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1 febbraio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Heidegger ci sta conducendo lungo un cammino di grande interesse, mostrandoci passo dopo passo come ogni atto, quindi, ogni atto di parola, sia un atto di potere, di dominio. Lui dice che il λόγος è όρισμός, cioè, una definizione: parlare è definire. In effetti, se non si definisse non si parlerebbe. Definire è dominare l’ente. Ma perché si vuole dominare l’ente, a che scopo? Dopo che l’ho dominato che me ne faccio? In effetti, non è tanto che lo voglia, in certi casi certamente sì, ma il fatto è che non posso non farlo, sono costretto a dominare l’ente, sono costretto dal fatto di essere, come dice Aristotele, ζῶον λόγον ἔχων, un parlante. In quanto parlante sono costretto a dominare l’ente. Parlando determino, definisco, cioè rendo ciascuna parola che pronuncio un utilizzabile. Ciascuna parola, ciascun ente, è quello che è in quanto è utilizzabile per produrre altre parole, cioè, per continuare a parlare, che ci appare per il momento l’unico obiettivo che ha il λόγος: continuare a parlare. Deve essere, dunque, utilizzabile, ma per essere utilizzabile deve essere finito, delimitato, determinato. Abbiamo, quindi, a che fare sempre e necessariamente con cose limitate. L’illimitato, l’indefinito, l’indeterminato, l’πειρον, non possiamo maneggiarlo, non possiamo trattarlo, se non riducendolo a qualcosa di determinato. Ma con che cosa determino qualche altra cosa? Sappiamo che, in fondo, determinare è sempre un determinare con l’indeterminato. Ma c’è un’unica cosa che mi consente di determinare, quella cosa che ci ha illustrata la dea ‘Aλήθεια, e cioè la δόξα. Se io definisco un tavolo, in genere lo definisco come un piano sostenuto da supporti su cui si appoggiano cose. È una definizione banalissima ma funzionale, nel senso che l’altro comprende. Se io dicessi a Cesare “per cortesia, appoggi questo sul tavolo”, Cesare non avrebbe alcun problema a eseguire questa operazione. Perché? Che cosa abbiamo in comune? Abbiamo in comune la δόξα, cioè, io ho dato una definizione di tavolo che si pensa, si crede, si immagina, che tutti quanti grosso modo supportano. Questa è la κοινωνία, la comunità dei parlanti, la comunione del dire, la comunità della δόξα, è la δόξα che accomuna, il si dice, il si pensa, il si crede, ecc. Dunque, la δόξα è ciò che consente di ridurre l’πειρον a qualcosa di determinato. Questa operazione ha il vantaggio di potere creare una κοινωνία, una comunità di parlanti, se non ci fosse la δόξα non ci sarebbe nemmeno la comunità dei parlanti perché non ci si potrebbe intendere. È la δόξα, è il “si” che fa in modo che ci si intenda, che ci si comprenda, quindi, si parli. Che poi si parli con qualcuno che io parli con me cambia niente, semmai cambia perché l’altro può darmi torto, mentre difficilmente io mi do torto. Tutto questo che sta dicendo Heidegger ci fa intendere come non possiamo in nessun modo uscire dalla volontà di dominare l’ente, perché è il linguaggio che ci costringe a limitare, a determinare, quindi, a dominare. Significare qualcosa è dominarla, renderla finita. Io posso parlare solo con il finito; anche se parlo dell’infinito, ne parlo con il finito, sennò non ne posso parlare, non saprei come prenderlo; come sanno bene i matematici, bisogna ridurlo a qualcosa di maneggevole, di manipolabile. Gli umani hanno sempre e necessariamente a che fare con il finito. L’infinito fa sempre parte del finito, perché se io parlo del finito ne parlo come di qualche cosa che ha un limite. Sì certo, ma al di là del limite che cosa c’è? Ciò che non è finito, cioè, ciò che chiamiamo infinito, dove l’“in” sta per una negazione. Quindi, il finito esiste in virtù dell’infinito, ed è questo il problema. Per dirla altrimenti, l’immanente, il limitato, esiste in virtù del trascendente, ciò che non è limitato né limitabile. Questo è uno degli aspetti di ciò che generalmente chiamiamo il problema del linguaggio: per parlare devo utilizzare delle parole che, per potere essere utilizzabili, devono essere finite, determinate, delimitate, significate. E ogni parola è tale perché è un utilizzabile, la parola deve essere necessariamente utilizzabile, non può non