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1 febbraio 2017

 

Siamo a pag. 202. Se la natura viene posta con riguardo alla calcolabilità di processi spazio-temporali, la natura sta in un progetto che non permette di vederla come un essente-presente riposante in sé, piuttosto, essa viene rap-presentata in quanto oggetto, in cui il domandare della ricerca interviene nel modo della precalcolabilità e del controllo. È una rappresentazione del tutto moderna il rap-presentarsi l’ente in quanto oggetto. Questo è importante. Il fatto che l’ente a un certo punto sia diventato un oggetto è una cosa recente. Come abbiamo visto, nasce con Cartesio. Allo stesso tempo nasce il soggetto, perché questo oggetto è tale per un soggetto, che lo considera oggetto, indubbiamente. Questo porre di-contro a sé, rendere oggetto, questa oggettivizzazione risiede nell’essenza del progetto scientifico-naturale. La rappresentazione di qualcosa, considerando ciò che in esso vale per molte cose e perciò è un che di generale, la si chiama un concetto. Questa è la definizione comune di concetto, e cioè una rappresentazione che vale per tante cose di un qualche cosa: l’albero, il cui concetto non è un albero. Perciò, in un atteggiamento centrato sulla calcolabilità nei confronti dell’ente, i concetti sono delle rappresentazioni necessarie per questo atteggiamento stesso. Il concetto che ci si forma è un concetto improntato alla calcolabilità, alla misurabilità, cioè un concetto fatto apposta per la scienza. Se si rappresenta qualcosa riguardo a ciò che esso è in generale, se, per esempio, rappresento il tavolo in ciò che ha di universalmente valido, dico di esso che una cosa d’uso. La rappresentazione di un qualcosa in quanto questo che di singolo, la si chiama una percezione sensibile ovvero una intuizione sensibile. Qui distingue tra il generale e il particolare: la percezione del tavolo è la percezione sensibile, perché lo tocco, mentre il concetto di tavolo, no, non si tocca un concetto. La questione direttiva della seconda ora del precedente seminario era: a che pertiene qualcosa come lo stress? Rispondemmo: lo stress pertiene alla costituzione, determinata da essere-gettato, comprendere e linguaggio, propria dell’esistenza umana. L’esistenza umana è caratterizzata dal comprendere e dal linguaggio, che di fatto potrebbero essere intesi come la stessa cosa. La polivocità del termine “stress” accenna alla molteplicità della cosa, di modo che dobbiamo badare alla necessaria polivocità delle asserzioni e non valutarla come una carenza, se vogliamo rimanere conformi alla cosa. Parole e concetti, nell’ambito che ora deve venire considerato, hanno un carattere diverso da quelli che vengono usati nella scienza esatta. (pagg. 202-203) Sta dicendo che quando si parla di una cosa, lo stress in questo caso, occorre sempre tenere conto della polivocità, cioè dei molti sensi che questa cosa ha. Perché ha molti sensi? Non tanto perché ha molti sinonimi, non è questa la questione, ma in quanto questa parola “stress” è quella che è all’interno di una relazione, quindi, rinvia a tantissimi elementi che fanno di quella parola quella che è in quel momento. Per la scienza, invece, dice che non è così, per la scienza la parola “stress” deve essere necessariamente quella cosa lì e non un’altra. Il che è diverso da ciò che diciamo quando diciamo che “affermando qualcosa affermo quello che è”. Parrebbe la stessa cosa che fa la scienza ma non è così, perché affermano di una cosa affermo che è quella che è per poterla utilizzare all’interno del linguaggio. È una considerazione che si fa a posteriori, in una sorta di aprés-coup: si parte dall’idea che un qualche cosa sia quello che è, affermando un qualche cosa, per poterlo utilizzare devo considerarlo come se fosse proprio quella cosa lì, ma non lo è, mentre per la scienza lo è a priori, e può esserlo perché isolato da tutte quelle relazioni che lo fanno essere quello che di fatto è. Il fatto che il linguaggio di una scienza dell’uomo, come anche, per esempio, quello della poesia, debba