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1 gennaio 2020

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Questo testo, la Fenomenologia dello spirito, ci sta portando dritti alla questione finale. Prima, però, Hegel in questo secondo volume fa alcune considerazioni intorno allo spirito. Lo spirito per Hegel non è soltanto coscienza, autocoscienza e ragione, lo spirito è anche il fare, nello spirito c’è l’opera, l’operare. Questo per Hegel è importante perché la questione morale comporta il che cosa fare oppure non fare, a seconda dei casi. Per questo lo interessa, a lui interessa intendere le figure attraverso le quali questo dovere morale si manifesta. Abbiamo visto la coscienza che si è posta con un’antinomia, ma Hegel lo dice in modo molto preciso. Siamo a pag. 162. L’antinomia della concezione morale del mondo, esserci una coscienza morale e non essercene nessuna; o essere la validità del dovere un al di là della coscienza e aver luogo, viceversa, soltanto in quest’ultima,… Questo era il problema. Nella coscienza si poneva una questione dove il Sé si poneva come l’in-sé, e cioè come l’immediato, come ciò che non è concettualizzato: io sono la legge e voi non siete niente. Hegel si interroga sulla questione della morale per via dell’agire, perché è quella che fa agire in una direzione oppure in un’altra, oppure fa anche non agire, come vedremo. A pag. 165. L’agire quindi, in quanto è l’attuazione, è la pura forma dl volere; è la mera inversione dell’effettualità… Sono io che voglio, non è che accade. …come caso nell’elemento dell’essere in una effettualità operata; l’inversione della mera guisa del sapere oggettivo nella guisa in cui l’effettualità è saputa come un prodotto della coscienza. Cioè: sono io che voglio fare, sono io che decido. A pag. 166. Secondo la coscienza io agisco moralmente quando sono consapevole di compiere solo il dovere puro, non già qualche cos’altro; ossia, in effetto, quando io non agisco. Ogni volta che io agisco, in questo mio agire non c’è più soltanto il dovere puro, ma c’è qualche cos’altro, c’è, per esempio, il mio agire, che già sposta la questione. E, infatti, lui diceva che il dovere puro non si può agire, perché se agisco è già qualche cos’altro. L’unico modo per non modificare questa cosa, per non viziarla con la mia azione, è non agire. Ma quand’io agisco davvero sono consapevole di un altro, di una effettualità che è data e di una ch’io voglio produrre; ho un fine determinato e compio un determinato dovere; in quest’atto c’è qualche cos’altro che non il puro dovere a cui soltanto dovrebbe volgersi l’intenzione. Per contro, la coscienziosità è la consapevolezza di questo: che quando la coscienza morale esprime il puro dovere come l’essenza del suo agire, tale fine puro è una distorsione della cosa; infatti la cosa stessa è che il dovere consiste nella vuota astrazione del puro pensare, e ch’esso ha la sua realtà e il suo contenuto solo in una effettualità determinata: effettualità la quale è effettualità della coscienza stessa, e di questa non come di un ente di ragione, ma come di un Singolo. Se faccio delle cose, queste cose che faccio sono già qualche cos’altro dal puro dovere. A pag. 167. Ciò meglio considerato nella sua unità e nell’importanza dei momenti, risulta che la coscienza morale intendeva sé solamente quale lo in-sé o l’essenza;… Come dicevamo prima, l’in-sé come “io sono io”. …ma come coscienziosità essa coglie il suo esser-per-sé o il suo Sé. Qui interviene un passo ulteriore, cioè la coscienziosità, o l’anima bella, di cui parleremo tra poco. La contraddizione della concezione morale del mondo si risolve; ossia, la differenza che le sta a base dimostra di non essere per nulla una differenza, e la contraddizione sbocca nella pura negatività; ma questa è proprio il Sé, un Sé semplice che è tanto puro sapere, quanto sapere di sé come di questa coscienza singola. Questo Sé costituisce quindi il contenuto dell’essenza dianzi vuota, perché è l’effettuale che non ha più il significato di essere una natura estranea