esserlo, sennò non è una parola. Ecco la via che ci sta mostrando Heidegger, passo dopo passo. Andiamo a leggere alcune cose, che ci porteranno ancora più lontani. A pag. 90. Per i greci l’uomo è autenticamente uomo solo nella misura in cui vive nella πόλις. Questo essere l’uno con l’altro in quanto determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo deve emergere nell’analisi più precisa del λόγος, inteso come il modo specifico in cui l’uomo ha il suo mondo. Per avere ben chiara la questione di cui si tratta bisogna eliminare fin da subito un pregiudizio al quale oggi più che mai l’analisi è soggetta. Si potrebbe infatti concepire tutta la faccenda come se nella φωνή e nel λόγος la realtà venisse colta da una determinata prospettiva, come se il mondo “ci” fosse in un determinato “aspetto”, un aspetto relativo al “soggetto”, il che significherebbe che il mondo ci si fa incontro soltanto in un “aspetto soggettivo”… Come quando si dice: ognuno ha il suo mondo, ognuno ha la sua verità, ecc. …non propriamente in sé, come se si trattasse di un particolare modo di concepire il mondo. Questo orientamento basato su soggetto e oggetto va eliminato alla radice, non solo perché questi concetti fondamentali, soggetto/oggetto, e ciò che essi intendono, non compaiono nella filosofia greca, ma anche perché l’orientamento basato su soggetto/oggetto è privo di senso in tale filosofia, giacché non si tratta di caratterizzare un modo di concepire il mondo, bensì l’essere in esso. Inoltre, non bisogna avvicinarsi all’intera analisi dei caratteri d’incontro del mondo come se ci fosse un mondo in sé, di cui l’animale e l’uomo possiederebbero una determinata porzione, e che vedrebbero di volta in volta in un (suo) specifico aspetto. Così come non è corretto parlare di un “mondo animale” e di un “mondo umano”. Non si tratta di modi di concepire la realtà in riferimento a determinati aspetti, ma dell’essere nel mondo. Ecco perché non c’è il mondo fuori, non c’è niente fuori. Dire che il mondo è come ciascuno lo vede presuppone che ci sia già il mondo; no, dice Heidegger, non c’è questo mondo, sono io questo mondo. È la stessa cosa che Hegel diceva rispetto a Dio: non c’è Dio da qualche parte, Dio sono io, sono io che l’ho posto, che l’ho costruito come mi è parso opportuno. Domanderemo quindi anzitutto: che cosa significa propriamente che il mondo in cui l’uomo si muove si fa incontro nel carattere dell’“utile”, del συμφέρον. I συμφέροντα, i caratteri dell’utile sono:… Badate bene, il mondo si fa incontro come utile, come utilizzabile. È così che si fa incontro, non ha un altro modo per farsi incontro, non ho un altro modo per vedere il mondo, per percepirlo, se non attraverso questo: l’utile, l’utilizzabile. 1.τά πρός τό τέλος, “ciò che in se stesso “tende”, tende alla fine”;… Fine da intendere come compimento. 2. κατά τάς πράξεις, “nell’ambito della prospettiva propria della πρᾶξις”. 3. “per colui che riflette, ciò a cui egli mira giace lì davanti”. Questi sono i caratteri dell’utile. Su questa base descriveremo il συμφέρον e, in seguito, l’άγαθόν. Il bene è ciò a cui l’utile tende. Incominciamo a capire di che cosa è fatto questo bene: è il soddisfacimento, il compimento di qualche cosa, la riuscita in qualche cosa, e cioè il dominio su quella cosa. Si tratta della modalità specifica in cui il mondo – in quanto mondo riguardante l’uomo – “ci” è per lui. Il nesso con l’άγαθόν emergerà dalla cosa stessa. Ad1. Συμφέρον è “ciò che è utile a…”, ciò che tende alla fine. Un utile è in sé un ente tale da implicare un rinvio a qualcosa. Dire che il mondo che c’è, anzi “ci” è, è un utilizzabile è la stessa cosa del dire che è fatto di rinvii. L’utilizzabile è un rinvio: qualcosa mi serve per qualche cos’altro. Il rinviare a qualcosa non è per l’utile un aspetto occasionale, ma ne costituisce, appunto, l’utilità. Lui stesso è questo, è un rinvio a un qualche altra cosa. Ciò a cui l’utile in quanto tale rinvia lo si designa come τό τέλος (il fine, il compimento). Che cosa dobbiamo intendere con τέλος lo apprendiamo nella seconda definizione. Ad2. Πρᾶξις è “prendersi cura”… Generalmente si traduce con agire, ma Heidegger lo traduce con “prendersi cura”. Di fatto, l’agire è sempre un prendersi cura di