il concetto “più generale di tutti”. Illud quod primo cadit sub apprehensione est ens, cuius intellectus includitur in omnibus, quaecumque quis apprehendit. “Una comprensione dell’essere è già implicita in tutto ciò che uno coglie dell’ente.” Ma la “generalità” dell’”essere” non è quella del genere. L’essere non delimita la regione suprema dell’ente per il fatto che questo si articola concettualmente secondo generi e specie: οϋτε τό όυ γευοϛ. Cioè, l’essere non è il genere che comprende tutti i vari enti di questo mondo, è qualche altra cosa, perché sennò sarebbe un ente anche lui, un ente più grande ma pur sempre un ente. L’”essere”, secondo la denominazione dell’ontologia medioevale, è un trascendens. Cioè, è qualche cosa che non è immanente, non è qui adesso. Già Aristotele aveva riconosciuto l’unità di questo “generale” trascendentale, contrapposta alla molteplicità reale dei sommi concetti di genere, come l’unità dell’analogia. Nonostante la sua dipendenza dalla impostazione ontologica di Platone, Aristotele, con questa scoperta, ha posto il problema dell’essere su una base fondamentalmente nuova. L’essere non è l’ente che contiene tutti gli enti, è un’altra cosa. L’ontologia medioevale, specialmente nelle correnti tomistiche e scotistiche, ha discusso ampiamente tale problema, senza tuttavia giungere a una chiarificazione di fondo. E quando Hegel, infine, definisce l’“essere” come l’”immediato indeterminato” e pone questa definizione a fondamento di tutte le sue successive elaborazioni categoriali, non si discosta dalla visuale dell’ontologia antica, con la differenza che egli pone in disparte il problema aristotelico dell’unità dell’essere rispetto alla molteplicità delle “categorie” reali. Hegel ha posto la questione dell’essere in un modo un po’ particolare e sicuramente nuovo per l’epoca. Adesso bisognerebbe spendere qualche parola su Hegel, giusto per fare intendere. Potete pensarla così, molto rapidamente. Nel pensiero tradizionale e metafisico e nella logica, si è sempre posto il problema vero-falso, una proposizione può essere vera o falsa. Quello che è falso lo leviamo di mezzo e teniamo quello che è vero. Hegel giunge a intendere che anche il falso è importante, anche lui ha concorso alla costruzione del vero. Quindi, si tratta di un percorso che passa anche attraverso il falso, in qualche modo Hegel nobilita il falso che, invece, era sempre stato considerato qualcosa da eliminare. No, dice Hegel, non è da eliminare perché è anche attraverso questo che siamo diventati quello che siamo. Lui fa il famoso esempio del boccio, del fiore e del frutto. C’è prima il boccio, che poi si trasforma in fiore, ma non è che a questo punto il boccio lo buttiamo via. Il boccio non è il fiore, quindi sarebbe il falso rispetto al fiore, ma è stato la condizione perché avvenisse il fiore. La stessa cosa avviene per il fiore rispetto al frutto. C’è un percorso in cui ciò che viene storicamente indicato come falso, o come il non più importante, come molti pensavano, che ciò che gli antichi avevano detto era falso perché ciò che importava era ciò che si stava dicendo adesso: questo è vero, tutto ciò che hanno detto loro è falso. Per Hegel non è così, si tratta di un percorso che giunge alla possibilità, a un certo punto del percorso, di sintesi generale. Questa sintesi generale non è altro che il verificare come le cose si sono svolte, ma dopo, solo dopo, quando abbiamo il frutto possiamo considerare anche il fiore e il boccio e quale è stata la loro funzione, la loro importanza; soltanto dopo, in quella che lui chiama sintesi. Ora, anche la conoscenza avviene allo stesso modo. Si tratta di un percorso attraverso il quale il sapere si produce attraverso, come direbbe lui, uno stare a vedere dopo, cioè, noi adesso sappiamo che cosa ha portato alla Rivoluzione russa, a quella francese, ecc., mentre erano lì loro non sapevano, noi oggi lo sappiamo, lo sappiamo dopo, perché abbiamo di fronte a noi tutto il percorso. Ora, se il sapere si volge in questo modo, è chiaro che soltanto alla fine sarà possibile un sapere, il famoso Sapere Assoluto, soltanto alla fine di questo percorso, quando