all’essenza e indipendente entro leggi proprie. Come dire che a questo punto interviene il Sé ma tenendo conto anche dell’autocoscienza, quindi, del negativo. E, allora, succede questo nella coscienziosità: succede che non può più non tenere conto del negativo. Mentre nel primo caso il negativo era cancellato, in questo caso non può più non tenerne conto; però, non può ancora compiere una sintesi e, quindi, rimangono questi due estremi, la coscienza pura e la coscienza “cattiva”. Come risolve il problema? Questa coscienziosità incontra il Sé come altro da sé e dice a pag. 168: Tale essere per altro è dunque la sostanza in sé essente, distinta dal Sé. La coscienziosità non ha abbandonato il puro dovere o l’astratto-in-sé;… Rimane ma come momento separato. …il dovere anzi è il momento essenziale consistente nel comportarsi come universalità verso altri. … L’autocoscienza morale non ha questo momento dell’esser-riconosciuto, della pura coscienza esistente nell’elemento dell’esserci, e non è, quindi, per nulla coscienza agente e attuante. Sta dicendo che nel caso della coscienziosità la coscienza pura permane a fianco dell’essere per altro, ma questo essere per altro non ritorna nella coscienza, diventando così coscienza di essere altro, ma rimane un qualche cosa che è per altro. La coscienziosità, cioè, si trova nella condizione di non potere agire perché se agisce non è più coscienza pura; se non agisce allora questo suo sapere di sé, che pone comunque in prima istanza, diventa un sapere che deve comunicare agli altri, deve cioè dire agli altri che cosa è bene fare. Hegel è preciso su questo. A pag. 170. La coscienza coscienziosa è consapevole di questa natura della cosa e del proprio comportamento verso di essa; sa di non conoscere il caso in cui agisce secondo quest’universalità che si richiede;… Si rende conto che la sua volontà non è volontà universale. …e sa che la sua finzione di una tale coscienziosa ponderazione di tutte le circostanze è nulla. Non c’è nulla cui possa aggrapparsi per stabilire con certezza che ciò che dice è universale; e, allora, si limita a dirlo. Vale a dire, non può fondarlo su niente, non può fondarlo su un concetto, non può fondarlo su delle argomentazioni che lo supportino; ed è per questo che si limita a dire. L’anima bella non fa che dire ciò che è bene e ciò che è male, ma senza fare alcunché. Adesso vedremo perché non agisce. A pag. 174. …questo dovere universale è in genere ciò che è dato come sostanza in sé e per sé essente, come diritto e come legge, e che vale indipendentemente dal sapere e dalla persuasione ed anche dall’immediato interesse del singolo; è dunque proprio ciò contro la cui forma la moralità è in genere rivolta. Questo universale va contro la morale personale, se è universale deve essere uguale per tutti. Ma per quel che riguarda il suo contenuto, devesi dire che è anch’esso un contenuto determinato… Quindi, c’è una determinazione. …quindi la sua legge è tale che la coscienziosità se ne sa senz’altro libera, e si attribuisce allora l’assoluta facoltà di mettere e di levare, di omettere e di fare. È come se dicesse: c’è una certezza del Sé, una certezza che non può essere sostenuta da alcunché, però, c’è questa certezza; sa che non è universale, ma è come se la proponesse come universale. Come dire: mantiene l’universale, ma sa che non può sostenerlo argomentativamente, e allora lo professa: dico come sono le cose da farsi. Io, naturalmente, non faccio niente, però dico a voi che cosa è bene che facciate. E poi quella distinzione del dovere in dovere verso il singolo e in dovere verso l’universale, secondo la natura dell’opposizione in genere, non è nulla di stabile. Il dovere personale, il dovere universale, anche in questo caso non riesce la coscienziosità a stabilirlo con certezza, rimane qualche cosa di incerto, appunto di instabile. Anzi, ciò che il singolo fa per sé, torna anche a vantaggio dell’universale; quanto più egli ha procacciato per sé, non solo tanto più grande è la sua possibilità di rendersi utile agli altri; ma anche