qualcosa. …e, in quanto tale, qui non significa nient’altro che “portare qualcosa alla sua fine”. Fine come compimento, concludere. Tenete conto, come diceva nelle pagine precedenti, τέλος e πέρας sono lo stesso. Πέρας è il limite, il compimento è il limite: portare qualcosa a compimento significa portarla al limite, cioè porla come limitata. Il συμφέρον è un rinviare alla fine di un prendersi cura, esso è utile al “portare alla fine” qualcosa. Ad3. Il συμφέρον è σκοπός. Il συμβουλεύεσθαι ci viene descritto da Aristotele nel libro VI, Capitolo 10, dell’Etica Nicomachea in quanto un “cercare qualcosa nel modo del riflettere” – λογίζεσθαι: in virtù del fatto che “porto al linguaggio” ciò a cui miro mentre rifletto, ossia l’utile alla fine del prendersi cura. Nella πρᾶξις è implicita una fine, l’utile viene portato alla fine, in ogni prendersi cura è stabilita in anticipo una fine. Nel senso che se mi prendo cura è per qualcosa, quindi, è già stabilito che ci sia una fine, un compimento. Il λογίζεσθαι costituisce il modo peculiare di attuazione della riflessione, cioè del “portare al linguaggio” il συμφέρον. Dire l’utile. Tutto ciò che si dice è συμφέρον, è utile. La parola è parola in quanto è utile, è un utilizzabile. L’utile implica il rinvio alla fine. Il λόγος, il λογίζεσθαι, si compie nella struttura fondamentale del “se-allora”: se questo e quest’altro sono la fine di un prendersi cura, allora bisogna porre mano a questo e quest’altro, questo e quest’altro debbono essere portati al linguaggio. Il modo di attuazione del “se-allora”, la trattazione approfondita del συμφέρον, è il συλλογισςμός (sillogismo): sono λόγοι messi assieme, strettamente intrecciati l’uno con l’altro. /…/ …si tratta approfonditamente l’utile in riferimento sia a ciò “che è necessario” per “portare alla fine” un prendersi cura, sia a “come” e “quando” tale prendersi cura debba essere attuato. Questo è il portare al linguaggio, cioè, al dire. Solo in questo “portare al linguaggio” il συμφέρον, cioè il mondo così come esso “ci” è concretamente… Sta dicendo una cosa importante. L’unico modo in cui il mondo c’è è il συμφέρον, è l’utile, l’utilizzabile: il mondo c’è in quanto utilizzabile. Questo è l’unico modo in cui il mondo esiste, non ce ne sono altri. Ogni ente è un utilizzabile. Il qui e ora dell’essere dell’uomo diviene esplicito in una riflessione determinata, sicché, in virtù di questo riflettere, l’uomo – detto in senso moderno – si trova nella situazione concreta, nel vero e proprio καιρός (momento giusto). In questo λόγος, cioè nel λέγειν in quanto λογίζεσθαι, l’essere dell’uomo è un avere-lì il mondo, in modo tale che io sono in esso in una situazione determinata qui e ora. Sta dicendo che parlando io mi determino nel mondo, in questo modo, qui e adesso. Che cosa significa che il λόγος esprime il συμφέρον? Rispetto alla φωνή, il λόγος è έπί τῷ δηλοῡν, ha cioè il compito di “manifestare” il mondo in un carattere che si compie nel λογίζεσθαι. Il “se” indica che per la riflessione la fine è stabilita: essa non è oggetto di riflessione, è fissata in precedenza. Se dico “se questo”, allora vuol dire che “questo” è già fissato. Il “se” costituisce il primo coglimento del τέλος da parte della riflessione: voglio fare un regalo a un amico, procurargli una gioia – e questo è il τέλος: la gioia. Questo τέλος viene anticipato. L’“anticipazione” di un τέλος, di una “fine” della πρᾶξις, è la προαίρεσις (intenzione). Se voglio questo, se questo dev’essere portato alla fine, se l’altro deve gioire, che cosa devo fare? Adesso inizia la riflessione: come posso procurare una gioia alla persona in questione? La riflessione mi dice: voglio regalarle un libro. In questa riflessione il mio esserci si orienta, in questo attimo, in questa προαίρεσις. Il guardarsi attorno, in cui si muove la riflessione, ha lì il suo mondo. Comincio a pensare a quello che devo fare: se voglio questo, allora che cosa faccio? Vado quindi dal libraio, anzi da quel particolare libraio, per procurarmi rapidamente il libro, in modo da portare alla fine il prendersi cura che ha la gioia come τέλος. Portare alla fine l’operazione, compierla, concluderla. Non è che la libreria diventi libreria in virtù della riflessione. Per quell’ente che