essere, per sua essenza, polivoco, è per un fisico qualcosa di orribile. In una poesia una parola può evocare, significare tante cose, ma questo la linguistica lo sa, la semiotica in particolare, cioè, una parola cambia completamente di senso se inserita all’interno di un gioco differente, e questo per la fisica è una cosa inimmaginabile, non può esistere. È solo da qualche tempo, con la meccanica dei quanti, si è posta per la fisica una questione del genere, in parte, solo in parte. Egli (il fisico) opina che l’univocità dei concetti sia un’esigenza cui ogni scienza debba soddisfare. Un concetto deve avere un solo significato, deve essere quello. Questa opinione, però, è nel diritto solo se si crede al dogma che il mondo sia completamente calcolabile e che il mondo calcolabile sia la vera realtà. Il modello di mondo della fisica. Questa concezione ci sospinge nel sinistro sviluppo, che oggi va delineandosi, a seguito del quale non viene più domandato chi e come sia l’uomo, piuttosto, in luogo di ciò, egli, fin da principio, viene rappresentato a partire dalla manipolabilità tecnica del mondo. Anche l’uomo, in quanto reificato, in quanto oggetto, diventa manipolabile. Stress vuol dire sollecitazione, e precisamente, innanzitutto, una sollecitazione eccessiva. La sollecitazione in generale richiede di volta in volta un corrispondere fatto in questo o quel modo, cui appartengono come privazioni anche il non corrispondere e il non poter corrispondere. Se, in luogo di stress, parliamo di sollecitazione, ciò non è solo un altro termine, bensì la parola sollecitazione porta subito la cosa nell’ambito dell’estatico esser uomo, vale a dire, nell’ambito in cui, di ciò che ci rivolge la parola, può venire detto che esso sia in questo e quel modo. Stress è una parola inglese e in genere si considera una certa cosa, però, dice, se noi la chiamiamo sollecitazione allora questo ci consente di spostare la questione verso un essere, un trovarsi sollecitati dalle cose, sollecitati a dire. Dice che la parola sollecitazione porta subito la cosa nell’ambito dell’estatico esser uomo. Estatico vuol dire che sta fuori, sempre gettato nel progetto. Dire in questo e quel modo qualcosa in quanto qualcosa, è un άποϕαίνεσθαι, un portare la cosa a mostrarsi. L’essenza autentica del linguaggio è tale dire ovvero mostrare. Certo, è un mostrare ma è un portare la cosa a mostrarsi. Qui la questione può apparire complessa e, in effetti, in parte lo è, perché il portare la cosa a mostrarsi all’interno del progetto comporta, intanto, che questa cosa sia accolta, si manifesti all’interno del progetto, cioè, è quello che è in relazione a una serie di cose che la circondano, il suo mondo, per così dire. Questo ci dice che per potere portare la cosa a mostrarsi occorre che io tenga conto che questo posacenere è all’interno di una relazione di cose tale per cui questo posacenere si trova qui ad essere questa cosa qua. Cosa che è fondamentale perché questa cosa si mostri a me per quello che è, ma non può mostrarsi per quello che è se io non lascio aperto il progetto, cioè, se io non mi rendo conto di essere all’interno di un progetto, cioè all’interno di una serie di relazioni. Soltanto a questa condizione, cioè, sapendo di essere all’interno di una serie di relazioni, colloco questo oggetto, lascio apparire questo oggetto in quanto oggetto, in quanto preso all’interno di questa serie di relazioni. Passiamo al seminario del 18 marzo 1969 a pag. 207. Qui renderà ancora più chiaro ciò che stava dicendo. Il libro, per esempio, giace qui accanto al bicchiere. Ma in che modo sono l’uno presso l’altro due uomini che stiano ritti l’uno presso l’altro? Perché il bicchiere non può riferirsi al tavolo, su cui esso sta? In quanto esso non può percepire il tavolo in quanto tavolo. Infatti, soltanto l’uomo è quell’ente che può domandare circa l’essere, circa il significato, cioè, circa il suo progetto. Si può ben dire che il bicchiere sia aperto in alto, altrimenti non vi si potrebbe mescere niente. Questo, però, è un essere-aperto del tutto diverso