la sua stessa effettualità consiste unicamente nell’essere e nel vivere in solidarietà con altri; il suo godimento singolo ha essenzialmente il valore del dare con ciò ad altri quel che è suo e dell’aiutarli all’acquisto del godimento loro. Come dire che anche nel dovere singolo, personale, se uno lo mette può rivelarsi alla fine anche un vantaggio per tutti e non solo per sé. Quindi, si rende conto che non ci sono regole fisse da seguire, ma non se ne preoccupa. A pag. 175. La ponderazione e comparazione dei doveri, che qui si potrebbe fare, sfocerebbe nel calcolo della utilità che l’universale trarrebbe da un’azione; ma da una parte la moralità in questo modo cade in balìa della necessaria accidentalità dell’intellezione;… Siamo, cioè, nelle mani del destino, può succedere così come può anche non succedere. …dall’altra è nell’essenza della coscienziosità di tagliar corto con tali calcoli e tali valutazioni, e decidere da sé all’infuori di simili motivi. Perché non sa come trattarli, non sa come venirne fuori. E adesso arriviamo all’anima bella. A pag. 180. L’immediato sapere del sé certo di sé è legge e dovere… Questo nella coscienziosità. L’immediato sapere: io sono certo di quello che faccio, sono certo che le cose sono così, sono certo che questo è il bene. …la sua intenzione, proprio perché è la sua intenzione, è il giusto;… Se io so quello che faccio, quello che faccio è giusto.

Intervento: Il particolare coincide con l’universale.

Direi, piuttosto, che questa coincidenza è una parvenza, perché di fatto… …si richiede soltanto ch’esso sappia questo e quello, che esprima la sua persuasione che il suo sapere e volere è il giusto. Questo è ciò che si chiede al coscienzioso: di essere sicuro. L’enunciazione di tale assicurazione toglie, in se stessa, la forma della sua particolarità:… Se sono certo, vuole dire che la mia certezza è universale. Se fosse particolare sarebbe una mia convinzione e non una certezza universale. …riconosce in quest’atto la necessaria universalità del Sé e, dicendosi coscienziosità, dicesi puro saper-se-medesimo e puro volere astratto, ossia diesi un sapere e volere universali che riconoscono gli altri, che sono eguali agli altri, - gli altri infatti sono appunto un tale puro sapere e volere se stessi, - e che quindi vengono riconosciuti da loro. Questa coscienziosità è come se pretendesse di essere riconosciuta dagli altri, come se si aspettasse di essere riconosciuta dagli altri, perché anche gli altri, se pensano giusto, pensano come penso io. Nel volere del Sé certo di sé, in questo sapere che il Sé è l’essenza, consiste l’essenza del giusto. Un Sé certo di sé, una persona che è certa di sé: qui risiede il giusto. Chi dunque dice di agire così per coscienziosità parla il vero, ché la sua coscienziosità è il Sé nell’atto del sapere e del volere. Ciò, per altro, egli deve essenzialmente dire, perché questo Sé deve in pari tempo essere Sé universale. Deve dirlo agli altri. Questo essere per l’altro, il Sé in quanto differente poiché essere per altro, non torna sulla coscienza, rimane come un essere per l’altro. Ma il Sé non è universale nel contenuto dell’azione perché, in forza della sua determinatezza, il contenuto è in sé indifferente; mentre l’universalità sta nella forma dell’azione; e quel che è da porsi come effettuale è questa forma; essa è il Sé che come tale è effettuale nel linguaggio, che si pronuncia come il vero e che, proprio in quest’atto, riconosce tutti i Sé e vien da essi riconosciuto. Si effettua nel dire, cioè, questa effettualità, questa universalità, viene trasferita nel dire, semplicemente, non più nell’agire. Abbiamo visto che non può agire, perché agendo comunque questa azione non è più un’azione pura, non è più il dovere puro, e quindi non può agire, non può fare niente, può soltanto dire che cosa è bene per altro. Siamo all’anima bella, a pag. 181. Nella maestà della sua altezza oltre la legge determinata e oltre ogni contenuto del dovere, la coscienziosità pone dunque il suo contenuto scelto ad libitum nel suo sapere e nel