è nel suo mondo nel modo della πρᾶξις μετά λόγου (agire nel linguaggio) il mondo è lì presente nel carattere del συμφέρον. La libreria è lì presente nel carattere dell’utilizzabile, è libreria in quanto è utilizzabile per quel determinato τέλος. L’essere di tale mondo, caratterizzato in quanto esserci, è primariamente così. È così che è il mondo: un utilizzabile. Il bastone che impugno, il cappello che porto, sono συμφέροντα. Sono utilizzabili. Il bastone non è primariamente un pezzo di legno o qualcosa del genere, bensì è il bastone. In questa riflessione il mondo si attiene espressamente al suo carattere primario dell’in quanto così e così, in quanto utile a…, e precisamente perché il λέγειν, nella sua modalità specifica primaria, si rivolge al mondo in quanto qualcosa: λέγειν τί κατά τίνός (dire qualcosa rivolto a qualche cos’altro). Parlando di qualcosa lo rendo attualmente presente, lo porto nel “Ci”, qualcosa in quanto questo e quello, nel carattere dell’in quanto. È questa la funzione primaria del λόγος, che a ogni passo ha la capacità, tramite il carattere del “rinviare a…”, di porre espressamente in evidenza il mondo portandolo nel “Ci”. Il “Ci” si può benissimo intendere come il “noi”: “ci” è, cioè, è per noi, che siamo nel mondo, che siamo il mondo. Dire che la libreria c’è, non è perché si trova in via tal dei tali, ecc., no, è lì per me, in quanto utilizzabile per me. La libreria è lì in quel modo, in quanto utilizzabile per me, in quel momento. Appare quindi chiaro che il parlare nel mondo è per l’uomo il δηλοῡν τό συμφέρον (il manifestarsi di utilizzabili). Il manifestarsi di utilizzabili: il parlare è questo. Il parlare è manifestare degli utilizzabili, cioè, le parole. Questo “parare di…” è riflettere, συμβουλεύεσθαι, “portare al linguaggio con se stessi”. Consultarsi con se stessi in merito a qualcosa: questa è solo una possibilità assai più originaria, quella del consultarsi con altri. È sempre un consultarsi con altri anche il parlare tra sé e sé: mi consulto fra me e me. Il “portare al linguaggio in questo modo”, in quanto esprimere, è un parlare di qualcosa con un altro, parlarne a fondo. Parlare è un mostrante esprimersi “in merito a…”. Non è un parlare che constata, ma un discutere del συμφέρον. Ciò che si ha di mira è il συμφέρον. Il λόγος, che si costituisce nella funzione del mostrare, ha il carattere di uno specifico comunicare: faccio all’altro una comunicazione; nella misura in cui parliamo a fondo di qualcosa, io e l’altro, io con lui e lui con me, abbiamo il mondo lì davanti - κοινωνία del mondo. Parlare è in sé comunicare e, in quanto comunicazione, non è altro che κοινωνία. Come dicevamo prima, questa κοινωνία non è altro che essere immersi nel “si”, ed è per questo che possiamo comunicare. Comunichiamo in quanto ci intendiamo su quanto su ciò che comunemente viene inteso rispetto a qualche cosa. Non potremmo comunicare se non ci fosse la δόξα, cosa che la dea ‘Aλήθεια sapeva bene. Se ogni volta dovessi prendere un termine e significarlo compiutamente – non come abbiamo fatto prima con il tavolo con quella definizione banalissima, ma dire esattamente che cos’è il tavolo – noi non ci parleremmo più, perché ci fermeremmo lì e andremmo avanti all’infinito. Ecco, pertanto, la necessità della δόξα, del “si”: si dice così, si pensa così. Tutti sanno che il tavolo è una certa cosa, e lì ci fermiamo, lì imponiamo il limite, e dobbiamo imporre il limite se vogliamo parlare, dobbiamo farlo. A pag. 95. Il prendersi cura è μετά λόγου. Μετά significa qui “in mezzo”:… Il prendersi cura è essere nel linguaggio. …il λόγος è implicito nel prendersi cura, il prendersi cura è in se stesso un parlare, un discutere. Non c’è altro modo di prendersi cura se non parlando. Finora abbiamo omesso di trattare l’ulteriore carattere dell’incontro con il mondo, l’άγαθόν, benché Aristotele, da ultimo, designi il συμφέρον in quanto άγαθόν. L’utilizzabile è il bene. Adesso però siamo pronti per comprendere che cosa significa άγαθόν. Aristotele ce ne fornisce una disamina nel citato passo della Retorica (libro I, capitolo 6), in diretto collegamento con la definizione di συμφέρον. Άγαθόν è: 1. ciò che è “coglibile in se stesso in vista di se stesso” – qui dunque la definizione di άγαθόν in quanto “in vista di”, “in vista di cui”. Cioè: un rinvio. 