tutto il percorso dell’umanità sarà concluso, allora sarà possibile il sapere. È chiaro che questo Sapere Assoluto in qualche modo lo attribuisce a Dio, è lui che ha chiaro tutto quanto il percorso, ma anche gli umani in teoria potrebbero sapere, un Sapere Assoluto che giunge alla fine. Qua c’è l’obiezione che fa Heidegger E quando Hegel, infine, definisce l’“essere” come l’“immediato indeterminato”, immediato perché è ciò che si dà adesso un sapere, questo sapere che ho di tutto ciò che è trascorso è immediato, lo so adesso, ma rimane comunque indeterminato, nel senso che tutto ciò che è accaduto e che sta accadendo verrò a saperne dopo del suo perché, della sua logica, del suo motivo. Quindi, in questo momento è ancora indeterminato, ciò che stiamo facendo qui, oggi, è indeterminato nel senso che non sappiamo ancora tutto ciò che si sta svolgendo, tutto ciò che accadrà e che sarà determinato fra mille anni. Diciamo che alla fine si saprà tutto, si saprà tutto ciò che è accaduto e perché è accaduto, così come oggi possiamo dire della Rivoluzione russa, di quella francese o della storia romana, sappiamo cosa è accaduto e perché è accaduto, chi la stava facendo in quel momento la storia non lo poteva sapere. Questa è la questione del sapere, dell’essere in Hegel, detta in tre parole, giusto per dare un’idea. Ricordate i tre momenti di Hegel, tesi, antitesi e sintesi, sono come il boccio, il fiore e il frutto. Si afferma qualcosa ma, affermando qualcosa, se ne negano altre, ma queste non devono essere eliminate, perché fanno parte di un percorso storico, intellettuale, del percorso degli umani, il quale arriva alla sintesi ma questa sintesi di volta in volta è indeterminata finché non si arriva alla sintesi finale in cui tutto è saputo. Questo sarebbe appunto il Sapere Assoluto di Hegel. Poi Heidegger dice 2) Il concetto di “essere” è indefinibile. Prima parlava dell’essere come del concetto più generale, adesso dice che è indefinibile. Questo carattere fu dedotto dalla sua estrema generalità. (pagg. 14-15) Qui cita Pascal Non si può cominciare a definire l’essere senza cadere in questa assurdità, e cioè che non si può definire una parola senza cominciare con l’è, vale a dire, che si esprime ciò che si sottintende. Voglio sapere che cos’è l’essere ma dico l’essere è, quindi già uso l’è. Quindi, per definire l’essere occorrerebbe dire è e così impiegare la parola definita nella sua definizione. (nota pag. 15) . Segue poi il punto 3) L’”essere” è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso dell’”essere”, e l’espressione è “senz’altro” comprensibile. Tutti comprendono che cosa significhi: “Il cielo è azzurro”, “Sono contento” e così via. Essa rende manifesto che in ogni comportamento e in ogni modo di essere che ci ponga in relazione con l’ente in quanto ente si nasconde un enigma. Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del senso dell’”essere”. Sta dicendo che siamo ancora rimasti a prima di Platone e di Aristotele perché, come dicevo all’inizio, viviamo in questa comprensione. Se io dico “sono contento”, io capisco questo “sono”, nonostante il concetto di essere rimanga totalmente oscuro. E, quindi, c’è una sorta di pre-comprensione, devo già sapere di che cosa sto parlando quando dico “sono contento”. Ora, questa pre-comprensione, ve lo anticipo, non è altro che la storicità. Noi tutti viviamo, dice Heidegger, all’interno di un orizzonte storico, che è quell’orizzonte che mi consente di avere già a disposizione degli elementi, perché io vengo da una tradizione, quando io nasco mi insegnano a parlare, sì, certo, ma a parlare come? Mica come parlava Dante o come parlava Cicerone, mi insegnano a parlare come si parla oggi. Oggi si parla in modo diverso da come si parlava quando io ero bambino, mia mamma dava del voi a sua nonna, cosa che credo oggi non esista più da nessuna parte. Quindi, io nasco all’interno di un orizzonte, per usare i termini di Heidegger, che comporta già una pre-comprensione ed è già determinato storicamente. Cioè, io nasco all’interno di un sistema di relazioni, di concatenazioni, di significati, che mi preesiste, che io apprendo