suo volere; essa è la genialità morale che sa la voce interiore del suo sapere immediato… Me lo sento dentro, sento che è così: quante volte capita di sentire questa cosa. …come voce divina e che, - siccome in questo sapere sa altrettanto immediatamente l’esserci, - è la creatività divina avente nel suo concetto la vitalità. La genialità morale è anche il servizio divino in se stesso, ché il suo agire è l’intuizione di questa sua propria divinità. Questo solitario servizio divino è in pari tempo essenzialmente il servizio divino di una comunità; e il puro e interiore sapere e avvertire se stesso passa a momento della coscienza. Questo puro sapere interiore, questo sapere di sé, questo sapere che io so, diventa la coscienza, diventa la persona stessa. L’intuizione di sé è la sua esistenza oggettiva, e questo elemento oggettivo è l’enunciazione del suo sapere e volere come di un universale. Con questo enunciare, il Sé si mette in valore, e l’zione diventa operazione esecutiva. L’effettualità e il sussistere dell’operare del Sé sono l’autocoscienza universale; ma l’enunciazione della coscienziosità pone la certezza di se stesso come Sé puro e quindi universale; gli altri lascian valere l’azione in forza di tal discorso nel quale il Sé è espresso e riconosciuto come l’essenza. Io sto parlando in quanto ispirato, perché io so come stanno le cose, ma, sapendo come stanno le cose, le pongo ovviamente come un universale e, quindi, succede che gli altri, vedendo in me questa assoluta certezza nell’esprimere un universale, credono davvero che io stia dicendo delle verità universali. Lo spirito e la sostanza della loro unione è dunque la reciproca assicurazione della loro coscienziosità, delle loro buone intenzioni, è il rallegrarsi di questa reciproca purezza, è il ristorarsi all’onestà del sapere e dell’esprimere, del fare e procacciare di tanta eccellenza. Potremo dire che l’anima bella è quella posizione tale per cui la persona non agisce, sa qual è il bene, lo dice agli altri, cioè, dice loro che cosa è bene che facciano e che non facciano, ma si astiene dall’agire. Qual è, per esempio, la posizione attuale dell’anima bella? Pensate a quella cosa che oggi si chiama buonismo o politicamente corretto, che risponde a quei requisiti di cui parla Hegel rispetto all’anima bella, e cioè è una posizione che non è sostenibile concettualmente, non c’è nessuna concettualità a fondamento, non c’è un discorso vero e proprio che la sostenga; semplicemente, come dice Hegel, è qualcosa di divinamente ispirato, che però non agisce, si astiene dall’agire, anzi, combatte chi agisce. Si ritrova semplicemente a non fare quelle cose che, facendole, diventerebbero “cattive”, una coscienza cattiva. La coscienza cattiva non è niente altro che quella coscienza che l’anima bella deve eliminare, ma che comunque deve fare esistere per poterla denunciare. L’anima bella ha bisogno della coscienza cattiva per potere esistere; quindi, se la crea, crea il nemico contro cui combattere, cioè, colui o coloro che rappresentano i cattivi. Solo a questo punto l’anima bella può fare sfoggio della sua ispirazione divina, perché ci sono i cattivi che, facendo delle cose -perché questo semplicemente fanno -, sono, di fatto, la controparte dell’anima bella, cioè, ciò che l’anima bella non può accogliere, perché sennò dovrebbe accogliere l’eventualità che quello che afferma non sia necessariamente così, e quindi crollerebbe tutta l’ispirazione divina, e allora che cosa fa? La mette nella coscienza cattiva, nei cattivi, e una volta messa lì la combatte. Capite che ne ha bisogno come dell’aria che respira per potere esistere. A pag. 183. La coscienza vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno;… Infatti, qual è il maggiore terrore dell’anima bella, del buonismo? È quello di ferire il sentimento altrui, di turbare il sentire di qualcun altro, perché macchierebbe la purezza della sua coscienza. …e per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell’effettualità e s’impunta nella pervicace impotenza di rinunziare al