2. Muovendosi in direzione opposta alla precedente, il rinvio va qui dal τέλος al συμφέρον. Per cogliere questo nesso fondamentale bisogna prestare attenzione al fatto che solo in quanto ha primariamente il carattere della fine l’άγαθόν può essere un “in vista di”, e per la precisione un “in vista di un altro”. L’άγαθόν, il bene, è sempre un in vista di qualche cos’altro. Infatti, poi dirà che non si trova l’άγαθόν universale, il bene universale, ma è sempre un particolare. 3. Inoltre, l’άγαθόν è definito in quanto “quel qualcosa a cui tutto si attiene, verso cui tutto è in cammino”… L’άγαθόν sarebbe il compimento, il soddisfacimento. 4. “Nella misura in cui è presente, εὖ διάκειται (essere ben situato, soddisfatto). Se l’άγαθόν “ci” è in quanto tale, se il prendersi cura è portato alla fine, allora εὖ διάκειται colui che si prende cura: egli è un sentirsi-situato caratterizzato in quanto εὖ (buono, bene). εὖ è un determinato “come” del sentirsi-situato, che ha preso forma nella misura in cui ciò di cui bisognava prendersi cura è stato effettuato. Lo εὖ dipende dalla modalità specifica del procurare la fine. Queste differenti determinazioni dell’άγαθόν convergono tutte su un punto, sul fatto cioè che l’άγαθόν è primariamente fine, τέλος, più precisamente πέρας (limite). Il fine è il limite, è il limitare qualcosa, perché solo limitandolo è un utilizzabile; se non lo limito non so come utilizzarlo. Il paragrafo c) Il “Si” in quanto “come” della quotidianità dell’essere l’uno con l’altro. La cooriginarietà dell’essere l’uno con l’altro e dell’essere parlanti. Come nuovo carattere dell’essere dell’uomo si è posto in luce l’essere l’uno con l’altro. Esso si evidenzia nella struttura concreta del λόγος in quanto “parlare”, così come vive nella quotidianità quel parlare che costituisce il modo di attuazione del riflettere, del quotidiano “consultarsi con se stessi”, del prendersi cura. Nel riflettere si compie un darsi d’attorno nel mondo, che “ci” è nel carattere dell’άγαθόν, ovvero del συμφέρον. Il mondo c’è sempre in questo modo qui, cioè di un utilizzabile per ottenere una soddisfazione. Nel συμφέρον è implicito il “per che cosa”, il τέλος inteso come ciò in e presso cui il prendersi cura giunge alla sua fine. L’obiettivo del συμφέρον, dell’utilizzabile, è di essere utilizzato per qualcosa. Una volta che si utilizza per quella cosa lì, ha raggiuto il τέλος. Il συμφέρον lo si incontra nel λογίζεσθαι (dire), che a sua volta ha la forma di attuazione del συλλογισςμός (sillogismo), della deduzione e precisamente in quanto “se-allora”. Il se-allora, cioè la forma della inferenza classica, è ciò che, secondo Heidegger, mostra tutto il processo, e cioè qualche cosa è quella che è in quanto rinvia a un’altra: “se A allora B”, se c’è A allora c’è B, se faccio questo allora ottengo quest’altro. Potremo dire che nella inferenza “se A allora B” B costituisce il τέλος di A, il suo fine. In ciò il mondo “ci” è in quanto mondo che circonda l’uomo, in cui egli si muove. Nella fattispecie, è proprio il λόγος a mostrare – cioè a esplicitare – l’utilità in quanto tale e, viceversa, lo οὖ ἕνεκα: λέγειν τί κατά τίνός, qualcosa viene inteso “in quanto qualcosa”, il mondo viene avuto lì davanti nel carattere dell’“in quanto”, posto in una determinata prospettiva. L’“in quanto” vuol dire che qualcosa è quello che è in quanto utilizzabile. È per questo che Aristotele, nel medesimo passo, può anche dire: αἴσθησις ἕκειν τοῦ άγαθόῦ. Definiamo circospezione questa vista del prendersi cura: nel riflettere mi guardo attorno. Mi guardo intorno per vedere cosa mi è utile. Al tempo stesso, però, questa circospezione, e ciò che “ci” è in essa, vengono mostrati tramite il λόγος, che è in sé e per sé άποφαίνεσθαι (mostrare, fare venire in luce). I caratteri dell’“in quanto così e così” vengono portati espressamente nel “Ci”. Il “Ci”: il mondo in cui noi siamo. Vediamo quindi che il λόγος, qui, compie la sua funzione fondamentale: έπί τῷ δηλοῡν, esso “c’è per manifestare” il mondo. Ma come lo manifesta? Come συμφέρον e τέλος, cioè come utilizzabile e come fine dell’utilizzabile. Questo manifestare, che si compie tramite il linguaggio, è