ma apprendo queste cose in quel momento, quelle cose, cioè, che significano, che valgono, che funzionano in quel momento, cioè, io nasco già storicizzato appunto perché ciò che mi si insegna non è ciò che insegnavano ai tempi di Cicerone. Su questo Heidegger insiste molto, sulla questione del tempo, della storicità, che per lui è fondamentale, perché tutto si svolge all’interno di questa storicità. È la storicità che rende ciascuna cosa quella che è, in quel momento, la storicità, vale a dire, quell’orizzonte che mi si apre, che mi offre una comprensione delle cose in base a ciò che io sono in questo momento, in base al mio progetto in questo momento. Se io posso progettare adesso un qualche cosa è differente da ciò che potevo progettare vent’anni fa, perché so altre cose, perché conosco altre cose, penso in modo diverso. Questo orizzonte in cui ciascuno nasce e in cui si trova necessariamente, non può evitarlo, possiamo dirlo con una parola sola: è il linguaggio. Ciascuno nasce all’interno del linguaggio, ma anche del modo con cui questo linguaggio esiste in quel momento storico. Le relazioni, le connessioni, che in un certo momento storico sono determinanti e fanno sì che una certa persona costruisca una certa teoria, non sono le stesse di cento anni prima dove altre condizioni, altre relazioni, altre connessioni tra le cose imponevano o avrebbero imposto la costruzione di una teoria differente. Quindi, la questione della storicità è così importante per Heidegger perché è ciò che mostra come ciascuno si trovi preso nel suo progetto ma questo progetto esiste all’interno di una storicità che fa essere quel progetto quello che è. Storicità, come dicevo prima, è il fatto di trovarsi a progettare in questo momento e, quindi, siccome qualunque cosa, cioè l’ente, trae la sua enticità, il suo essere, dal progetto in cui è inserito, e questo progetto è quello che è solo storicamente, perché fuori dalla sua storicità, non ci potrebbe essere nessun progetto, perché sarebbe come far muovere un progetto da nulla. Il progetto muove da qualcosa, dalle mie intenzioni, da cose che voglio fare, che non voglio fare, da una miriade di cose che attengono alla mia storicità, cioè alla storicità del progetto in quel momento. Quindi, la questione della storicità è per Heidegger ciò che rende possibile lo stesso progetto, il progetto è possibile perché è un progetto storico, se è un progetto è perché è storico, cioè, è storico perché nascendo in questo momento è vincolato ciò che sta accadendo in quel momento, da quella infinità di relazioni, di connessioni con infinite cose. Tutto questo rappresenta la storicità che fa essere il mio progetto un progetto, senza tutte queste cose non ho nessun progetto, perché non posso desiderare niente, non posso congetturare niente, non posso volere niente, per volere un qualcosa occorre che ci sia un qualche cosa alle spalle, diciamola così, che mi dice “adesso voglio fare quella cosa lì”.
Siamo a pag. 16 al paragrafo 2 La struttura formale del problema dell’essere. Questo problema, dice Heidegger, dobbiamo porcelo di nuovo visto che in tutti questi secoli nessuno se l’è più posto e, quindi, non sappiamo mai di che cosa stiamo parlando, perché se non sappiamo che cosa diciamo quando diciamo “è questo”, “è quello”, non sappiamo niente, viviamo di chiacchiera, direbbe Heidegger. Il problema del senso dell’essere deve essere posto. Se esso sia un problema fondamentale o il problema fondamentale, è una questione che richiede di essere chiarita in modo adeguato. O lo poniamo come un problema fondamentale oppure “il” problema fondamentale, cioè l’unico problema fondamentale. Ogni posizione di problema è un cercare. Nel nostro caso ciò che è cercato è l’essere. Più avanti, a pag. 17, dice Non sappiamo che cosa significa “essere”. Ma per il solo fatto di chiedere: “Che cosa è “essere”? ci manteniamo in una comprensione dell’“è”, anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo “è”. Chiedendomi che cos’è l’essere sto già usando questo “è” pur non sapendo ancora che cos’è, mi trovo quindi in una posizione veramente difficile. E nemmeno conosciamo l’orizzonte