proprio Sé affinato fino all’ultima astrazione e di darsi sostanzialità, ovvero di mutare il suo pensiero in essere e di affidarsi alla differenza assoluta. Diventa soltanto pura astrazione e questa differenza tra l’anima bella e il cattivo diventa una differenza assoluta. Differenza che poi non è niente altro che la differenza che c’è tra la coscienza e l’autocoscienza, tra un elemento e il suo negativo, che per Hegel sono inscindibili; l’anima bella, invece, ne fa una differenza assoluta e lo fa per non macchiare la purezza della sua coscienza. Quel vuoto oggetto ch’essa si produce la riempie ora dunque della consapevolezza della vuotaggine; il suo operare è l’anelare che non fa se non perdersi nel suo farsi oggetto privo di essenza, e che ricadendo, oltre questa perdita, in se stesso, si trova soltanto come perduto; - in questa lucida purezza dei suoi momenti, una infelice anima bella, come la si suol chiamare, arde consumandosi in se stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell’aria. L’espressione “anima bella” non è inventata da Hegel, lui l’ha tematizzata ma è già presente in Plotino. Diciamo che ciò che caratterizza l’anima bella è la paura di macchiarsi, di macchiare la sua purezza, attraverso l’agire, attraverso l’azione; per questo motivo non fa assolutamente niente. Il momento oggettivo in questa coscienza si è sopra determinato come coscienza universale; il sapere che sa se stesso è, come questo Sé, distinto da altri Sé; il linguaggio nel quale tutti si riconoscono l’un l’altro come agenti coscienziosamente, questa universale eguaglianza, si disgrega nell’ineguaglianza del singolo esser-per-sé; ed ogni coscienza è similmente riflessa dalla sua universalità senz’altro in se stessa; così si fa avanti necessariamente l’opposizione della singolarità verso gli altri singoli e verso l’universale; ed ora si deve considerare questa relazione ed il suo movimento. – Ovvero, questa universalità e il dovere hanno il significato diametralmente opposto della singolarità determinata isolantesi dall’universale, per la quale il puro dovere è soltanto l’universalità spintasi alla superficie e volta verso l’esterno; il dovere sta solo nelle parole a vela come un essere per altro. Lo spirito coscienzioso diretto da prima sol negativamente verso il dovere inteso come questo determinato, dato dovere, se ne sa libero;… L’anima bella si sa libera dal dovere fare qualche cosa perché è presa da questa idea di essere divinamente ispirata e, di conseguenza, di non avere più la necessità di fare niente, anche perché sa che se fa qualche cosa, qualunque cosa faccia, macchia la sua purezza. Per questo dirà a breve come l’anima bella se la prenda immediatamente contro chi fa qualcosa. A pag. 185. …il suo puro Sé, come sapere vuoto, è ciò che è privo di contenuto e di determinazione; il contenuto che lo spirito coscienzioso gli dà è preso dal suo Sé come questo Sé determinato, è preso da sé come individualità naturale; e mentre nel parlare della coscienziosità del suo agire lo spirito coscienzioso è consapevole del suo Sé puro, nel fine del suo agire come contenuto effettuale è consapevole di sé come di questo speciale singolo, nonché dell’opposizione di ciò ch’esso è per sé e di ciò che esso è per altri; dell’opposizione, cioè, dell’universalità o del dovere e del suo esser riflesso da quest’ultimo. Sta dicendo che la coscienziosità sa che se fa qualche cosa, se solo muove un dito, già questo suo agire comporta immediatamente uno spostamento dall’universale, che professa, al particolare: per questo non può agire, perché soltanto se si mantiene nell’assoluta inanità può professare l’universale e mostrarlo; se solo agisce questo universale diventa particolare, diventa suo. Infatti, lo precisa così. A pag. 186. Questo ritorno nell’eguaglianza di questa ineguaglianza… Ineguaglianza perché ovviamente c’è una differenza tra l’universale e il particolare, ma lui, il coscienzioso, deve mantenere l’eguaglianza dell’universale e, quindi, togliere il particolare. …data nell’ipocrisia, non si è già avverato