un comunicare, un “manifestare a un altro”, è il modo dell’“avere lì davanti in comune” il mondo – che è la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo. Questo è il “si”, la chiacchiera. È questa la maniera in cui ciascuno ha lì davanti il mondo, come ce lo hanno tutti, e per questo può comunicare. L’uomo è un ente tale da essere uno ζῶον πολιτικόν, che ha nella sua struttura la possibilità di un (compiutamente formato) “essere nella πόλις”. Essere nella πόλις è la stessa cosa che dire essere nella κοινωνία, nella comunità dei parlanti. A pag. 97. L’asserzione fondamentale che io stesso, in quanto uomo vivente nel mio mondo, faccio su me stesso, l’asserzione assolutamente primaria “io sono”, è propriamente falsa. Si deve dire piuttosto: “Io sono “Si”, “Si” è, “si” intraprende questo e quello, “si” vedono le cose in questo e quel modo. Questo Si è il vero e proprio “come” della quotidianità, del medio e concreto essere l’uno con l’altro. Non c’è un altro modo, ci sta dicendo Heidegger: noi viviamo con gli altri in questo “si”; se togliamo la δόξα togliamo tutto, crolla tutto quanto e cessiamo di esistere. È per questo che la dea ‘Aλήθεια insisteva con Parmenide: devi conoscere bene la δόξα, perché è ciò che ti fa esistere; non è l’essere o il non-essere, dei quali non potrai sapere nulla, vale a dire, del significato vero delle cose non potrai mai sapere se sono o non sono, ma potrai comunicare dicendo che “si” pensa che siano, “si” crede che siano, e su questo ci intendiamo. Dal Si nasce e si sviluppa la modalità specifica in cui l’uomo vede il mondo innanzitutto e per lo più, in cui il mondo riguarda l’uomo e l’uomo si rivolge al mondo. Il Si è il vero e proprio come dell’essere dell’uomo nella quotidianità… Tenete conto di quello che sta dicendo: il Si è il vero e proprio essere dell’uomo. L’uomo è questo, è il Si: si pensa, si dice, si crede, ecc. …e il vero e proprio portatore di questo Si è il linguaggio. Il Si dimora, ha il suo specifico dominio nel linguaggio. Una comprensione più precisa del Si vi consente di vedere che esso costituisce al tempo stesso la possibilità dalla quale nasce e si sviluppa un essere l’uno con l’altro autentico secondo determinate modalità. Soltanto con il Si possiamo essere l’uno con l’altro, non ci intendiamo se non limitiamo le cose attraverso il Si. Questo è così? Non lo sapremo mai, ma si pensa che lo sia, e tanto ci basta. Come nell’esempio che facevo rispetto al tavolo, è sufficiente perché io possa dire a Cesare di appoggiare quella cosa sul tavolo, è più che sufficiente ed è con questo che comunichiamo. Anche Cesare pensa che il tavolo sia questo, perché crede che sia questo, perché si è sempre saputo, si è sempre pensato così, ecc. “Si” è: questo è il mondo, e noi viviamo di questo e di nient’altro: questo ci sta dicendo Heidegger. La definizione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto ζῶον πολιτικόν va mantenuta, anche nel caso dell’esplicazione successiva, dove si tratta del “rivolgere lo sguardo” (θεωρεῖν) al mondo… Θεωρεῖν è teoria, e teoria è rivolgere lo sguardo verso qualcosa. …ovvero di ciò che, in tale rivolgere lo sguardo, “ci” è… Cosa vediamo? Vediamo l’εἶδος (forma), l’“aspetto” del mondo come lo si vede abitualmente. Nell’εἶδος è implicita una cosiddetta universalità, una validità universale, una pretesa a una determinata medietà. Cioè: una cosa che tutti sanno. La medietà è quella cosa che si suppone tutti quanti conoscano. Sta qui la radice della definizione fondamentale dell’universale, così spesso concepita come definizione fondamentale del concetto greco di scienza. Chiaramente, questi concetti che la scienza utilizza devono essere universali, ma questo universale non è nient’altro che il “Si”. Questa immagine, questo εἶδος: io vedo quella cosa e dico che è quella cosa, perché si pensa, si crede che sia quella cosa lì. Questa è la definizione fondamentale del concetto greco di scienza e, quindi, del concetto di scienza a seguire; come dire che la scienza è fondata sul “Si”. Lo sapevamo già per altre vie, lui invece ci arriva dritto. Insomma: questo Si va tenuto primariamente e costantemente presente in quanto definizione fondamentale dell’essere dell’uomo. Questo in un certo modo è il