da quello che è l’essere-aperto che è proprio dell’uomo. Non è la stessa cosa, sono due cose diverse. Il modo in cui il bicchiere è aperto non significa altro se non che esso è aperto nello spazio per il mio afferrare maneggiante. Quindi, è funzionale a qualche cosa. L’uomo è nello spazio allo stesso modo del bicchiere? In Sein und Zeit, esser-ci vuol dire: esser-ci. Lì, in che modo viene determinato il ci in quanto l’aperto? Il Ci comporta l’apertura, cioè, l’essere qui, quindi, all’interno di una concatenazione di relazioni. Questo essere-aperto ha anche il carattere dello spazio. La spazialità appartiene allo slargo, appartiene all’aperto in cui noi, in quanto esistenti, soggiorniamo, e precisamente in modo tale che non siamo affatto rapportati espressamente allo spazio in quanto spazio. Allo spazio, potremmo aggiungere noi, in quanto all’aperto. Quando dice che la spazialità appartiene allo slargo, che ci rimanda alla radura, l’essere che consente alle cose di venire alla luce, ecc., questo slargo, di fatto, è il linguaggio, è il linguaggio che consente tutto questo. Lui lo dice in altre occasioni, magari non in modo così preciso, però, quando parla del logos, come ciò che consente alle cose di essere, dice questo, è questo lo slargo. A pag. 208, parte seconda, 18 marzo 1969. Siamo ancora assorti nella questione di quale sia la differenza tra l’essere-nello-spazio di un bicchiere e l’essere-aperto dell’uomo “per” il bicchiere. Che cosa vuol dire: essere aperto per? Ricordate, per l’uomo, per questo ente particolare, si tratta sempre di un essere per qualcosa. L’essere-aperto per il bicchiere, ciò accade in quanto io lo percepisco, o, all’inverso, è il mio essere-aperto il presupposto per il poter-percepire? Essere aperto significa essere per qualche cosa. Questo essere aperto del bicchiere accade in quanto io lo percepisco, e allora questo bicchiere è per qualche cosa, oppure, dice, all’inverso è il mio essere-aperto, è il mio essere per qualche cosa, il presupposto perché possa percepire una qualunque cosa? Sembrerebbe la seconda, in quanto io sono sempre “per” qualche cosa, è perché sono sempre all’interno del progetto che io percepisco qualche cosa e lo posso percepire in quanto questo qualche cosa è “per” qualche cos’altro, quindi all’interno di un progetto. Il bicchiere in quanto bicchiere. Lo “in quanto” è una parola fondamentale della metafisica. Lo “in quanto” è quello che è, quello che è per se stesso. Lo “in quanto” lo si può pensare solo di qualcosa in quanto qualcosa. Il “che cosa” è “qualcosa”, non nulla. Che cosa è con il “nulla”? Nel dire “in quanto”, si tratta sempre di una asserzione di qualcosa circa qualcosa. L’esser aperto è possibile solo se per noi già si è levato-nello-slargo che qualcosa possa essere essente-presente ed essente-assentemente-presente. Soltanto se c’è lo slargo, quindi, il linguaggio, è possibile che qualcosa sia presente ma allo stesso tempo anche assente (se questa cosa la si toglie diventa assente), ma è soltanto perché c’è il linguaggio che questa cosa può essere presente o assente. Decisiva è la questione: Come si rapporta questo esser-soggiornante-nello-slargo, senza che l’essere sia preso in considerazione tematicamente, a ciò che intendiamo col termine coscienza? Si sta chiedendo: come è possibile parlare di esser-soggiornante-nello-slargo, soggiornante nel linguaggio, senza la coscienza? Se lo chiede come se la coscienza venisse prima. Considerando in modo puramente linguistico, nella coscienza occorre il sapere, e Wissen vuol dire avere visto qualcosa, aver manifestato qualcosa in quanto qualcosa. “Bewissen” (consapere), e qualcuno “bewiß” (è consaputo di); sapere (wissen) vuol dire che uno (trovandosi orientato corrispondentemente alla dritta) si raccapezza. Orientato corrispondentemente alla dritta, orientato alla diritta via. Si trova rapportato in una direzione precisa e soltanto a questo punto si raccapezza, se sa dove sta andando, se non lo sa, se non nessun punto di riferimento non può sapere da che arte sta andando, quindi, non