allorché l’ipocrisia, come si suol dire, dimostra il suo rispetto per il dovere e la virtù, assumendone la parvenza e servendosene di maschera per la coscienza propria non meno che per l’altrui; riconoscimento dell’opposto nel quale sarebbero contenuti in sé l’eguaglianza e l’accordo. Questo opposto deve farlo sparire a tutti i costi. In questo sta l’ipocrisia, cioè nel sapere che le cose non stanno così, che la sua volontà non è la volontà universale, ciò nondimeno la pone come volontà universale. Non potendo agire, non può che divulgarla, diffonderla. A pag. 187. Chi dunque dice di trattare gli altri secondo la sua legge e la sua coscienziosità dice nel fatto di maltrattarli. Io tratto gli altri secondo la mia coscienza, ritengo la mia coscienza universale, ma non lo è; quindi, trattando con gli altri, di fatto, li maltratto, li tratto male, nel senso che cerco di piegarli a quella cosa che io sto proponendo come universale. Ma la coscienziosità effettuale non è questa insistenza sul sapere né sul volere opponentesi all’universale; sì bene l’universale è l’elemento del suo esserci, e il suo linguaggio esprime il suo operare come il dovere riconosciuto. La coscienziosità effettuale, quella che si effettua, quella che si fa, dice, non è questa insistenza sul sapere ma è l’elemento del suo esserci; proprio per questo non può esimersi dallo scontrarsi comunque con l’effettuale. Altrettanto poco è smascheramento e risoluzione del giudizio. Mentre la coscienza universale denuncia l’ipocrisia come cattiva, spregevole, ecc., in tal giudizio si richiama alla propria legge… Io so come stanno le cose, so qual è il bene e il male, quindi, so giudicare che tu stai facendo male. …come la coscienza cattiva si richiama alla propria. Quella infatti si mette in opposizione con questa e si mostra così come una legge determinata; essa non ha dunque alcuna preminenza sull’altra… È questo che costringe all’inazione l’anima bella: sa di non avere nulla di prioritario sull’altro, nulla di argomentativamente più potente rispetto a qualunque altra posizione. …ché anzi la legittima. Come dicevo prima, il cattivo mi legittima in quanto io posso dire che lui è cattivo e, quindi, mostrare qual è la legge universale. …e simile zelo fa proprio il contrario di ciò che esso reputa di fare, vale a dire mostra ciò che esso chiama vero dovere e che deve essere universalmente riconosciuto come qualcosa di non-riconosciuto, e conferisce quindi all’altro l’egual diritto dell’esser-per-sé. Riconosce il cattivo; combattendolo deve riconoscerlo. A pag. 188. Nella purezza essa si è conservata buona perché non agisce; essa è l’ipocrisia che vuol che si prenda il giudizio per l’azione effettuale,… Io giudico ed è come se nel mio giudicare avessi fatto cose. Naturalmente, non ho fatto niente, ho solo detto quello che mi pare. …e che dimostra la sua dirittura, anziché con l’azione, con la proclamazione di eccellenti disposizioni. La coscienza del dovere, dunque, è costituita in tutto e per tutto come quella alla quale si rivolge il rimprovero di mettere il dovere solo nel suo discorrere. L’anima bella si fonda sulla chiacchiera, né più né meno. In entrambe il lato dell’effettualità è egualmente distinto dal discorso, nell’una per via del fine egoistico dell’azione, nell’altra per via della carenza dell’azione in genere, la cui necessità è già contenuta nel parlare di dovere, perché il dovere senza operazione manca di ogni significato. Sì, parli di dovere, ma non fai assolutamente niente; e allora questo dovere non significa niente. A pag. 189 ci dice una cosa divertente. Come ogni azione è suscettibile di venir considerata secondo la sua conformità al dovere, similmente è suscettibile di venir considerata secondo la particolarità;… Ogni azione viene valutata in base, sì, al dovere ma anche in base alla situazione particolare. …ché, come azione, essa è l’effettualità dell’individuo. Per Hegel la persona è quello che fa. Quindi, capite bene che non può accogliere nulla dell’anima bella, ché non fa assolutamente niente. Tale