entro cui cogliere e fissare il senso dell’essere. Questa comprensione media e vaga dell’essere è un fatto. Comprensione media e vaga è la comprensione di tutti, sono stanco, sono contento, tutti capiscono che cosa vuol dire senza assolutamente sapere che cosa voglia dire “essere”. Più avanti, stessa pagina, … il cercato è l’essere, ciò che determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso. Cioè, io so che mi riferisco a un ente perché so già che quello è un ente. Lo so perché, dice Heidegger, c’è una pre-comprensione dell’essere che mi dice che quello è un ente, anche se ancora non so che cosa sto dicendo con “è”. A pag 18. In quanto cercato, l’essere richiede pertanto un suo particolare modo di esibizione, distinto in linea essenziale dallo scoprimento dell’ente. Se ci chiediamo cos’è l’essere deve pur mostrare la sua presenza, la sua esistenza, se lo stiamo cercando. Di conseguenza, anche il ricercato, il senso dell’essere, richiederà un apparato concettuale suo proprio, che, di nuovo, si contrapporrà in linea essenziale ai concetti in cui l’ente ottiene la determinazione del proprio significato. Se cerco l’essere l’apparato concettuale che dovrò utilizzare non sarà propriamente lo stesso che utilizzo rispetto all’ente. Se l’essere costituisce il cercato, e se essere significa essere dell’ente, ne viene che, nel problema dell’essere, l’interrogato è l’ente stesso. Io interrogo l’ente, certo, ma per sapere qual è l’essere dell’ente, però, devo partire dall’ente, non posso partire dall’essere. L’ente, per così dire, sarà inquisito a proposito del proprio essere. Ma perché l’ente mostri senza falsificazione i caratteri del proprio essere, bisognerà che prima, da parte sua, risulti accessibile così com’è in se stesso. Qui c’è la derivazione di Heidegger da Husserl, la fenomenologia, il fenomeno, ciò che si mostra. Il motto di Husserl: alle cose stesse, cioè, cercare nelle cose stesse ciò di cui si tratta; non andare a cercare ciò che queste cose possono o non possono fare, come le vediamo a seconda dei vari umori, ecc., ma andare alle cose stesse. Porre la questione in questi termini comporta dei problemi, ma questo è un altro discorso. Dice che l’essere si trova nel che è, nell’esser così, nella realtà, nella semplice presenza, nella sussistenza, nella validità, nell’esserci, nel c’è. È lì che c’è l’essere. In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? Da quale ente prenderà le mosse l’apertura dell’essere? Il punto di partenza è indifferente o un determinato ente possiede un primato per quanto concerne l’elaborazione del problema dell’essere? A questa domanda dovreste già saper rispondere. Qual è l’ente privilegiato che può chiedersi che cos’è l’essere? È l’uomo, ovviamente. L’uomo è quell’ente per cui possiamo parlare di esserci, è lui che è, è lui che è preso nel progetto, è lui che si trova a interrogarsi sull’essere dell’ente. A pag. 19 dice Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: rendere trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è essa stessa determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Anche il cercare una posizione, aver a che fare con raziocinio con questo problema, è come se anche questo partisse da una sorta di pre-comprensione, come diremmo ancora, è già all’interno del linguaggio altrimenti non potrei chiedermi niente. Posso pre-comprendere perché sono nel linguaggio. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede una adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere. Il che comporta una sorta di circolo vizioso: per conoscere l’essere devo conoscere l’ente ma, per conoscere l’ente, devono conoscere l’essere.