può sapere. Quindi, per sapere occorre un punto di riferimento. Questo termine è altrettanto antico di quello di Dasein e compare solo nel XVIII secolo. La difficoltà di esperire il Bewußtein risiede nel significato, che l’epoca della nascita ha dato a questa parola. Dove inizia la coscienza nella filosofia? In Descartes. (pagg. 208-209). Noi sappiamo che è con Cartesio si è inventato il soggetto e, quindi, l’oggetto. Ogni coscienza di qualcosa è nel contempo autocoscienza, laddove il sé, che è conscio di un oggetto, non necessariamente è a sé conscio di se stesso. È questo raccapezzarsi nelle cose semplicemente-presenti il presupposto per l’esser-ci, o è, in primo luogo, solo l’esser-ci, vale a dire il soggiornare nello aperto, che dà la possibilità per un atteggiarsi nel senso del raccapezzarsi? Questa è la questione che si pone Heidegger, e cioè: è questo raccapezzarsi nelle cose, che è per lui il sapere, secondo l’etimo che ha illustrato prima con tutti i suoi giri di parole, è questo raccapezzarsi nelle cose semplicemente-presenti, cioè, sapere dove si trovano, come sono fatte, ecc., il presupposto per l’esser-ci, oppure, è necessario trovarsi, soggiornare nell’aperto, nell’accogliere quella concatenazione di relazioni che fanno essere le cose quelle che sono? L’antica parola greca τόπος viene falsamente tradotta col termine “luogo”. Essa designa, invece, qualcosa che siamo soliti chiamare “spazio”. Nella parte terza elabora tutta una questione che ci interessa perché riguarda il sapere. Nella sua Fisica, Aristotele sviluppa l’essenza del τόπος. Scrive nel IV libro, capitolo 4, che esso appare essere qualcosa di oltremodo possente e difficile da determinare, lo spazio. In un altro passo di Aristotele leggiamo che il τόπος è come un recipiente; allo stesso modo in cui questo è un luogo, e precisamente un luogo movibile, così, in una certa misura, all’inverso, il luogo è un recipiente inamovibile. Il tratto fondamentale dell’esperienza greca dello spazio è, dunque, il carattere del recingente, di un recipiente. τόπος in quanto recipiente, un libero recipiente che circonda. Spatium – σταδιον: lo sgombrare. Qualcosa che sgombera, lo stadio è sgombro, un luogo aperto. Qual è il rapportarsi di queste tre rappresentazioni dello spazio? Le prime due, in conformità alla cosa, si fondano in ciò che può essere esperito nello spazio e nel senso dello sgombrare. … “Bewißt” (è consaputo di) vuol dire: raccapezzarsi: ma dove? Nel mondo-ambiente, tra le cose; vale a dire, nel contempo, che il raccapezzarsi è un esser-rapportato a ciò che è dato in quanto oggetti. Qui si incomincia a vedere che il sapere, di fatto, non è niente altro che un raccapezzarsi tra le cose. Questa è la definizione più generica possibile. Poi, nel XVIII secolo, i termini “bewußt” (“conscio”) e “Bewußtein” (“coscienza”) ricevono il senso teoretico di relazione agli oggetti esperibili, per Kant alla natura in quanto ambito esperibile sensibilmente. (pagg. 209-210) … Si parla anche di coscienza “pura”. Questa è quel sapere, che non si riferisce solo a ciò che è percepibile sensibilmente, agli oggetti empirici, bensì anche a ciò che rende possibile l’esperibilità degli oggetti, cioè la loro oggettualità. L’oggettualità degli oggetti, vale a dire, l’essere dell’ente, è orientata alla coscienza. Ciò, fino a Husserl, lui compreso, lo si chiama idealismo moderno. Aggiunge, poi, qualche riga sulla nozione di intenzionalità. Intenzionalità vuol dire che ogni coscienza è coscienza di qualcosa, è diretta verso qualcosa. Non si ha una rappresentazione, bensì si rappresenta. Rappresentare = render presente; il re = indietro verso di me. Repræsentatio = il presentare a me, indietro verso di me, in cui io rappresento anche me stesso, tuttavia non esplicitamente. La questione del sapere, posta qui in questo modo, ci dice che cosa, propriamente? Che il sapere, così come è posto dal pensiero moderno, da Cartesio in poi, presuppone uno spazio e, quindi, uno spazio tale da essere misurabile. La questione riguarda il fatto che il sapere, per la scienza