giudicare leva dunque l’azione del suo esserci – la persona – e la riflette nell’interno o nella forma della propria particolarità. Se l’azione – il fare di qualcuno – è ammantata di gloria quel giudicare – sottinteso: dell’anima bella – saprà quell’interno come bramosia di gloria; - se l’azione è in generale conforme alla condizione sociale dell’individuo, senza oltrepassarla, e così fatta che l’individualità non si trovi addosso questa condizione come una determinazione esteriore, anzi riempia da se stessa tale universalità e si mostri proprio per questo capace di qualcosa di più alto, allora il giudizio saprà l’interno di quell’azione come brama d’onore, ecc. Siccome nell’azione in generale l’elemento agente giunge all’intuizione di se stesso nell’oggettività o al sentimento di sé nel suo esserci, e consegue, quindi, il godimento, allora il giudizio saprà l’interno come impulso verso una felicità propria, quand’anche questa consista soltanto nell’interiore vanità morale, nel godimento che la coscienza ha della propria eccellenza, e nella pregustazione della speranza di una felicità futura. Nessuna azione può sfuggire a un tal giudizio perché il dovere per il dovere, questo fine puro, è l’ineffettuale;… Questo dovere puro è qualcosa che non si può effettuare in nessun modo; se si effettua, ecco che c’è un secondo fine: questo dice l’anima bella. …il fine puro ha la sua effettualità nell’operare dell’individualità e l’azione ha quindi in sé il lato della particolarità. È inevitabile. Non c’è eroe per il suo cameriere; e non già perché quello non sia un eroe, ma perché questo è un cameriere; con il quale l’eroe non ha a che fare come eroe, ma, in generale, nella singolarità del bisogno e della rappresentazione, ossia come essere che mangia, beve e veste panni. Similmente per il giudicare non c’è azione nella quale esso non possa contrapporre il lato della singolarità individuale al lato universale della azione, né possa far all’agente il cameriere della moralità. L’anima bella si pone come il cameriere, che deve trovare necessariamente il male in chiunque faccia qualche cosa, perché il male sta nel fare – se fai, fai male, necessariamente –, perché il puro dovere comporta l’ineffettualità, non può effettuarsi. L’anima bella è come se si ponesse a guardiano di questa ineffettualità; non agisce e pretende che nessuno agisca e se qualcuno agisce gli mostra la malvagità del suo agire. Di conseguenza tale coscienza giudicante è essa stessa spregevole perché divide l’azione, e produce e fissa la diseguaglianza dell’azione con l’azione medesima. Inoltre quella coscienza è ipocrisia perché non spaccia affatto siffatto giudicare per un’altra maniera d’esser cattivi, ma per la giusta consapevolezza dell’azione, esaltando sé, - in questa sua ineffettualità e vanità del sapere bene e meglio, - al di sopra dei fatti svalutati, mentre pretende che il suo inoperoso discorrere sia preso per un’eccellente effettualità. Quindi, vedete bene come stia descrivendo una situazione che non solo è molto diffusa ma anche molto presente, e cioè l’idea che non solo non si debba fare niente ma che nessuno debba fare niente, deve restare assolutamente immobile. Se io ho deciso che il dovere puro è ineffettuale, allora nessuno deve metterlo in atto, nessuno deve fare niente. A pag. 192. Ora, in quanto lo spirito certo di se stesso, come anima bella, non possiede la forza di alienare quel sapere di lei stessa il quale si mantiene in sé,… Non ha la forza del concetto e, come direbbe Hegel, non si fa carico del peso, della fatica, del concetto. …essa non può giungere all’eguaglianza con la coscienza che è stata ripudiata e quindi nemmeno all’intuita unità di lei stessa nell’altro,… Questo tipo di coscienza non potrà mai giungere al Sapere assoluto. …l’eguaglianza si avvera quindi soltanto negativamente, come un essere privo di spirito. Essere privo di spirito, cioè, che non fa niente. L’anima bella priva di effettualità, nella contraddizione del suo puro Sé e della necessità che questo ha di alienarsi ad Essere e di mutarsi