risultato dell’interpretazione del passo del libro I, capitolo 2, della Politica. Si comprende quindi che la determinazione dell’“essere l’uno con l’altro” è cooriginaria alla determinazione dell’“essere parlante”. Se si parla si parla con qualcuno: λέγειν τί κατά τίνός. Sarebbe completamente sbagliato dedurre l’una affermazione dall’altra, poiché il fenomeno dell’esserci dell’uomo in quanto tale implica cooriginariamente l’“essere parlante” e l’“essere l’uno con l’altro”. Sta dicendo che sono la stessa cosa, se parlo sono con altri. Se volete cogliere davvero il fenomeno, questi caratteri della cooriginarietà dell’essere dell’uomo debbono essere tenuti ben fermi nella loro unitarietà. Si coappartengono, non posso togliere l’uno senza togliere anche l’altro. Capitolo 10. L’esserci dell’uomo in quanto ἐνέργεια: l’άγαθόν. L’esserci dell’uomo in quanto ἐνέργεια, in quanto agire. Verso cosa? Verso l’άγαθόν, verso la soddisfazione. Ormai sappiamo che questo άγαθόν è fatto di τέλος e di πέρας, di fine e di limite. Deve essere limitato, sennò io non sono soddisfatto di niente. Uno può essere soddisfatto dell’infinito? No, è soddisfatto quando lo limita. Come già diceva Tommaso: non possiamo regredire all’infinito con le cause, dobbiamo fermarci a un certo punto, cioè, limitare, e solo allora possiamo dire di sapere. Ovviamente, è sempre un δοξάζειν, un credere di sapere. Già la dea ‘Aλήθεια lo diceva: non puoi sapere nulla, né se è né se non è, ma puoi sapere ciò che si pensa per lo più, e ricordati che hai solo questo a disposizione. Perché ci interessa l’essere dell’esserci dell’uomo? Perché siamo tornati a questo punto? Risposta: perché in precedenza abbiamo stabilito che la concettualità ci rinvia all’esserci dell’uomo. Se creiamo concetti, questi concetti ci rimandano all’esserci dell’uomo, cioè, al fatto che è parlante. La concettualità riguarda una determinata possibilità ontologica dell’esseri dell’uomo. Una possibilità ontologica significa che è possibile che sia veramente così, cioè qualcosa che riguarda strutturalmente l’essere. Se vogliamo cogliere la concettualità greca dobbiamo renderci comprensibile e accessibile l’esserci nell’interpretazione greca, aristotelica. Impegnati come siamo nel compito di dipanare l’esserci dell’uomo, abbiamo già incontrato alcune determinazioni ontologiche, individuando ad esempio la nuova determinazione ontologica dell’“essere l’uno con l’altro”. Perché determinazione ontologica? Perché definisce che le cose non possono che essere così, cioè, parlare è parlare con qualcuno. Nondimeno, proseguiremo finché non avremo incontrato l’autentico carattere dell’essere, il πέρας (limite). Abbiamo già incontrato il πέρας analizzando l’essere l’uno con l’altro. L’essere dell’uomo è definito in quanto prendersi cura, ogni occuparsi di qualcosa in quanto prendersi cura ha una fine determinata, un τέλος. Ora, se l’essere dell’uomo è determinata dalla πρᾶξις (da quello che fa), e ogni πρᾶξις ha un τέλος, e se il τέλος di ogni πρᾶξις, in quanto πέρας, è l’άγαθόν, allora l’άγαθόν è l’autentico carattere ontologico dell’uomo. A che cosa davvero tende l’uomo? All’άγαθόν, al bene, alla soddisfazione. È chiaro, come dicevamo, che questa deve de-limitata, non può essere infinita. L’άγαθόν è una determinazione dell’essere dell’uomo nel mondo. Con la nostra analisi dell’άγαθόν otterremo quindi una nuova chiarificazione dell’esserci dell’uomo, in virtù del fatto che la ricondurremo al πέρας, il che però significa all’autentico carattere dell’essere stesso. In base a ciò che, così, avremo acquisito, indagheremo più nel dettaglio l’άγαθόν in quanto determinazione ontologica dell’uomo, carattere ontologico del prendersi cura e, quindi, dell’esserci stesso. Ciascuno non è altro che qualcuno che continua a prendersi cura. Si prende cura, cioè, si occupa di qualcosa in vista di qualcos’altro. Naturalmente, si prende cura di qualcosa che è utilizzabile. Il linguaggio è la manifestazione del συμφέρον, dell’utilizzabile, il linguaggio manifesta soltanto questo, sia che parli di un accidente, sia che parli di qualcuno, di un pensiero, di un desiderio, di qualunque cosa, dove questo qualunque cosa è un συμφέρον, un utilizzabile. Utilizzabile per cosa? Ovviamente, per continuare a parlare, ma il fine è la soddisfazione, l’άγαθόν, la soddisfazione di avere compiuto qualcosa, di avere determinato, finito, quindi, di avere la possibilità di conoscere, perché se non si limita, senza il πέρας, non c’è nessuna possibilità di conoscenza. Prendiamo dunque in esame l’essere dell’άγαθόν greco. A tale scopo ci atteniamo a considerazioni concrete dello stesso Aristotele, svolte per l’esattezza nel libro I dell’Etica Nicomachea. A pag. 100. In sintesi domandiamo: 1. Dove troviamo qualcosa come l’άγαθόν? 