Nel paragrafo 3 ci parla de Il primato ontologico del problema dell’essere. A pag. 21 dice Finora abbiamo motivato la necessità della ripetizione del problema, in parte con la dignità della sua origine, ma principalmente con la mancanza di una risposta determinata e perfino con l’assenza di una impostazione soddisfacente del problema stesso. Non solo è un problema degno di essere posto ma nessuno se ne è mai occupato. Ma si può chiedere a che mai possa servire una questione come questa. Resta semplicemente, o è in generale, soltanto l’occasione per una speculazione nebulosa introno alle più generali generalità, o è ad un tempo il più fondamentale e il più concreto dei problemi? È ovvio qual è la risposta di Heidegger. L’essere è sempre l’essere di un ente. Come dire che non c’è nessun essere se non c’è l’ente. Ecco perché prima diceva che occorre partire dall’ente, perché è l’ente che ha l’essere. La totalità degli enti, secondo i suoi diversi domini, può divenire il campo in cui scoprire e delimitare particolari ambiti di cose, i quali (ad esempio la storia, la natura, lo spazio, la vita, l‘Esserci, il linguaggio, ecc.) possono essere tematizzati come oggetti delle corrispondenti ricerche scientifiche. Poi fa tutta una serie di discorsi intorno al fatto che le scienze non si occupano dell’essere, puntano soltanto alla loro funzionalità. In definitiva, la scienza non pensa, non pensa filosoficamente, ma per lui questo significa non pensare affatto, cioè non porsi il problema autenticamente, non interrogare il problema dell’essere. A pag. 23, Il problema dell’essere mira perciò alla condizione a priori della possibilità non solo delle scienze che studiano l’ente, che è tale in questo o quel modo, e che si muovono quindi già sempre in una comprensione dell’essere, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le fondano. Non soltanto tutte le scienze muovono da questa idea che comunque le cose siano, quindi, da una pre-comprensione media, direbbe lui, media cioè stupida, ma anche tutte le ontologie su cui si fondano le scienze. Oggi, per esempio, va di moda la filosofia analitica, che ha anch’essa un fondamento metafisico, cioè muove dall’idea che le cose siano quelle che sono, quelle che io dico che sono, così per virtù propria. Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se prima non ha sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale. Perché dice questo? Tenendo conto di ciò che dicevo prima, potete porre la cosa in questo modo. Lui ha dato come titolo Essere e tempo, Sein und Zeit, però, potremmo scrivere la e con l’accento, come copula, Essere è tempo. Cosa vuol dire che l’essere è tempo? Che l’essere è la storicità, è quell’orizzonte entro il quale io esisto, io sono nato, io penso le cose che penso, cioè, tutto ciò che mi ha fatto diventare quello che sono e che continua a consentirmi di essere quello che sono. L’essere è la temporalità, è la storicità di me che sto parlando, il mio essere è la mia storicità, è il mio trovarmi continuamente, incessantemente e inesorabilmente preso entro tutto ciò che mi consente adesso di essere qui a dire le cose che dico. Se non ci fosse stato il mio passato, tutte queste cose non le direi. Se non ci fosse la storicità, se non ci fosse il tempo, cioè, il mio essere storico, io sarei niente, sarei senza passato, senza storia, sarei un vegetale. Anzi, non potrei nemmeno dire di essere un vegetale.
Siamo a pag. 24 al paragrafo 4 Il primato ontico del problema dell’essere. È quello che ha detto prima: per occuparmi dell’essere devo occuparmi dell’ente, cioè, non posso occuparmi dell’essere, della storicità, senza che ci sia l’ente. Io sono quell’ente privilegiato, l’esserci, che si interroga sull’ente. È per questo che dice che si parte dall’ente, perché io sono quell’ente da cui parto per chiedermi che cos’è l‘essere. La scienza può essere definita in generale come l’insieme di una interconnessione fondata di proposizioni vere. È una definizione di scienza fra le tante, neanche delle peggiori. Questa definizione non è né completa né tale da investire la scienza nel suo senso. In quanto comportamenti dell’uomo le scienze hanno il modo di essere di questo ente (l’uomo). Le scienze sono fatte dall’uomo, quindi avranno il modo di comportarsi dell’uomo. È la stessa cosa che diciamo talvolta, che ciascuno è fatto di linguaggio e si muove, si comporta, quindi, come è fatto il linguaggio, non può fare altrimenti. Esso è da noi designato con il termine Esserci. Che cosa intende Heidegger con Esserci? L’uomo, l’uomo in quanto storicamente determinato. La ricerca scientifica non è né l’unico