in effettualità; nell’immediatezza di questa opposizione fissata, - immediatezza che è soltanto il medio e la conciliazione della contraddizione portata alla sua pura astrazione e che è puro essere o il vuoto nulla, - l’anima bella, dunque, come coscienza di questa contraddizione nella sua inconciliata immediatezza… Inconciliata immediatezza, cioè, non riesce a conciliare il Sé con l’altro da sé. …è sconvolta sino alla pazzia e si consuma in tisiche nostalgie tale coscienza abbandona in effetto il duro persistere del suo esser-per-sé, ma produce soltanto l’unità non spirituale dell’essere. Cioè, un’unità che non agisce. Il duro persistere del suo esser-per-sé è il persistere dell’altro, della pura negatività, della negatività assoluta; quella che a un certo punto rende la coscienza effettivamente co-scienza e la porta al Sapere assoluto. Questo, naturalmente, avviene attraverso un passaggio, che per Hegel è la religione, dove non c’è più questa idea di sapere qual è il dovere giusto perché il dovere è depositato in un dio. La parte dedicata alla religione è una parte su cui si è soffermato molto Kojève e, quindi, faremo questo percorso sulla religione insieme con Kojève. Religione come passaggio; la religione compie se stessa nel momento in cui si annulla, e si annulla nel momento in cui diventa, per usare le parole di Hegel, antropologia, cioè, compie quell’operazione di riportare Dio sulla terra. In questo caso, ciascuno ha l’occasione di accorgersi che tutto che attribuiva a Dio, in realtà, era lui. È per questo che a Hegel interessa la religione: come questo passaggio che porta la religione stessa alla fine, secondo Hegel, ad autoannientarsi. Giungeremo così all’ultimo capitolo di una ventina di pagine, alla conclusione della Fenomenologia dello Spirito, che è il Sapere assoluto. Questo discorso sull’anima bella non è che sia così teoreticamente interessante; sì, certo, mostra delle modalità attraverso cui si manifesta la volontà di potenza, ma al di là di questo; però, è un aspetto abbastanza conosciuto e il lavoro di Hegel andava comunque preso in considerazione, se non altro per fare qualche riflessione sull’andamento attuale delle cose. Il testo di Hegel è una tale infinita miniera di cose da pensare che non si finisce mai. Il “politicamente corretto” non ha nessun concetto a fondamento, però ha la forza di chi lo propugna come una virtù, come un qualche cosa che deve essere messo in atto da tutti, e chi non lo fa è cattivo. Deve essere riconosciuti da tutti e tutti quanti non debbono fare niente e, quindi, neanche mettere in discussione una cosa del genere. Se lo si fa già si compie quell’operazione che per Hegel, rispetto all’anima bella, è problematica, perché comporta già fare qualche cosa e, quindi, immediatamente l’anima bella trova il motivo cattivo per cui si mette in discussione la cosa stessa.

Intervento: Il politicamente corretto, il buonismo, ecc., possono anche avere delle motivazioni di carattere storico. Sembra, tuttavia, che queste motivazioni siano state dimenticate al punto che l’anima bella parla non più sulla base di quelle motivazioni ma per ispirazione divina.

Non possono essere accolte queste considerazioni teoriche perché accogliendole si mette in discussione, ci si accorge che non è universale ma un modo di pensare, un modo di approcciare delle cose, che vale quanto il suo contrario: questo è il problema. Per Hegel non è un problema, nel senso che chiaramente questa cosa accoglie la sua contraria, perché soltanto accogliendo la contraria si integra e diventa un Sapere assoluto, quindi, un sapere che non è più unicamente fondato su una supposizione o su dettagli, ma è un sapere del linguaggio, che è l’unico Sapere assoluto. Per cui è vero quello che dice, non deve essere messa in discussione questa cosa; discutendone c’è la possibilità di coglierne i punti deboli e, quindi, si metterebbe in discussione l‘universalità dell’anima bella. Come dire che si potrebbe arrivare al punto di dire che le cose non stanno proprio così, ma stanno in un altro modo.