moderna, procede da un concetto di spazio misurabile. Passiamo a pag. 223. Il poter-essere, di volta in volta attuale, viene scorto a partire dall’esserci storico, propriamente in questo e quel modo essente nel mondo, di volta in volta attuale. Questo è un po' il fondamento di tutto il pensiero di Heidegger. In che modo io scorgo il mio poter essere, il mio progetto? Il poter essere riguarda il progetto? Dice che viene scorto a partire dall’esserci storico, propriamente in questo e quel modo essente nel mondo, di volta in volta attuale. L’esserci storico è attuale, perché in questo momento io sono quello che sono ma procedo da tremila anni di storia più tutta la mia personale, ovviamente. Il mio poter essere, il mio progetto, posso scorgerlo soltanto se tengo conto del mio essere storico, qui e in questo momento, cioè, di tutto ciò che mi ha portato ad essere qui e in questo momento. Solo a questa condizione, dice Heidegger, io posso scorgere il mio progetto, altrimenti no, altrimenti è chiacchiera. Storico è il modo in cui mi rapporto a ciò che si-fa-verso di me e che è presente e a ciò che è essente-stato. Storico è il modo in cui mi rapporto a ciò che mi viene incontro, non soltanto di ciò che è presente, ciò che mi circonda, e cioè la relazione che fa essere me quello che sono in questo momento, ma anche ciò che è stato, tre mila anni di storia più la mia personale, che mi ha condotto a essere quello che sono in questo momento. È questo che intende con storico. Ogni poter-essere verso qualcosa è un determinato confronto-critico con l’essente-stato riguardo a qualcosa che si-fa verso di me, verso di cui io mi risolvo. Quindi, ogni poter-essere, ogni progetto che, in quanto progetto è verso qualcosa, dice Heidegger, se è un vero progetto è un confronto critico, un confronto che analizza, mette a tema e problematizza l’essente-stato, ciò che io sono stato, ciò che ha fatto di me quello che sono in questo momento, e tutto ciò che ha fatto di me in questo momento è esattamente ciò che si fa verso di me, lo incontro, mi appare, mi si manifesta, e dice: è ciò verso di cui mi risolvo, è ciò verso di cui io vado se intendo seguire il progetto. La questione è importante, anche per la psicoanalisi di cui parla qua e là. Per Heidegger, ciò che Freud chiama nevrosi, non è nient’altro che il non riconoscere il proprio progetto: se non riconosco il mio progetto allora sono travolto dalla chiacchiera, dalle stupidaggini, dalle fantasie, dalle credenze, dalle superstizioni, ecc. Tutto questo non accade se, dice, … ve lo rileggo perché è fondamentale Il poter-essere, di volta in volta attuale, viene scorto a partire dall’esserci storico, propriamente in questo e quel modo essente nel mondo, di volta in volta attuale. Cioè, nel modo in cui di volta in volta questa storicità diventa ed è attuale. Il progetto per Heidegger non è il voler fare qualche cosa, il progetto è il porsi a fronte di ciò che mi ha costituito e mi ha fatto essere quello che sono, qui e in questo momento. Solo a questa condizione, secondo Heidegger, non sono travolto dalla astoricità, cioè dal considerare che ciò che mi accade, che ciò che mi circonda, sia quello che è e, quindi, devo fare i conti con qualche cosa che è quello che è. Sarebbe la realtà, la dura realtà, che è poi la causa di tutti i malanni. Invece, se io tengo conto che ciascuna volta sono in una relazione con tutte queste cose allora tutte queste cose con cui sono in relazione si rivolgono a me, nel senso che mi interrogano, non perché sono quelle cose lì ma perché lo sono per me in questo momento. È questa la questione che deve interrogare perché “lo sono in questo momento”. Se volete dirla in una parola, la questione è: perché penso quello che penso? In che modo queste cose mi vengono incontro? Mi vengono incontro in quanto prese in una relazione e quella relazione sono io in questo momento. Quindi, mi vengono incontro, nel modo in cui mi vengono incontro, perché io sono in questo momento in questa relazione con tutte queste cose, ecc. L’esser-ci autentico è questo: il non potere non tenere conto che in ciascun momento io sono quello che sono in base a tutte le relazioni che intercorrono per me in questo momento e che tengono conto di tutto ciò che io sono stato, di tutto ciò che mi condotto a essere quello che sono qui e adesso. Per dirla in modo più semplice, potremmo indicare quella particolare forma della linguistica che si chiama lessico, cioè il modo in cui io approccio il linguaggio secondo il mio modo, modo che ho appreso, imparato negli anni, che mi è stato indotto, che io ho modificato a seconda degli eventi, ecc. Tutte queste cose mi fanno vedere le cose nel modo in cui io le vedo, che è diverso dal modo di vedere di chiunque altro. Il fatto che siamo tutti nel linguaggio non significa che tutti vediamo le stesse cose anche se il linguaggio ha una struttura che è la stessa. Tutto ciò che io ho esperito, vissuto, cioè la mia storia, ha fatto di me quello che sono in questo momento, per cui uso certe parole anziché altre, uso certi concetti in un certo modo: questo è il mio modo di essere in questo momento, di essere presente qui, di volta in volta di essere presente qui, ma sempre e comunque, e non posso non esserlo, vincolato a ciò che mi circonda, che si rivolge verso di me nel modo in cui io sono in questo momento. Il “si rivolge” non prendetelo in termini antropomorfici.

Intervento: Di qui anche la difficoltà a definirsi…

Il soggetto, come concetto cartesiano, è qualcosa che è quello che è. Dopo Cartesio, il soggetto ha avuto una connotazione precisa, cioè, il soggetto è qualcosa che è quello che è, identificabile. Infatti, anche lo stesso Lacan, memore di tutto ciò, non sa più a un certo punto come combinarla con questo soggetto, che è immobile, e quindi lo barra per indicare che, sì, è soggetto, però è un soggetto barrato, quindi, non è più tanto soggetto, ecc.

Intervento: La storia…

Potremmo qui indicare la storia, con Heidegger, come un insieme di relazioni, la storia è questo. Poco dopo, a pag. 224, dice: L’esserci è sempre da vedersi in quanto essere-nel-mondo, in quanto prendersi cura delle cose e aver cura per il conessente, in quanto conessere con gli uomini che si fanno incontro, giammai in quanto soggetto per sé sussistente. L’esserci, inoltre, è da vedersi sempre in quanto star-dentro nello slargo (nel linguaggio, nel sapere di essere nel linguaggio), in quanto soggiornare presso ciò che si fa incontro, vale a dire, in quanto risoluta-apertura a ciò che si fa incontro concernendo. Se teniamo conto delle cose che diceva anche in altre occasioni intorno al logos, al logos che consente alle cose che si facciano incontro, quindi, si soggiorna presso il logos, presso ciò che consente alle cose di farsi incontro e, quindi, di esistere. Questo è importante, qui c’è la questione centrale. Potremmo dire, seguendo Heidegger, che il soggetto è un concetto della scienza, un concetto costruito dalla scienza per la scienza, per poter manipolare l’oggetto. Non solo l’oggetto ma anche il soggetto, basta trasformare il soggetto in oggetto, come avviene per esempio nella propaganda, e allora anche il soggetto diventa una cosa. Tutto questo è ciò che fa la scienza e la scienza non si trova, come dice lui, nel progetto autentico, non lo può fare. Stando a ciò che ui dice, la scienza è sempre inautentica, perché presuppone non che lo scienziato sia qualcuno che ha di fronte qualche cosa che è quello che è in base a ciò che è lui. Viene alla mente il detto di Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose.

Intervento: C’è una certa differenza tra manipolazione e prendersi cura.

Certo. Prendersi cura è tenere conto che questa cosa è quella che è per me perché io sono quello che sono in questo momento, non quello che sono ma quello che sono in questo momento, in base a tutte queste relazioni. Prendersi cura significa lasciare che queste cose possano continuare a dire. Se le manipolo, invece, le considero come oggetti, cose, quindi, devo pensare necessariamente che sono quello che sono e basta, fuori di me e, quindi, fuori del linguaggio.