né il più immediato dei modi possibili di essere di questo ente. L’Esserci è inoltre distinto dagli altri enti. È opportuno chiarire provvisoriamente questa distinzione. A tal fine la discussione dovrà anticipare le analisi che seguiranno e che sole forniranno l’autentica dimostrazione. L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente… quando Heidegger parla di onticamente si riferisce all’ente. Onticamente, esso è caratterizzato piuttosto dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. Per via del fatto che l’uomo è quell’ente particolare che si chiede che cos’è l’essere, esiste l’essere, quindi, ne va dell’essere stesso. Se non esistesse l’uomo, saremmo nelle mani della scolopendra. Esisterebbe l’essere nel caso specifico. Per Heidegger probabilmente no. Quindi, è perché c’è l’uomo, l’Esserci, che si domanda che cos’è l’essere, che esiste l’essere. Ma è un esistere particolare, perché dice La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Non è che c’è l’uomo da una parte e l’essere dall’altra, c’è l’uomo che si interroga sull’essere, domanda che cos’è l’essere e, domandandosi che è l’essere, lo fa esistere tout court. La mia storicità esiste - l’essere è questo, è la storicità, è il tempo - esiste perché io posso domandarmi delle cose, perché posso parlare, posso fare cose, avere progetti, e quindi, fra tutte queste cose, posso domandarmi che cos’è l’essere. Se non ci fossi io a domandarmelo, esisterebbe l’essere? E qui torniamo alla questione acuta di Heidegger: senza l’ente non c’è l’essere, ma non un ente qualunque. Quindi, l’essere è prodotto dall’ente? Sì, anche se Heidegger non sarebbe del tutto d’accordo, però sicuramente è d’accordo sul fatto, lo dice, che senza l’ente, cioè senza di me, non c’è l’essere. Il che, di nuovo, significa: l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. L’Esserci, cioè l’uomo, si comprende nel suo essere. Come fa a comprendersi, come fa a sapere che è un uomo, come faccio a sapere di essere Luciano Faioni, di essere qui con voi? Grazie a tutto ciò che ho acquisito, alla mia storicità, al mio essere storico. È proprio di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto ad esso. È proprio perché l’Esserci è questo ente privilegiato che consente all’essere di aprirsi a se stesso, cioè di mostrarsi come essere. Il che conforta ciò che dicevamo prima, e cioè che senza di me l’essere non c’è, quindi, è una produzione di quell’ente che io sono, in quanto Esserci, come quell’ente privilegiato che può domandarsi che cos’è l’essere. La peculiarità ontica dell’Esserci sta nel suo esser ontologico. Cioè, la peculiarità dell’Esserci in quanto ente sta nel suo essere ontologico, cioè, sta nel fatto che io sono quello che sono grazie all’essere di cui sono fatto, ma il mio essere è la mia storicità. Quindi, c’è una coesistenza continua, non c’è l’ente senza l’essere e non c’è l’essere senza l’ente. Poco dopo a pag. 25. L’Esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso. Queste possibilità l’Esserci o le ha scelte da sé o è incappato in esse o è cresciuto già da sempre in esse. Il problema dell’esistenza, in ogni caso, non può essere posto in chiaro che nell’esistere stesso. Qui sta il pragmatismo, per dirla così, anche se Heidegger non è passato alla storia come pragmatista, e cioè posso intendere, mettere in chiaro la questione dell’esistenza soltanto nell’esistere stesso. L’esistente per Heidegger non è qualunque cosa, questo aggeggio qui c’è ma non esiste, l’esistente è sempre quel particolare ente che l’Esserci, l’uomo. Il problema dell’esistenza è un “affare” ontico dell’Esserci. Sta dicendo semplicemente che il problema dell’esistenza riguarda l’ente che si interroga sull’essere. Il problema intorno ad essa (la struttura ontologica dell’esistenza) mira invece a esplicare ciò che costituisce l’esistenza. Dobbiamo chiederci che cosa costituisce questa esistenza. Quindi, non una filosofia dell’esistenza ma una domanda intorno all’esistenza, che è diverso. All’insieme di queste strutture diamo il nome di esistenzialità. Tutte queste strutture che ci consentono di interrogarci intorno all’esistenza.