2. Come va inteso l’άνθρώπινον άγαθόν (bene dell’uomo)? 3. Quali sono le determinazioni generali dell’άγαθόν in quanto tale? 4. Quale essere, quale possibilità di essere dell’uomo corrisponde all’άγαθόν? Per la corretta preparazione di questa analisi è importante non scordare le determinazioni dell’essere dell’uomo finora acquisite: 1. Ζωή (vita): l’essere dell’uomo è essere in un mondo. 2. L’“essere in un mondo” è caratterizzato dal λόγος. È soltanto il linguaggio che ci consente di essere nel mondo. Altra affermazione impegnativa, in negativo: senza λόγος non siamo nel mondo, non siamo, semplicemente. 3. Il parlare stesso è il modo di attuazione di un prendersi cura: darsi d’attorno nel mondo prendendosi cura. Il parlare è sempre un prendersi cura di qualche cosa per qualche cos’altro; parlare è un rinviare continuo; parlare è un tendere al compimento, cioè al fine, al limite. L’“essere in un mondo” è cooriginariamente un prendersi cura. 4. Il prendersi cura stesso ha sempre una fine prestabilita, mirando alla quale riflette sull’utile: esso possiede in un’anticipazione determinata ciò di cui, per esso, ne va. Che cos’è che è anticipato? È anticipato il soddisfacimento. L’esempio che faceva del libro da regalare all’amico: se regalo un libro, lui sarà felice. In questo caso, cosa anticipa? Anticipa la felicità, l’άγαθόν, il fine. Αἴσθησις ἕκειν: il prendersi cura è caratterizzato come circospezione. Da ciò nasce e si sviluppa nella quotidianità la possibilità del “mero rivolgere lo sguardo a…” del θεωρεῖν. 5. Questo essere è in se stesso essere l’uno con l’altro, “essere nella πόλις”, preso alla lettera. /…/ Dove troviamo espressamente l’άγαθόν? L’άγαθόν sarebbe il fine di tutto, sarebbe ciò a cui ogni cosa tende. Ogni utilizzabile è quello che è in vista dell’άγαθόν, cioè del soddisfacimento. Lo chiarisce la prima frase dell’Etica Nicomachea: “Sembra che ogni τέχνη (la dimestichezza con qualcosa, con un determinato modo del prendersi cura: il calzolaio sa bene come si fa una scarpa, se ne intende), ogni dimestichezza con un prendersi cura, ogni μέθοδος, ogni “dedizione a una cosa”, ogni “essere sulle tracce” di una cosa, così come il prendersi cura di qualcosa e il prefiggersi qualcosa da compiere, di cui occuparsi e da portare alla fine – sembra che tutti questi modi della dimestichezza con qualcosa e del prendersi cura di qualcosa tendano, stiano dietro a un bene”. Tutto ciò è fatto per ottenere qualcosa. Lo έφίεσθαι, lo “star dietro”, appartiene al loro stesso essere. In essi, in quanto dimestichezza con qualcosa e prendersi cura di qualcosa, è presente, “ci” è espressamente un άγαθόν. Mi prendo cura di qualche cosa in vista di qualche altra cosa che ritengo positiva. Il pendersi cura non è nient’altro che, e, nel contempo, è talora anche uno star dietro. Questi caratteri della τέχνη, della πρᾶξις, della μέθοδος e della προαίρεσις (volontà, intenzione) sono fenomeni che già conosciamo, e che tornano successivamente nell’Etica Nicomachea negli abbinamenti τέχνηρᾶξις, προαίρεσις/γνῶσις (conoscenza): una duplicità di determinazioni riguardante l’“essere nel mondo” nella modalità di un prendersi cura che è circospetto, cioè vede qualcosa che ha lì davanti, avendone in qualche modo dimestichezza. Ora, τέχνη la “dimestichezza con il rispettivo prendersi cura” è quel modo dell’“essere nel mondo” in cui diviene espressamente visibile l’άγαθόν. La τέχνη rende espressamente visibile il τέλος. Con ciò abbiamo risposto anzitutto, in termini generali, alla prima domanda. Quella che chiedeva da dove viene l’άγαθόν. Questo prendersi cura, la dimestichezza nel prendersi cura, dice, diviene espressamente visibile l’άγαθόν, nel compimento. L’άγαθόν come il compimento.